La prima parola che mi viene in mente per significare il tutto è spudoratezza. Ma poi, a dire il vero, ne seguono molte altre. Ne faccio una breve rassegna che comprende pure qualche binomio: spregiudicatezza, spudoratezza, voluta ignoranza, revisionismo e negazionismo storici, convenienza politica, coerenza postfascista, nostalgismo, inaderenza costituzionale, aridità, supponenza, menzogna, falsità.
Se noi mettessimo a capo di un esercito in stile prussiano un uomo come Ghandi, chiunque noterebbe la contraddizione, sarebbe palesissima la dicotomia, la enorme iperbole che si andrebbe figurando anche soltanto in forma di ipotesi, appunto, per assurdo. Così pure se noi facessimo di Gramsci un teorico del fascismo, della restaurazione degli antichi e fatali destini della Roma imperiale tante amata dal regime di Mussolini, ci troveremmo nuovamente dentro un iperbolismo paradossale piuttosto che nell’esercizio di un revisionismo storico sottile e pericoloso.
Così, oggi, se pensiamo alla seconda carica dello Stato italiano, alla Presidenza del Senato della Repubblica, e la immaginiamo per quello che è, ricoperta da un postfascista come Ignazio La Russa, sarebbe un sollievo per un attimo cullarsi nell’illusione di essere proprio all’interno di una distopia politico-istituzionale, di una specie di vuoto cosmico, di assenza di gravità costituzionale, di persistenza nell’esagerazione iperbolica.
Invece, purtroppo, disgraziatamente siamo nella realtà: perché grazie a leggi elettorali incostituzionali, le forze politiche di molte parti e molti colori, da anni arrivano a governare il Paese con maggioranze artefatte, artificiose, lontane dalla volontà popolare numericamente espressa nella scelta delle liste presenti sulle schede: a partito più grande si danno ancora più seggi e a partito più piccolo un calcio nel posteriore e fuori dal Parlamento con anatemizzante ignominia.
Un po’ tante sono le condizioni che permettono alle destre di fare la voce grossa contro la Costituzione, pur giurandovi sopra; contro la democrazia, pur affermando di adorarla; contro la Storia stessa, pur asserendo di esserne i più fedeli interpreti in questa modernità che esigerebbe un ulteriore passo e salto in avanti rispetto a quell’inizio di pacificazione e di unità memoriale del passato novecentesco che invece, più che legittimamente, dovrebbe essere divisivo e rimarcare sempre chi sta dalla parte dei valori resistenziali e dell’antifascismo, su cui la Repubblica si fonda, e chi invece pensa che si dovrebbe alterare questo equilibrio.
Le destre pensano che questo status quo, stabilito dall’Assemblea costituente nel corso dei suoi lavori, tra il 1946 e la fine del 1947 senza la presenza di alcuna forza che si richiamasse apertamente al fascismo appena sconfitto, debba essere oggetto di revisione e, per supportare al meglio un processo di lenta erosione delle fondamenta democratiche dello Stato, portanto il Paese verso quel presidenzialismo che, associato alla dissociativa e divisiva controfiforma calderoliana sull’autonomia differenziata, darebbe seguito ad un corto circuito di particolarismi difficile da fermare.
Le parole del Presidente del Senato e della Presidente del Consiglio sui fatti del 1944 accaduto in Roma, tra via Rasella e le Cave Ardeatine, si inquadrano perfettamente nel filone della involuzione anticivile, antidemocratica e a-costituzionale di una destra di governo che mette insieme una serie di comportamenti e di dichiarazioni che formano, alla fine, un grande oltraggio alla memoria, alla Storia, alla distinzione tra vittime e carnefici, tra antifascisti e fascisti, tra partigiani e nazifascisti, tra chi ha permesso la rinascita della nazione dopo venti e più anni di criminale dittatura mussoliniana.
La gravità delle affermazioni di Meloni sui criteri di scelta degli uomini da mandare al massacro omicidiario voluto da Hitler, eseguito da Kappler e dai suoi accoliti servitori della repubblichina di Salò, non riguarda solamente il piano storico ma anche quello politico: un esponente di governo dovrebbe essere il primo a tramandare i valori su cui l’Italia si è rifondata a metà del Novecento e che, tutt’ora, permettono nella più ampia libertà di parola anche a chi vuole dire le peggiori sciocchezze.
Quando ancora era inimmaginabile che una carica dello Stato potesse essere interpretata pro tempore da un ex o post-fascista, quando cioè era viva la vergona del dirsi fascisti e del farlo sapere, a parte i militanti esagitati dell’MSI, e pertanto quando la maggior parte di chi votava per la fiamma tricolore (presente nel simbolo di Fratelli d’Italia…) lo faceva davvero nel segreto segretissimo dell’urna, capitò a Vittorio Foa di trovarsi in un dibattito televisivo con davanti il senatore Giorgio Pisanò, nostalgicissimo del ventennio.
Pisanò inanellava già allora discorsi sulla pacificazione, sull’evidenza di una condivisione di valori che prescindessero tanto dal fascismo quanto dall’antifascismo e finì, inevitabilmente, sul tema dei vivi e dei morti e del rispetto equanime che gli si doveva: storicamente, politicamente, eticamente.
Vittorio Foa, che può ben essere considerato uno dei padri costituenti, uno dei fondatori della Repubblica Italiana, gli si rivolse con una arguzia unica e lo apostrofò così: «I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore».
Basterebbe questo aneddoto gustoso a far capire quale differenza passa tra antifascisti e fascisti, di ieri e di oggi. Ma siccome la protervia lisergica delle destre vuole rimestare nel torbido, incistare la verità su un aggrovigliamento di interpretazioni che fuorviano dai fatti e danno seguito ad un substrato disarmante di alterità, di controvertibilità della Storia nel nome del superamento delle ideologie prima e delle incrostazioni divisive poi, non è possibile pensare di lottare contro tutto questo solo con l’appello alla ragionevolezza, alla buona fede e alla corretta enunciazione degli accadimenti.
Quando le destre ci parlano, siamo in prensenza di qualcosa di più della sempliciotta propaganda elettorale e governativa: siamo nella malafede appressa durante la storia del bugiardismo missino, coltivata nell’altro ventennio, quello berlusconiano.
Ci troviamo a difendere prima di tutto l’oggettività, la fattualità di quello che ci capita, per smentire una serie di frustrazioni e repressioni personali e collettive che guardano alla religione come ad un culto quasi di superiorità morale, ad uno Stato etico se si discute di diritti civili e di libertà personali, ad un intendimento del nucleo familiare come ad una naturalità che prescinde dagli affetti e che li contempla solo se c’è uno ius sanguinis alla base del vivere (in)civile.
Per carità di patria, di dio e di tutto quello d’altro che vi passa per la mente: non esiste una forza politica che non sia scevra dalla parzialità, dalla ristrettezza anche del proprio campo visivo su temi tanto sociali quanto civili, etici, morali in senso stretto e lato.
Ma, un conto è essere parziali nel rispetto dei valori costituzionali, della Repubblica, del Parlamento, della democrazia imperfetta che claudica sempre, traballa ma rimane in piedi; un altro conto è, invece, adoperare la democrazia per controvertirla, per sovvertirla e per superarla, prima o poi, attraverso quel finto consenso popolare che è, il più delle volte, una reazione infelice ad una disperazione prettamente economica, di sopravvivenza esangue quotidiana in un mondo di predoni e di criminali dell’alta finanza e del capitale.
Tante volte, sui giornali e in televisione, si far riferimento alla mancanza di una vera destra liberale in Italia.
E’ una osservazione corretta: il berlusconismo ha impedito che, dopo l’epoca del Pentapartito, si potesse formare nel Paese una sorta di nuovo PLI dai tratti meno conservatori (e in passato anche un po’ filo-monarchici) per raggruppare parte di quella diaspora democristiana che sarebbe finita in mille rivoli, mentre la sinistra comunista si divideva tra socialdemocratici pronti a governare sulla base di compromessi con il centro e neocomunisti pronti all’opposizione di classe, all’alternativa politica e sociale.
Ma la responsabilità dell’emersione del peggio della destra italiana, fino alla scalata di Palazzo Chigi e della presidenza di entrambe le Camere, non è completamente merito della fase berlusconiana e del lavacro svoltista del MSI a Fiuggi. L’aver pensato, a sinistra, che fosse possibile interloquire con queste destre, fare un percorso politico insieme sul terreno, ad esempio, delle riforme istituzionali, dopo aver aperto ad una considerazione di una condivisione della memoria che pacificasse il Paese, è stato un errore di sorpavvalutazione della conversione democratica dei post-fascisti.
La sinistra socialdemocratica e post-comunista ha archiviato la sua vicinanza alla lotta dei lavoratori, alla classe sociale, abbracciando nuovi orizzonti, sposando il punto di vista del mercato e votandosi ad esso per la risoluzione di problemi collettivi e pubblici che il privato non può abbracciare e condividire. Per ruolo, per la posizione che occupa in questo capitalismo distruttivo. La destra, invece, ha cambiato pelle, ha aggiornato il suo vocabolario ma ha conservato i suoi intenti di andare oltre la democrazia parlamentare, oltre l’antifascismo e l’egualitarismo sostanziale dei cittadini sulla base dei diritti tanto sociali quanto civili.
La destra diversifica non per valorizzare le differenze stesse ma per stigmatizzarle e colpevolizzare quella povertà che è vista come debolezza connaturata in chi pretende troppo e si adopera poco per elevarsi ai gradi più alti della società.
Questa destra, in particolare, fintamente sociale come lo era stato il fascismo mussoliniano, che solo nei seicento giorni di Salò tentò un recupero su questo terreno accidentato per evitare le sollevazioni e gli scioperi della classe operaia, è due, tre volte pericolosa: nel pervertire i fatti storici cambia anche la realtà contingente, continuando a mostrare pericoli laddove vi sono grandi disagi e strazi indicibili.
Ancora una volta divide il povero dal povero, per nazionalità, per origine, per etnia, per colore della pelle, per credo religioso, per cultura e per intendimento politico: lo fa per evitare l’unità delle critiche sociali, delle opposizioni civili, delle contraddizioni insite nel sistema che, altrimenti, diventerebbero insormontabili.
Dalla politica di sovvertimento della memoria e della Storia, fatta attraverso le esternazioni delle più alte cariche dello Stato e di governo, si può far discendere una analisi più specifica e particolareggiata, che osservi il fenomeno nella sua esplicita volontà di essere qualcosa di altro rispetto ad una battuta, ad una considerazione estemporanea, ad una voce dal sen fuggita.
In tutto ciò vi è un calcolo preciso, dinamico, che non si ferma mai e che riguarda un pervasivo, nemmeno più carsico, tentativo di rendere accettabile l’inaccettabile, storicamente attendibile il fantasioso, includibile nel consesso democratico quanto di più antidemocratico vi possa essere.
Saranno anche “frasi di distrazione di massa“, per evitare che si parli dei guai sul PNRR e delle due ore di colloquio tra il Presidente della Repubblica e Giorgia Meloni, ma non se può lasciare passare una senza controbattere. Perché finché c’è chi si frappone a questi orrori controstorici, a questi tentativi di capovolgimento del reale, una certa barriera alla degenerazione totale permane, la si riconosce e la si difende.
Nel momento in cui l’acquiescenza divenisse la normalità, la consuetudine e prendessa la via della tradizione sociale e politica, il contraccolpo anticritico sarebbe fortissimo e metterebbe in discussione il consesso civile, la nostra malmessa ma pur sempre democratica Italia, il nostro pensarci liberi solo se consapevoli del rischio di poter perdere quella libertà che, come tutti i diritti, non è per sempre, ma va difesa e riconquistata giorno dopo giorno.
MARCO SFERINI
1° aprile 2023
foto: elaborazione propria, screenshot