Nella ricchissima cinematografia italiana tra gli anni ’60 e ’70, tra le opere di Federico Fellini e quelle di Michelangelo Antonioni, tra le commedie di Mario Monicelli e gli ultimi film di Luchino Visconti, tra le inquietudini di Marco Ferreri e il mondo di Bernardo Bertolucci, tra i film d’inchiesta e quelli sociali, si svilupparono anche altri generi destinati ad influenzare il cinema mondiale. Da una parte i cosiddetti “spaghetti-western” di Sergio Leone che, tra l’altro ebbero il merito di lanciare il fresco novantenne Clint Eastwood, dall’altra i thriller e gli horror di Dario Argento che si fusero magnificamente nel suo film più conosciuto e apprezzato, Profondo rosso.
I film di tensione e dell’orrore si erano già affacciati nel cinema italiano grazie a due registi tanto bravi quanto dimenticati. Il primo era Riccardo Freda (Alessandria d’Egitto, 24 febbraio 1909 – Roma, 20 dicembre 1999) autore colto e raffinato che la critica, rigorosamente impegnata sul fronte del neorealismo, prese poco in considerazione. Realizzò numerosi film storico-avventurosi di ispirazione letteraria, tra questi: Don Cesare di Bazan (1942) con Gino Cervi e Paolo Stoppa, I miserabili (1948) tratto Victor Hugo con uno sconosciuto Marcello Mastroianni e Il cavaliere misterioso (1948) con Vittorio Gassman al suo primo ruolo da protagonista e la debuttante Gianna Maria Canale (Reggio Calabria, 12 settembre 1927 – Sutri, 4 gennaio 2009), seconda a Miss Italia nell’anno della vittoria di Lucia Bosé, con la quale il regista iniziò un intenso rapporto dentro e fuori dal set. Successivamente Freda realizzò: Vedi Napoli e poi muori (1951) un dramma sentimentale, Spartaco – Il gladiatore della Tracia (1953) poi comprato per 50000 dollari dai produttori dello Spartacus di Stanley Kubrick per impedirne una riedizione e Da qui all’eredità (1955) con Domenico Modugno.
Successivamente Freda diresse pellicole che il regista stesso chiamava alla francese, d’épouvante, dell’orrore appunto. Il capostipite di questo nuovo filone fu I vampiri (1957), con la Canale per l’ultima volta diretta dal compagno, primo del genere in Italia arricchito da notevoli effetti speciali, fu poco compreso all’epoca al punto che i produttori modificarono diverse sequenze ingaggiando un altro regista. Il film fu un insuccesso e costrinse Freda a proseguire la carriera accodandosi alla moda del mimetizzarsi dietro nomi anglosassoni. Così con lo pseudonimo di Robert Hampton realizzò, tra gli altri, Caltiki, il mostro immortale (1959) con una sorta di blob che cresce con le radiazioni, L’orribile segreto del dr. Hichcock (1962) e Lo spettro (1963) intepretati da Barbara Steele. In Francia, dove le sue pellicole erano sempre state apprezzate, il cineasta venne nominato “Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere” (Ordre des arts et des lettres), tra i pochi italiani in elenco Paolo Conte, Umberto Eco e Nanni Moretti. Riccardo Freda morì nel 1999, dimenticato da tutti, praticamente in miseria e in odio col mondo del cinema.
Il secondo autore che portò sul grande schermo orrore e mistero, fu non casualmente il regista chiamato a portare a termine I vampiri, il suo nome era Mario Bava (Sanremo, 31 luglio 1914 – Roma, 25 aprile 1980). Figlio del direttore della fotografia Eugenio Bava (Gardone Riviera, 4 giugno 1886 – Roma, 23 ottobre 1966) tra i massimi esperti nel periodo del muto italiano, curò anche gli effetti speciali di Cabiria, Mario, dopo aver lavorato negli anni della Seconda guerra mondiale all’istituto Luce manipolando documentari di propaganda per enfatizzare le vittorie italiane (alcune clamorosamente inventate), divenne operatore nel film Il socio invisibile (1939), diretto da Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, padre di Sergio Leone. In seguito fu collaboratore di Francesco De Robertis e Roberto Rossellini, quindi curatore della fotografia di numerose pellicole, tra queste anche alcune di Riccardo Freda (su tutte il lavoro fatto per I vampiri), ed infine regista a tempo pieno. Dopo aver realizzato alcuni documentari, infatti, Mario Bava passò al lungometraggio con La maschera del demonio (1960) eccellente horror divenuto oggetto di culto, per poi realizzare, talvolta con lo pseudonimo di John Old, La ragazza che sapeva troppo (1963) un innovativo thriller e I tre volti della paura (1963), un horror che, grazie alla presenza nel cast del grande Boris Karloff, ebbe una importante distribuzione nel Regno Unito, finendo per lasciare anche un segno nella storia della musica. Nel 1970, infatti, il bassista Geezer Butler, che aveva visto il film di Bava, propose alla sua band di cambiare nome. Il cantante di quel gruppo si chiamava Ozzy Osbourne e la band, che accolse l’idea del bassista, decise di chiamarsi col titolo internazionale del film, Black Sabbath.
Seguirono nella filmografia di Mario Bava: Sei donne per l’assassino (1964) altro bel thriller, Operazione paura (1966) film dell’orrore con Giacomo Rossi Stuart, padre del più famoso Kim, ed altre pellicole che anticiparono il genere pulp, su tutte Cani arrabbiati (1974). Tutti film a bassissimo costo, all’epoca ignorati in Italia, ma ammirati in Francia e negli Stati Uniti. Per sua stessa ammissione Quentin Tarantino deve molto al regista italiano. Poi giunse al cinema Dario Argento che, pur ispirandosi a Freda e soprattutto a Bava, fu capace di dare un nuovo significato alle parole tensione e orrore.
Nella sua famiglia la pellicola era di casa. Il padre Salvatore Argento (Roma, 8 febbraio 1914 – Roma, 19 aprile 1987), di origini siciliane, aveva fatto la Resistenza tra le fila di Giustizia e Libertà e dopo, essere stato funzionario negli organismi statali della cinematografia, l’Unitalia Film, era diventato un produttore cinematografico. La madre Elda Luxardo (1915-2013) nata in Brasile, ma originaria di Santa Margherita Ligure, era, invece, un’affermata fotografa di moda, sorella dell’ancor più conosciuto Aldo, attivo principalmente negli anni ’30 e ’40 al punto da diventare, dopo aver sposato la tedesca Trude Kraus, interprete ufficiale di Albert Kesselring a Roma, fotografo per la X MAS.
Salvatore Argento e Elda Luxardo ebbero tre figli, Dario nato a Roma il 7 settembre del 1940, Claudio venuto al mondo il 15 settembre del 1943, e la più piccola Floriana. Vivevano a Roma in via Principessa Clotilde, all’ultimo piano di un palazzo in stile umbertino che dava su piazza del Popolo. Il salotto di quel lussuoso appartamento era frequentato da Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini, Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Per Dario, Claudio e Floriana, sebbene con percorsi e ruoli diversi, fu inevitabile avvicinarsi al cinema.
Dario, tutt’altro che un “bambino prodigio”, lasciò gli studi al secondo anno di liceo, ritenendosi incompreso dai professori, in particolar modo da quello di italiano, materia nella quale il futuro regista si riteneva portato, per poi scappare di casa e, ad appena sedici anni, lasciare l’Italia per trasferirsi a Parigi. Nella capitale francese Argento rimase un anno, vivendo di espedienti, facendo il lavapiatti e immergendosi nell’universo dei clochard. Tra i “trucchi” elaborati per sopravvivere c’era quello di scrivere al padre chiedendo il denaro per tornare a casa, per poi vendere puntualmente il biglietto aereo che la famiglia gli inviava.
Rientrato in Italia nel 1957 Dario Argento iniziò a lavorare presso il quotidiano “Paese sera”, testata legata al PCI, prima come tipografo, poi come correttore di bozze, prova che aveva ragione a lamentarsi del professore di italiano, quindi come collaboratore della pagina degli spettacoli ed, infine, come vice di Maurizio Liverani, titolare della critica cinematografica.
Se da bambino Argento era poco interessato al cinema, gli piacevano un po’ i melodrammi e i peplum, la sua collaborazione a “Paese sera” accrebbe la curiosità e affinò il gusto. Guardò tutto o meglio, come sottolineava, “Tutto purché sia cinema”. Le sue recensioni si caratterizzavano da una verve polemica a sostegno dei film di genere (western, gialli, guerra), dei lavori di Riccardo Freda e Mario Bava, in aperto contrasto con la critica alta che si concentrava solo sui grandi autori e i grandi temi. Un atteggiamento che in breve tempo lo fece divenire un “personaggio scomodo” all’interno del quotidiano romano. Il futuro regista iniziò così a scrivere anche di balletto, di musica, di letteratura fino a curare la terza pagina di “Paese sera”.
Cambiò anche la sua vita privata. Dario Argento, infatti, il 4 aprile del 1966 sposò Marisa Casale, una bella ragazza, amica e compagna di scuola della sorella Floriana. La cerimonia si tenne in municipio alla presenza si soli cinque invitati: il fratello Claudio, il giornalista di “Paese sera” Ennio Palocci, l’amico regista Raimondo Del Balzo, lo scrittore Antonio Troiso e un fotografo. Una scelta forse frettolosa, in aperto contrasto col la rigidità delle rispettive famiglie che, con l’esclusione di Claudio, non erano state nemmeno invitate. Dall’unione di Dario e Marisa, il 3 gennaio 1950, nacque Fiorella Argento, per tutti Fiore. Il loro rapporto finì nel 1972.
Tornando al cinema, dopo qualche visita sul set di Giulietta degli spiriti di Fellini, la sorella Floriana ne era diventata segretaria e confidente, e una breve apparizione del secondo film diretto da Alberto Sorsi, Scusi, lei è favorevole o contrario? (1966), Dario iniziò a frequentare con sempre maggiore assiduità le sale romane.
In una di queste, un giorno poco prima del Natale del 1966 alle ore 15, era in programma Il buono, il brutto, il cattivo. In sala il regista Sergio Leone, il critico di “Paese sera” Dario Argento e un altro regista che quel pomeriggio voleva distrarsi un po’ dopo gli insuccessi dei suoi primi due film, La commare secca e Prima della rivoluzione, il suo nome era Bernardo Bertolucci. Argento, che aveva sempre apprezzato il lavoro dei due cineasti, fece le presentazioni di rito. Fu un incontro fondamentale per loro e per la storia del cinema.
Pochi giorni dopo, infatti, Sergio Leone convocò di due giovani negli uffici di Alberto Grimaldi, il produttore cinematografico che per primo aveva intuito il potenziale del cinema western all’italiana, e li mise sotto contratto. Voleva realizzare un nuovo film, che non ricalcasse gli schemi della cosiddetta “Trilogia del dollaro”. Fece vedere loro Johnny Guitar con Starling Hayden e, soprattutto, Joan Crawford, perché il western poteva essere anche declinato al femminile. Così, dal gennaio all’aprile del 1967 Leone, Bertolucci e Argento lavorarono fianco a fianco, scrivendo a sei mani nientepopodimeno che C’era una volta il West.
Quell’esperienza convinse Dario Argento a lasciare progressivamente la critica cinematografica per dedicarsi alla scrittura di film, ovviamente di genere: il poliziesco Qualcuno ha tradito (1967), i western Oggi a me… domani a te (1968) e Une corde, un Colt (Cimitero senza croci, 1969), il noir Comandamenti per un gangster (1968), il film di guerra Commandos (1968) e altre pellicole tutte frettolosamente catalogate come B movies, eccezion fatta per Metti, una sera a cena (1969) diretto da Giuseppe Patroni Griffi.
Argento pensava solo a scrivere, nutriva, infatti, una certa diffidenza nei confronti di produttori, noleggiatori, esercenti, clientele e favori, che mal si conciliavano con le sue convinzioni politiche. Lo sceneggiatore si era, infatti, iscritto al PCI, fu un trauma per il padre liberale. Non solo. Quando scoppiò il ’68 divenne uno degli esponenti più accesi del “Sessantotto cinematografico” e si avvicinò a Potere Operaio. Conobbe e frequentò Oreste Scalzone, Franco Piperno e Nanni Balestrini. Ancora oggi Argento si definisce un uomo di sinistra. Recentemente ha dichiarato che a Salvini, “Per quello che dice, per quello che fa, per quello che vuole fare e che speriamo non faccia”, farebbe interpretare il ruolo dell’assassino in uno dei suoi film.
La scrittura rimaneva, tuttavia, la sua passione. La sera del Capodanno 1968 a casa di Bertolucci insieme ad altri amici, Argento fu colpito da un vecchio romanzo, edito per la prima volta negli anni Cinquanta, intitolato “La statua che urla” (“The Screaming Mimi” in originale) del giallista Fredric Brown. Bernardo, benché avesse un anno di meno, era ormai un regista di professione, e lo aveva ipotizzato come base di un suo film, ma il progetto si era fermato. Suggerì pertanto all’amico il romanzo dicendogli: “forse tu riuscirai a a cavarci qualcosa di buono”.
Il libro era già stato portato sul grande schermo nel 1958 da Gerd Oswald, regista tedesco scappato dalla Germania nazista, con Anita Ekberg come protagonista, ma quel film The Screaming Mimi (La statua che urla), oltre ad ottenere scarso successo al botteghino, non piacque nemmeno ad Argento che, proprio per questo, dopo aver divorato il libro di Fredric Brown decise di accantonare il progetto.
Ci ripensò poco tempo dopo, complice anche gli incubi dovuti ad un’indigestione di cous cous durante una vacanza con la moglie in Tunisia, e confezionò una nuova sceneggiatura tra il giallo e il thriller. Decise di farla leggere in anteprima all’amico Bernardo per un parere. Bertolucci, come scambio di cortesia, gli chiese un’opinione su una sua sceneggiatura tratta da un romanzo di Alberto Moravia, Il conformista. Bellissimo per il futuro regista. Ma anche lo scritto di Argento, ancora senza titolo, non era male secondo l’amico, che lo incoraggiò ad andare avanti.
Da quel momento le carriere di Bernardo Bertolucci e Dario Argento decollarono, seguendo però strade diverse. Salvo rare eccezioni, infatti, i due non si incontrarono più, ma rimase in loro il ricordo vivissimo di aver cominciato insieme. “La nostra amicizia, breve ma così intensa, è stata una delle cose più belle che mi siano mai capitate” ricorderà Argento nella sua autobiografia “Paura”.
Forte dell’approvazione di Bertolucci, lo sceneggiatore propose lo scritto ad un produttore romano che, benché interessato al soggetto, si disse poco fiducioso sul successo di un thriller in Italia e suggerì all’autore di ambientare almeno la vicenda in Francia. Ma per Argento la forza e l’originalità della sua sceneggiatura risiedeva nel fatto che il racconto era ambientato in una moderna metropoli italiana (il romanzo di Fredric Brown si svolgeva, invece, a Chicago). Argento continuò a cercare un produttore, ma il suo scarso senso diplomatico e i “nemici” fatti durante la sua attività da critico gli impedirono di trovare sia un produttore, sia un regista disponibile. Tutto sembrava finire nel dimenticatoio fino a quando il padre Salvatore, che credeva nel progetto del figlio, si interessò alla sceneggiatura e fondò appositamente la SEDA spettacoli S.p.A., dall’unione dei due nomi Salvatore e Dario Argento, con la quale si fece carico di larga parte dei costi di lavorazione. Ma mancava ancora il regista e fu così, un po’ per caso come spesso accade nella storia del cinema, che Dario Argento passò dietro la macchina da presa.
Il debuttante regista “attinse” a piede mani dalle sue amicizie in ambito cinematografico. Da Giuseppe Patroni Griffi “prese in prestito” l’attore protagonista Tony Musante (Bridgeport, 30 giugno 1936 – New York, 26 novembre 2013) conosciuto sul set di Metti, una sera a cena; tramite Bernardo Bertolucci contattò il giovane e allora sconosciuto Vittorio Storaro (Roma, 24 giugno 1940) per curare la fotografia; Sergio Leone gli “prestò” per la colonna sonora un compositore d’eccezione, Ennio Morricone (Roma, 10 novembre 1928). Il resto dello staff fu composto da giovani come lui alle prime armi. Nel cast, oltre a Musante, Enrico Maria Salerno, Suzy Kendall, Eva Renzi e Umberto Raho, più volte diretto da Freda e Bava.
Tutto era pronto. Mancava il titolo che venne fuori per caso. Una sera in un ristorante di Trastevere ad Argento venne l’idea di abbinare due parole apparentemente in contrasto la solida fisicità dei volatili – il becco, gli artigli – con la fragilità del cristallo. Nacque L’uccello dalle piume di cristallo, nei cinema dal 19 febbraio 1970. Nel film il giovane scrittore americano Sam Dalmas (Tony Musante, che durante le riprese sfiorò la rissa con lo stesso regista) è testimone del tentato omicidio di una donna in una galleria d’arte romana, che la donna, Monica Ranieri (Eva Renzi), gestisce insieme al marito Alberto Ranieri (Umberto Raho). Sul caso indaga il commissario Morosini (Enrico Maria Salerno) con l’aiuto di Sam che non riesce a focalizzare un dettaglio dell’aggressione che ritiene fondamentale. Mentre il killer continua a mietere vittime e minaccia il giovane americano e la sua fidanzata Giulia (Suzy Kendall). Ma nulla è come sembra…
Dario Argento, mutuando elementi di Riccardo Freda e Mario Bava, creò un nuovo genere di thriller dove lo spettacolo non è semplicemente caratterizzato dallo spargimento di sangue, ma da sottili notazioni psicologiche e da una ricca galleria di forte sensazioni (incluso il doppio finale). L’uccello dalle piume di cristallo rimane uno dei migliori gialli italiani, ma alla sua prima uscita nel nord Italia fu un insuccesso. Il film ottenne un riscontro di pubblico solo nelle sale del meridione e, a seguito di questo, venne recuperato anche a Milano e Torino, come seconda visione, dove resistette un anno in programmazione. Gli incassi superarono il miliardo di lire (il film era costato 250 milioni). Arrivarono anche i primi premi per Dario Argento: la targa “Mario Gromo” al miglior regista esordiente a Saint Vincent e il Globo d’oro come Miglior opera prima. Ma al di là dei dati al botteghino e dei riconoscimenti formali L’uccello dalle piume di cristallo (a proposito il volatile del titolo, l’Hornitus Nevalis, è in realtà una comune gru) mostrò tecnica e intuizioni da parte di Argento (come i fermo immagine dei ricordi) e impose molte figure e maniere che fecero scuola: il killer con guanti, cappello e impermeabile nero, l’uso di coltelli e rasoi, le soggettive dell’assassino, le telefonate dello stesso con la voce distorta, l’uso ansimante della colonna sonora.
Per il regista fu quindi un successo che continuò anche nel successivo Il gatto a nove code (1971) con Karl Malden (Chicago, 22 marzo 1912 – Brentwood, 1 luglio 2009), già premio Oscar per A streetcar Named Desire (Un tram che si chiama Desiderio, 1952), poi magnifico interprete in On the waterfront (Fronte del porto, 1955) entrambi diretti da Elia Kazan, entrambi al fianco di Marlon Brando. Ma forse Malden viene maggiormente ricordato per la serie TV The Streets of San Francisco (Le strade di San Francisco) con un giovane Michael Douglas. Nel cast anche James Franciscus e Catherine Spaak. Un bel giallo in cui due giornalisti indagano su una serie di omicidi legati a progetti top secret di un’azienda farmaceutica. Il film meno amato da Argento, ma comunque gradevole, il cui titolo, come esplicita una battuta del film, riassume le piste investigative da seguire. Grande prova di Malden nei panni di un giornalista cieco.
Il lavoro successivo di Dario Argento fu 4 mosche di velluto grigio, uscito il 17 dicembre 1971. Inferiore alle precedenti la pellicola racconta le vicende di un batterista che, convinto di aver ucciso un uomo, viene perseguitato e ricattato da un maniaco, che uccide tutti quelli che si avvicinano alla verità. Stonano gli intermezzi comici della coppia formata per l’occasione da Bud Spencer e Oreste Lionello e il cliché del detective gay interpretato dal francese Jean-Pierre Marielle, ma non mancano le scene di suspense. Nel cast anche Michael Brandon, Mimsy Farmer e Stefano Satta Flores. Per la terza volta le musiche furono curate da Ennio Morricone. Le mosche del titolo si riferiscono, secondo una teoria parascientifica, all’immagine rimasta impressa nella retina di una vittima.
I tre film rappresentarono un successo senza precedenti per il genere thriller e in epoche di trilogie, da quella del “dollaro” di Leone (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo) a quella della “vita” di Pasolini (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) fino a quella della “nevrosi” di Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto), venne chiamata la “Trilogia degli animali”.
Nonostante gli incassi al botteghino e la crescente popolarità, Argento, ribattezzato un po’ confusamente l'”Hitchcock italiano”, maturò l’idea di non voler più dirigere un film (“ero davvero esausto di avere a che fare con produttori esigenti, attori nevrotici e compromessi di ogni sorta”). Voleva solo scrivere e produrre nuove storie per dare linfa al genere thriller di cui era divenuto maestro indiscusso. La prima idea venne indirettamente proprio dal regista di Psycho. Dario Argento, infatti, propose alla RAI che lo aveva contattato, una serie TV in stile Alfred Hitchcock presents. Nacque così La porta sul buio, una serie antologia composta da quattro episodi (Il vicino di casa, Il tram, La bambola, Testimone oculare) prodotti e presentati dallo stesso Argento, che firmò anche il secondo film con lo pseudonimo di Sirio Bernadotte.
Nell’attesa che la serie andasse in onda (oggi è comodamente visibile su RAI Play) Argento scrisse col poeta Nanni Balestrini, conosciuto in Potere operaio, un film di critica sociale e politica che nulla c’entrava con i suoi lavori precedenti (ne con quelli successivi). All’epoca si stava, infatti, sviluppando un filone di film storici, tra questi Er piú – Storia d’amore e di coltello prodotto dal padre Salvatore Argento e diretto da Sergio Corbucci con Adriano Celentano come protagonista. La sceneggiatura era ambientata durante le Cinque giornate di Milano e i personaggi protagonisti, un ladruncolo e un panettiere, erano finiti quasi per caso in mezzo ai moti rivoluzionari. Se i ruoli inizialmente vennero pensati per Alberto Sordi e Nino Manfredi, ben presto il carattere “rivoluzionario” dello scritto portò a scegliere Ugo Tognazzi. La regia era affidata a Nanni Loy che presto abbandonò il progetto. Tognazzi, per rimanere, impose Argento come regista, ma anche l’attore, per imprecisati motivi, lasciò il set. Ricordandosi di Er piú, il regista contattò quindi Celentano che accettò. Le cinque giornate, prodotto da Salvatore e Claudio Argento, uscì nelle sale il 20 dicembre 1973. Non un capolavoro, ma da vedere. Utile anche perché “convinse” Dario a riconsiderare l’addio alla regia.
Sul set di questa digressione “contro storica”, Dario Argento conobbe e si innamorò dell’attrice Marilù Tolo (Roma, 16 gennaio 1944). Fu una relazione breve e burrascosa. Ma su quel set, quando ormai Le cinque giornate era quasi terminato, al regista venne in mente un nuovo soggetto. Un thriller, un giallo con elementi horror, che secondo le intenzioni dell’autore avrebbe lasciato le platee di tutto il mondo senza fiato. L’idea iniziale ruotava intorno alla figura di una medium che percepisce i pensieri di un assassino, spunto accantonato per 4 mosche di velluto grigio. Nel progetto venne coinvolto anche Bernardino Zapponi (Roma, 4 settembre 1927 – Roma, 11 febbraio 2000) grande sceneggiatore capace di spaziare da Federico Fellini a Tinto Brass, da Mario Monicelli a Luciano Salce, da Dino Risi a Sergio Corbucci. Tra i suoi film Fellini Satyricon e Il marchese del grillo. Durante la stesura della sceneggiatura Argento si soffermò di più sulle parti parti horror, Zapponi sulla trama gialla.
Terminato il sodalizio artistico con Ennio Morricone, Argento per le musiche contattò addirittura i Pink Floyd che, impegnati nella registrazione di “Wish You Were Here”, declinarono l’invito. Il regista chiamò così il jazzista Giorgio Gaslini (Milano, 22 ottobre 1929 – Borgo Val di Taro, 29 luglio 2014) già al suo fianco per la seria La porta sul buio e per Le cinque giornate. Per il film il musicista compose diversi brani, su tutti una inquietante nenia infantile, una musichetta tutta dissonante, cantata da una voce femminile accompagnata da un carillon. La voce era quella di Maria Grazia Fontana (Canino, 16 gennaio 1959), all’epoca tredicenne, ma oggi vocalist, direttrice di coro polifonico e docente di musica italiana, tra le sue collaborazioni quelle con Giorgia e Noemi.
Molti brani composti da Gaslini, tuttavia, non convinsero Argento. Li considerava troppo jazz e poco inquietanti. La collaborazione tra i due finì. Il regista si rivolse così a Carlo Bixio (Milano, 18 dicembre 1941 – Milano, 28 febbraio 2011), l’editore che già in passato si era occupato delle colonne sonore dei suoi film. Dopo l’impossibile richiesta di avere i Deep Purple, Argento accettò di ascoltare la demo di un gruppo italiano che faceva rock progressive. Si chiamavano Oliver e, seppur con diversi innesti, ruotavano attorno alla figura del fondatore Claudio Simonetti (San Paolo, 19 febbraio 1952). Il gruppo registrò la colonna sonora del film e cambiò nome. Gli Oliver divennero i Goblin.
Pezzo dopo pezzo, il quarto film di Dario Argento stava prendendo forma, ma non aveva ancora un titolo. Il primo dato dal regista, un po’ per prendere in giro i giornalisti facendo credere che la nuova pellicola avrebbe ricalcato le precedenti, fu La tigre dai denti a sciabola. Titolo quanto mai credibile visto che la “zoofilia” era entrata prepotentemente nel cinema basti pensare, oltre al film di Argento, a Non si sevizia un paperino (1972) il capolavoro di Luciano Fulci. Durante la lavorazione la nuova pellicola assunse il titolo di Chipsiomega, l’unione delle ultime tre lettere dell’alfabeto greco, così come quello di 4 mosche di velluto grigio era stato Alfabetagamma. Poi Dario Argento scelse di evidenziare già dal titolo le tinte forti del suo film. Una tinta in particolare che dava colore, tra scenografia e sangue, al film. Il titolo definitivo divenne così Profondo rosso.
La sceneggiatura, che ebbe più stesure, ruotava attorno alla figura di un pianista di musica jazz che, dopo aver assistito all’efferato omicidio di una medium, si mette sulle tracce dell’assassino insieme ad una giovane giornalista. Per il ruolo maschile Argento ipotizzò Lino Capolicchio che, impossibilitato a seguito di un incidente stradale, fu costretto a rinunciare. La scelta cadde quindi su David Hemmings (Guildford, 18 novembre 1941 – Bucarest, 3 dicembre 2003), aveva debuttato in Blow-Up di Michelangelo Antonioni, sinonimo di garanzia, e in più suonava davvero il pianoforte.
Delicato anche il ruolo femminile. A contrario dei suoi film precedenti, in cui il regista aveva lasciato un po’ di se nelle figure maschili, per la prima volta Argento lasciò un po’ del suo vissuto nella figura della giornalista che racchiudeva molte delle sue ambizioni e delle sue aspirazioni risalenti ai tempi di “Paese Sera”. Per la parte Bernardino Zapponi gli suggerì di fare il provino ad una ragazza che aveva studiato all’Accademia d’arte drammatica, faceva televisione, teatro e per il cinema aveva recitato diretta da Francesco Rosi, Carmelo Bene e, soprattutto, da Elio Petri nel film La proprietà non è più un furto. Era bellissima. Il suo nome di battesimo parlava da solo, si chiamava Daria Nicolodi (Firenze, 19 giugno 1950). L’attrice non solo fu scelta per il film, ma entrò a far parte della vita del regista.
Nel cast anche Gabriele Lavia (Milano, 11 ottobre 1942), una delle figure più importanti del teatro italiano negli ultimi decenni, che per il cinema aveva appena girato Il sospetto di Francesco “Citto” Maselli; Macha Méril (Rabat, 3 settembre 1940) già apparsa, tra gli altri, in Belle de jour (Bella di giorno, 1967) di Luis Buñuel; Eros Pagni (La Spezia, 28 agosto 1939) attore, regista e doppiatore, che divenne anni dopo la voce del sergente istruttore Hartman in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick; Giuliana Calandra (Moncalieri, 10 febbraio 1936 – Aprilia, 25 novembre 2018) più volte diretta da Lina Wertmüller e Sergio Corbucci; Glauco Mauri (Pesaro, 1 ottobre 1930) più attore di teatro che di cinema, era comunque stato tra i protagonisti de La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio; Furio Meniconi (Roma, 22 febbraio 1924 – Roma, 12 dicembre 1981) caratterista tra i più presenti nei western; Liana Del Balzo, pseudonimo di Eliana Del Balzo (Buenos Aires, 4 marzo 1899 – Roma, 26 marzo 1982) attrice con centinaia di pellicole alle spalle; e i piccoli Nicoletta Elmi (Roma, 13 febbraio 1964), nipote di Maria Giovanna Elmi, che ottenne grande popolarità interpretando Benedetta nella serie I ragazzi della 3ª C e Jacopo Mariani (Roma, 19 settembre 1965) al primo ruolo cinematografico.
Forte del successo internazionale ottenuto dai film precedenti, Argento pensò ad una grande distribuzione all’estero di Profondo rosso col titolo Deep red. Per questo decise di far recitare tutte le attrici e tutti gli attori in lingua inglese. Tutti tranne una, il suo nome era Clara Calamai (Prato, 7 settembre 1909 – Rimini, 21 settembre 1998). L’attrice divenne celebre negli anni del Fascismo con decine di film in costume: da Ettore Fieramosca (1938) di Alessandro Blasetti a Boccaccio (1940) di Marcello Albani, da Capitan Fracassa (1940) di Duilio Coletti a La cena delle beffe (1942), ancora diretta da Blasetti, pellicola in cui la Calamai fu ripresa per meno di un secondo a seno nudo (18 fotogrammi pari a 0.75 secondi), il primo della storia nel cinema italiano (anche se su questo c’è grande dibattito in un “primato” conteso con Vittoria Carpi e Doris Duranti) che costò al film il divieto ai minori di 16 anni e all’attrice l’anatema delle gerarchie ecclesiastiche. L’anno seguente Clara Calamai venne diretta da Luchino Visconti in Ossessione, primo adattamento cinematografico del romanzo “The Postman Always Rings Twice” (“Il postino suona sempre due volte”), poi reso celebre dalle interpretazioni di John Garfield e Lana Turner. Nel dopo guerra l’attrice, che a contrario di altri interpreti quali Doris Duranti, Luisa Ferida o Osvaldo Valenti, non aveva aderito la Fascismo, continuò a recitare per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta. Profondo rosso fu il suo ultimo film.
Per Dario Argento erano importanti gli interpreti, ma lo erano anche i luoghi. Per questo il regista disegnò una città da incubo tra Roma, Perugia e Torino. L’idea era quella di disorientare la percezione geografica dello spettatore. Le riprese si svolsero dal 9 settembre al 19 dicembre 1974. Della Capitale sono gli interni girati nel Mausoleo di Santa Costanza, nei teatri di posa De Paolis, nella scuola e le angoscianti vie cittadine. Nel capoluogo umbro vennero girate le immagini nel cimitero ebraico. Torino, invece, offrì le ambientazioni più inquietanti: il Teatro Carignano, dove curiosamente la Calamai aveva girato nel 1940 Addio giovinezza!; la centralissima Piazza C.L.N., ovvero Comitato di Liberazione Nazionale, che divenne spettrale e arricchita da un inquietante bar inesistente nella realtà, ispirato ad una celebre opera del pittore Edward Hopper e soprattutto Villa Scott. Situata nell’elegante zona pre collinare di Torino, l’edificio liberty fu costruito nel 1902 dall’architetto Pietro Fenoglio su commissione di Alfonso Scott, al tempo amministratore delegato della Rapid una casa automobilistica italiana fallita nel 1921… fare auto nella città della FIAT non si rivelò una grande idea. Nel 1974 l’edificio, ribattezzato Villa Fatima, ospitava un collegio femminile ed era di proprietà dell’ordine delle Suore della Redenzione. Fu scelta da Argento durante uno dei suoi “riflessivi” viaggi in auto. Per girare le scene la produzione pagò alcune settimane di villeggiatura a Rimini per suore e giovani collegiali. Oggi, nonostante villa Scott sia divenuta un’abitazione privata, è meta di turisti proveniente da mezzo mondo.
Le scenografie, curate da Giuseppe Bassan, furono arricchite dai quadri di Enrico Colombotto Rosso. Per gli effetti speciali Dario Argento poté contare sulla collaborazione di Germano Natali e di Carlo Rambaldi (Vigarano Mainarda, 15 settembre 1925 – Lamezia Terme, 10 agosto 2012) che di li a poco avrebbe vinto due Oscar per Alien e ET. Il montaggio fu realizzato da Franco Fraticelli (Roma, 30 agosto 1928 – Roma, 25 aprile 2012). Profondo rosso uscì nelle sale di Roma e Milano il 7 marzo 1975.
Prologo (inserito nei titoli di testa). Delle ombre su una parete mostrano un omicidio. Un urlo, una nenia infantile, i piedi di un bambino, un coltello insanguinato. Il pianista jazz Mark Daly (nei titoli di coda presentato come Marcus, interpretato da David Hemmings) prova col suo gruppo e li rimprovera per essere “troppo pulitini” nel suono (forse una critica dello stesso Argento a Giorgio Gaslini). Poco distante è in corso un convegno di parapsicologi e occultisti presieduto dal professor Giordani (Glauco Mauri). Nella riunione la medium Helga Ulmann (Macha Méril) percepisce in sala una presenza sinistra, assassina, e parla di un canto di bambini e di una misteriosa villa. Qualcuno dalla sala si alza dalla poltrona e si e si reca in una toilette. Indossa guanti neri, osserva un disegno infantile dal soggetto truculento (una persona accoltellata), infilza un pupazzo. La medium scossa rientra in casa dove viene massacrata da qualcuno in cerca dei suoi appunti. Dalla piazza sottostante assistono impotenti al delitto Mark e Carlo (Gabriele Lavia) amico musicista nel vicino piano bar. Il jazzista, che abita nello stabile, si precipita nell’appartamento della donna, ma ormai è troppo tardi. Sul posto giungono la polizia guidata dal commissario Calcabrini (Eros Pagni) e la disinvolta e intraprendente giornalista, Gianna Brezzi (Daria Nicolodi). Mark dichiara di aver visto uscire dal palazzo il probabile assassino coperto da impermeabile, guanti e cappello nero e chiede alla polizia se ha tolto o spostato un quadro dal luogo del delitto, perché è sicuro di aver visto un particolare importante (i quadri inquietanti nell’appartamento sono quelli di Enrico Colombotto Rosso). Inizia così una duplice indagine, quella della polizia e quella dello stesso Mark aiutato dalla giornalista in cerca di scoop. Il jazzista interroga il professor Giordani e cerca Carlo nella speranza che l’amico, con lui al momento dell’omicidio, abbia notato qualcosa. Si imbatte nella vecchia madre (Clara Calamai) una ex attrice con problemi di senilità che mostra orgogliosa le foto dei suoi vecchi film (quelli veri della vera Calamai), ma scopre solo che l’amico è omosessuale. Nel frattempo l’assassino comincia a minacciare Mark, introducendosi nel suo appartamento e tentando di ucciderlo. Il giovane non si scoraggia: scopre in un disco una nenia infantile che l’assassino gli aveva fatto ascoltare durante l’attentato alla sua vita, e attraverso il libro “Fantasmi di oggi e leggende nere dell’età moderna” risale all’esistenza di una vecchia villa dove quella canzone era echeggiata più volte. Un edificio ribattezzato la villa del bambino urlante. L’autrice del libro Amanda Righetti (Giuliana Calandra) abita in una casa isolata e, appena la governante Elvira (Liana Del Balzo) si allontana, viene barbaramente trucidata, dopo essere stata terrorizzata con la canzone e una bambola impiccata, nella propria abitazione. Riesce tuttavia a scrivere con il vapore il nome dell’omicida nella stanza da bagno, ma anche Giordani, che è accorso e ha letto il nome, è orrendamente ucciso in casa. Mark nel frattempo ha trovato la villa e, ottenute le chiavi dal custode Rodi (Furio Meniconi), è accompagnato dalla figlia Olga (Nicoletta Elmi) nell’edificio ormai disabitato. Sempre più in sintonia con Gianna, il pianista si accorge che rispetto alla foto sul libro, alla villa manca una finestra. Vi torna nottetempo; trova un graffito infantile dallo stesso soggetto del disegno tanto caro all’assassino (realizzato dall’architetto fiorentino Giorgio Galletti, compagno di classe di Daria Nicolodi) e, abbattendo una parete, scopre l’esistenza di un cadavere in putrefazione. Ma Mark viene colpito alle spalle e l’edificio è dato alle fiamme. Si risveglia tra le braccia di Gianna e trova riposo nella casa di Rodi dove vede un disegno identico a quello trovato sotto l’intonaco nella villa. Ne è autrice Olga, bambina semi psicopatica, che ammette di averlo copiato a scuola, da dei vecchi disegni. Mark e Gianna si recano nella scuola, la giornalista viene ferita da una coltellata, e trovando il disegno originale Mark scopre il nome dell’autore. È il suo amico Carlo con cui si trova faccia a faccia che, armato di pistola, confessa i delitti. L’intervento della polizia mette in fuga l’uomo che viene agganciato da un camion e travolto da un’automobile. A Mark tuttavia manca un particolare, un conto che non torna. Ricorda improvvisamente che quando Helga venne assassinata, Carlo si trovava con lui in strada, quindi non può essere l’assassino. Torna nell’appartamento della medium, per cercare l’anello mancante. C’erano quadri rotondi, appesi alle pareti dei corridoi, ma poi, durante i sopralluoghi della polizia, qualcosa era cambiato, si era spostato. Il musicista capisce di aver visto riflesso il volto dell’assassino: la madre di Carlo la quale in gioventù aveva accoltellato e ucciso il marito che voleva farla rinchiudere in manicomio, sotto gli occhi sbigottiti del figlioletto (Jacopo Mariani), che poi anche da adulto aveva cercato perversamente di proteggerla. Mark viene aggredito dalla donna munita di mannaia, ma l’ex attrice resta impigliata con la propria collana nell’ascensore, Mark aziona i comandi e la donna finisce decapitata. Su un lago di sangue rosso scorrono i titoli di coda.
Il più complesso, completo e abile film di Dario Argento. Un attacco continuo e deliberato ai nervi dello spettatore, martellato dalla musica, dal montaggio, dalle inquadrature, dalle esplosioni di violenza, un poco alleggerite solo dalla goffa presenza del commissario Calcabrini, uno straordinario Eros Pagni, che indaga ingurgitando tramezzini e mangiando caffè, e dalla coppia formata da Mark e Gianna, celebre la sfida tra i due a braccio di ferro (falso, invece, il mito dell’allusione alla vita sentimentale del regista nella scena in cui Daria Nicolodi getta la foto di Marilù Tolo nel cestino; in realtà l’immagine ritraeva la fidanzata del direttore di produzione).
In Profondo rosso, “Sadico e malsano […] , ma girato con notevole intelligenza cinematografica” (Mereghetti), si trovano alcuni classici del cinema di Argento, come la figura dello straniero che si vede involontariamente coinvolto nel primo delitto, il profilo psicologico del killer, l’instabilità, l’inganno, le mani dell’assassino (in tutti i film quelle del regista), il dettaglio che non torna. Proprio su questo Argento ebbe un colpo di genio. Ad inizio film Mark vede (e noi con lui) la madre di Carlo (straordinario “Canto del cigno” di Clara Calamai) riflessa nello specchio, ma nelle frenesia non riesce a focalizzare un simile dettaglio. Geniale. L’idea venne in mente al regista durante uno dei suoi soliti viaggi in auto, guardando nello specchietto retrovisore la coda di auto alle sue spalle. Dario Argento decise così di correre il rischio e di fare vedere allo spettatore l’assassino fin dalle prime inquadrature del film. All’epoca videocassette, DVD, Blu-ray non esistevano ed era, pertanto, impossibile fermare e fissare quel dettaglio. Il regista era deciso, il montatore Fraticelli meno, si arrivò quasi alla rottura, ma alla fine l’idea di Argento prevalse regalandoci uno dei momenti più agghiaccianti della storia del cinema.
Con Deep red, per usare il titolo internazionale, Dario Argento chiuse anche il cerchio delle pesanti eredità hitchcockiane: la madre pazza e il cadavere mummificato che rimandano a Psycho (1960), il flashback come ritorno alle origini del trauma da Marnie (1963), fino ad una delle locandine del film che riprende esplicitamente quella di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958).
Profondo rosso, che dopo oltre due ore di tensione, musiche inquietanti, nenie infantili, grida di paura e di dolore, si chiude nel silenzio dell’immagine di Mark riflessa nella pozza di sangue, continua a far parlare di se. L’album, che contiene la magnifica colonna sonora che unì Giorgio Gaslini e i Goblin, non solo si è aggiudicato un disco d’oro, ma è stato inserito dalla rivista Rolling Stones tra i migliori cento album italiani di sempre. Nel 2005 ne è uscita una edizione rimasterizzata, mentre nel 2015 Claudio Simonetti ha registrato una nuova versione in occasione del quarantennale del film. Nolo solo. Profondo rosso, oltre ad essere stato in più occasioni proiettato col la musica eseguita dal vivo, è stato portato a teatro nel 2007 come musical, con la supervisione artistica dello stesso Argento, per la regia di Marco Calindri, con l’attore e cantante Michel Altieri nei panni di Marcus Daly. Senza contare che il grande George Romero tentò fino all’ultimo di realizzare un remake in 3D del film del 1975, su sceneggiatura di Claudio Argento. Infine lo stesso Dario ha omaggiato il suo più grande successo sia realizzando nel 2000, insieme al gruppo dei Daemonia nato dalle ceneri dei Goblin, un cortometraggio ispirato al tema principale del film (trasmesso in TV e disponibile in alcune versione per l’Home Video), sia aprendo in via dei Gracchi a Roma nel rione Prati, poco distante da piazza Mazzini dove venne girata la morte di Carlo nel film, il “Profondo rosso Store”, una libreria che è anche negozio di oggettistica horror, curato dall’amico regista Luigi Cozzi. L’ultimo omaggio in ordine di tempo è, invece, l’albo 383 di Dylan Dog uscito nell’agosto 2018, scritto da Dario Argento (disegni di Corrado Roi) e intitolato “Profondo nero”.
Un’ultima annotazione. Un film intitolato Profondo rosso era già stato realizzato nel 1920 da Raoul Walsh, “assassino di Lincoln” in Nascita di una nazione di Griffith e poi regista di grande successo (basti pensare a Il ladro di Bagdad del 1924). Ma il film di cento anni fa, che nell’originale cambiava “tonalità” e si chiamava The Deep Purple, era una semplice storia di amore e criminalità, interpretata da Miriam Cooper.
Tornando agli anni Settanta, il produttore esecutivo di Profondo rosso fu Claudio Argento che, anche grazie al successo del film, divenne definitivamente un produttore cinematografico. Oltre a dedicarsi ai successivi film del fratello, col quale si scontrò più volte, produrrà anche alcune opere di George Romero e Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky, col quale scrisse anche la sceneggiatura.
Per Dario Argento oltre al grande successo cinematografico sbocciò anche il grande amore con Daria Nicolodi. I due artisti avevano molte cose in comune. Gli piacevano gli stessi libri, ascoltavano buona musica (la donna era tra l’altro nipote del compositore Alfredo Casella, il nonno paterno era invece Aurelio Nicolodi, il fondatore dell’Unione Italiana Ciechi), la pensavano allo stesso modo sulla società e sulla politica. Dalla loro relazione il 20 settembre 1975 nacque Aria Maria Vittoria Rossa Argento. All’epoca era ancora in vigore un Regio Decreto del 1939 secondo cui non si potevano assegnare ai figli nomi geografici, ma quella bambina, oggi magnifica quarantenne, è sempre stata chiamata Asia.
La piccola si legò da subito sia a Fiore, la figlia maggiore del regista, sia ad Anna (9 giugno 1972 – 29 settembre 1994) la primogenita di mamma Daria, avuta dallo scultore Mario Ceroli (a cui dedicò l’opera “Aria di Daria”). L’affetto tra le figlie prolungò il rapporto tra Dario e Daria.
I due scrissero insieme soggetto e sceneggiatura del successivo Suspiria (1977). Nella pellicola per la prima volta il regista affrontò l’horror e il paranormale e, ispirandosi liberamente al “Suspiria de Profundis” dello scrittore inglese Thomas de Quincey, diede vita alla mitologia delle “Tre madri”: Mater Suspiriorum (Madre dei Gemiti), Mater Tenebrarum (Madre delle Tenebre) e Mater Lacrimarum (Madre delle Lacrime). Inevitabile una nuova “trilogia” cinematografica. Nel cast Jessica Harper (Chicago, 10 ottobre 1949), Stefania Casini (Villa di Chiavenna, 4 settembre 1948), poi “scandalosa” prostituta in Novecento dell’amico Bertolucci, Flavio Bucci, Joan Bennett e Alida Valli in ruoli insolitamente cupi.
Nel film una giovane ragazza americana va in Germania, a Friburgo, per frequentare una prestigiosa accademia di danza tedesca, ma ben presto si rende conto che la scuola nasconde qualcosa di sinistro, la direttrice è in realtà la vecchia strega Mater Suspiriorum. Altro grandissimo film, meravigliosamente pauroso. Nel 2018 Luca Guadagnino ha girato un omonimo remake-omaggio con Dakota Johnson, Tilda Swinton e l'”originale” Jessica Harper.
Nel 1980 Dario Argento, coadiuvato da Mario Bava e il figlio Lamberto (Roma, 3 aprile 1944) autore, tra l’horror e il fantasy, attivo anche per la televisione, basti pensare alla fortunata serie Fantaghirò, girò il secondo episodio della nuova trilogia, Inferno. Tra i protagonisti: Leigh McCloskey, Irene Miracle, Eleonora Giorgi, Alida Valli, Veronica Lazar e Gabriele Lavia. Nel film, in cui viene meglio esplicitato il mito delle “Tre madri”, uno studente universitario americano a Roma e sua sorella a New York indagano su una serie di omicidi. La ragazza scopre che il palazzo in cui abita si cela Mater Tenebrarum e per questo viene uccise. Il fratello, giunto negli USA, prova a far chiarezza sull’incredibile scia di morte.
Per molti l’apice del regista, ma anche l’inizio di una fase calante, palese nell’ultimo film della trilogia, uscito solo nel 2007, La terza madre. Il ritrovamento in una tomba di tre statuette scatenano a Roma una serie di morti sanguinose ed eventi apocalittici, dietro cui si nasconde Mater Lacrimarum. Più splatter che horror (perfino il vecchio Philippe Leroy viene squartato), ma il film ha il merito di aver (ri)unito Dario Argento, Daria Nicolodi e la loro figlia Asia.
Nei ventisette anni che separano Inferno e La terza madre, Dario Argento girò altri buoni film. Nel 1982 uscì Tenebre, in cui uno scrittore americano al suo arrivo a Roma si trova coinvolto in una serie di omicidi commessi da un fanatico moralista che ha un trauma infantile sospeso. Indimenticabile la scena finale. Nel cast Anthony Franciosa, Daria Nicolodi, Giuliano Gemma, Eva Robin’s e Veronica Lario. Quest’ultima, al suo ruolo più celebre, nella pellicola subiva la violenta amputazione di un braccio, trasformandosi in una “zampillante fontana di sangue”. Nei pochi passaggi televisivi del film, quella scena venne pesantemente censurata per volere di colui che era diventato il marito dell’attrice. Si chiamava e si chiama Silvio Berlusconi.
Il successivo film di Argento fu Phenomena, uscito nel gennaio del 1985. Una ragazza, con una insolita capacità di comunicare con gli insetti, viene trasferita in un esclusivo collegio svizzero, dove la sua straordinaria capacità la aiuta a risolvere una serie di omicidi. Nel cast, oltre ad una perfida e inquietante Daria Nicolodi, da segnalare Fiore Argento, figlia del regista, che interpretò la prima vittima del film e Jennifer Lynn Connelly (Cairo, 12 dicembre 1970) che diede il volto alla giovane protagonista. L’attrice, al suo secondo ruolo dopo aver debuttato in Once Upon a Time in America (C’era una volta in America, 1984) di Sergio Leone, nel 2002 vinse l’Oscar per la sua interpretazione in A Beautiful Mind.
Ma nel 1985 due disavventure segnarono, almeno in parte, la vita di Dario Argento. In primavera gli venne tolta, con un brusco telegramma, la regia del “Rigoletto” di Verdi che stava mettendo in scena con notevoli libertà rispetto all’originale, inclusa quella che riguardava il Duca di Mantova che si sarebbe trasformato in un vampiro. Il licenziamento irritò profondamente il regista che come risposta realizzò Opera (1987), storia di intrighi e delitti intorno alla messa in scena di Macbeth.
Pochi mesi dopo, il 19 giugno del 1985, il cineasta venne arrestato e trasferito nel carcere di Regina Coeli, nel corso di un’inchiesta sull’uso di stupefacenti negli ambienti dello spettacolo. Nel suo appartamento vennero trovati 23 grammi di hashish. Con la stessa accusa anche Daria Nicolodi fu arrestata. Passarono due giorni in carcere.
Poco dopo questa brutta esperienza ci fu la rottura tra il regista e l’attrice. Separazione “solo” sentimentale poiché professionalmente la Nicolodi continuò a recitare in diversi film dell’ex compagno. Da segnalare, inoltre, nella filmografia della donna, Maccheroni (1985) con Marcello Mastroianni e Jack Lemmon diretti da Ettore Scola e i film di Cristina Comencini, Giovanni Veronesi e Mimmo Calopresti. La terza madre del 2007 rimarrà, purtroppo, la sua ultima apparizione. Daria Nicolodi si è, infatti, spenta il 26 novembre del 2020 a seguito delle complicazioni dovute ad un ictus [ho dovuto fare questa triste aggiunta all’articolo, scritto mesi prima della malattia. Ne approfitto per ricordare e ringraziare Daria Nicolodi che mi suggerì alcune curiosità contenute nel testo, nda].
Nel 1987 Dario Argento tornò in RAI per il programma “Giallo – La tua impronta del venerdì” con Enzo Tortora, ma le sue storie a tinte forti, in cui spiegava anche i trucchi dei suoi film, erano troppo avanti per l’epoca e si arrivò alla rottura con la RAI e col conduttore.
Nel frattempo anche la figlia Asia era approdata al cinema recitando, tra l’altro, in Palombella rossa (1989) di Nanni Moretti ne Le amiche del cuore (1992) di Michele Placido. Essere diretta dal padre diventò una logica conseguenza. Così, dopo aver realizzato insieme a George Romero Two Evil Eyes (Due occhi diabolici, 1990), Argento scrisse la sceneggiatura di Trauma, uscito il 12 marzo del 1993. Una ragazza anoressica fuggita dalla clinica nella quale era ricoverata, vede un assassino reggere le teste mozzate dei suoi genitori. Con l’aiuto di un giornalista riuscirà a scoprire il colpevole e il movente (uno dei pochi nella filmografia del regista). Nel cast, oltre ad Asia Argento nei panni della protagonista, anche Piper Laurie (Detroit, 22 gennaio 1932) attiva per il grande (Lo spaccone, Carrie – Lo sguardo di Satana) e il piccolo schermo (La signora in giallo, I segreti di Twin Peaks, E.R. – Medici in prima linea), ultima di una serie di gloriose attrici mature, inaugurata con Clara Calamai e proseguita con Alida Valli e Joan Bennett, con cui Dario Argento volle tributare un personale inchino alla storia del cinema, cambiando ruoli e stereotipi. Da segnalare infine due “autocitazioni” del regista: come ne L’uccello dalle piume di cristallo, nulla è come sembra; come in Profondo rosso, la protagonista (e lo spettatore) vede il volto dell’assassino.
Negli anni Novanta Argento diresse la figlia anche ne La sindrome di Stendhal (1996) e ne Il fantasma dell’Opera (1998). Asia, troppo spesso citata solo per scandali e gossip, ha fornito grandi prove davanti e dietro la macchina da presa. Come attrice da ricordare Perdiamoci di vista (1994) al fianco di Carlo Verdone e Compagna di viaggio (1996) con Michel Piccoli diretta da Peter Del Monte. Entrambe le interpretazioni le valsero il David di Donatello come Miglior attrice protagonista. Mentre come regista Asia Argento, donna libera controversa e controcorrente, oltre al film di debutto Scarlet Diva (2000) ispirato alle triste vicenda personale legate al caso Weinstein, sono da guardare The Heart Is Deceitful Above All Things (Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, 2004) sulla necessità di conservare una purezza anche nelle situazione più estreme, e Incompresa (2014) dalle forti tinte autobiografiche.
Dario Argento, invece, negli anni Duemila ha diretto, con minor ispirazione e minor fortuna, oltre al già citato La terza madre (2007), i thriller Non ho sonno (2001) con Max von Sydow, Il cartaio (2004) con Stefania Rocca e Silvio Muccino e Giallo (2009) uscito solo per l’Home Video. Nel 2012 è, invece, una deludente trasposizione cinematografica del più celebre romanzo di Bram Stoker, Dracula 3D.
Nel corso della sua lunga carriera Dario Argento, come tutti i grandi, non è riuscito a portare a termine diversi progetti su tutti un film sulla vita dei clochard, una rilettura del mito di Frankenstein, ambientata in Germania negli anni Venti, che vedeva la nascita del “mostro” andare di pari passo con la nascita del Nazismo e una storia sulle Brigate rosse.
Dario Argento ha collaborato con George Romero, John Carpenter, e prima ancora con Sergio Leone e Bernardo Bertolucci, ha aiutato giovani autori ad emergere come Michele Soavi e Lamberto Bava; il suo cinema ha ispirato registi quali Brian De Palma, Quentin Tarantino, Wes Craven e Sam Raimi, ma la critica “alta” lo ha sempre un po’ snobbato, liquidandolo a semplice regista di “genere”. Genere, tra horror e thriller, in cui egli stesso è rimasto imprigionato.
Molto critico nei confronti del cinema italiano, Dario Argento ha dichiarato: “Siamo ultimi in Europa, del resto non solo per il cinema ma anche per il teatro, per la scuola, per tutta la cultura. A parte poche eccezioni, oggi in Italia si fanno solo commediole per portare a casa un po’ di soldi”. Sempre più spesso così il regista decise di realizzare film all’estero, patendo tuttavia una certa ripetitività.
Oggi, alla soglia degli ottant’anni, il regista ha in cantiere un nuovo film, Occhiali neri con la figlia Asia come protagonista, le cui riprese inizieranno il prossimo agosto (con medico sul set, causa Covid 19). Confidiamo che Argento possa avere sufficienti risorse creative per regalarci ancora brividi lungo la schiena e farci esclamare la frase che in fan, talvolta delusi, ma sempre fedeli, urlavano nei cinema romani negli anni Ottanta: “A Dario, facce tremà!”.
redazionale
Bibliografia
“Dario Argento” di Roberto Pugliese – Castoro
“Paura” di Dario Argento – Einaudi
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 25, 26, 27, 28 Screenshot del film Profondo rosso; foto 1, 2, 4, 7, 19, 24, 39 da it.wikipedia.com; foto 6, 11, 20, 30 da pinterest.com; da foto 8, 9, 10, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 21, 22, 23, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38 Screenshot del film riportato nella didascalia, foto 29 copertina del fumetto “Profondo nero”.