La riforma del premierato è stata scritta talmente male che, non considerando le intenzioni dichiarate bensì la lettera, il provvedimento porterebbe ad esiti opposti a quelli sbandierati, a partire dai margini di iniziativa nelle crisi di governo da parte del Quirinale. Lo hanno rilevato non solo i costituzionalisti ascoltati dalla Commissione Affari costituzionali della Camera la settimana scorsa, nei primi due cicli di audizioni, ma anche il dossier redatto dal Servizio studi della Camera, seppur con un linguaggio più anodino di quello dei costituzionalisti.

Il Servizio studi ha evidenziato una serie di problemi rilevati dai costituzionalisti, come quello del voto degli italiani residenti all’estero (Francesco Clementi, Roberta Calvano), o che con due Camere elettive ci possono essere due diverse coalizioni vincenti (Stefano Ceccanti). Per non parlare del fatto che «il testo di riforma non indica la maggioranza con la quale il Presidente del Consiglio risulta eletto dal corpo elettorale, rinviando di fatto tale scelta al legislatore ordinario».

Un primo svarione del ddl segnalato nel dossier riguarda il premio di maggioranza previsto dall’articolo 5. Esso deve essere tale «da garantire ‘una’ maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere; la formulazione letterale della disposizione lascerebbe quindi intendere – sottolineano i funzionari di Montecitorio – che il premio di maggioranza possa anche non garantire la maggioranza assoluta dei seggi (come si sarebbe potuto invece ricavare utilizzando l’espressione “la maggioranza”)». Preso alla lettera e nel buio della legge elettorale, potrebbe essere tale da garantire solo la maggioranza relativa, come in Grecia dove è fisso nel numero di 40 seggi.

Oltre ad altri errori più tecnici, puntualmente segnalati, il ddl collassa su quello che pomposamente fu definita «norma antiribaltone», inserita all’articolo 7 del testo. Come si ricorderà esso stabilisce che il presidente del consiglio eletto debba presentarsi per la fiducia alle Camere: «Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia – afferma il ddl – il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».

Già questo meccanismo statuisce il diritto di imboscata, ma il dossier evidenzia un vero e proprio baco-buco: «Si osserva che non risulta disciplinata l’ipotesi in cui il Presidente del Consiglio eletto, che non abbia ottenuto la fiducia delle Camere, rifiuti l’incarico nuovamente conferitogli dal Presidente della Repubblica». Caso limite? Vero, ma se si costituzionalizza il diritto all’imboscata, tutto diventa possibile.

Il dossier osserva che il ddl costituzionalizza il ricorso automatico ad urne anticipate in caso di caduta del governo «mediante mozione di sfiducia motivata», caso mai accaduto «nel corso della storia della Repubblica», mentre nulla dice sul caso verificatosi due volte (Prodi nel 1998 e nel 2008) di reiezione di una questione di fiducia; di qui la richiesta del servizio studi di chiarire questo punto, lasciato nel vago su richiesta della Lega.

Fin qui siamo ancora nel campo dell’ambiguità, mentre i funzionari di Montecitorio segnalano un altro bug della norma antiribaltone. Questa infatti stabilisce che in caso di dimissioni del premier, egli possa chiedere al Quirinale il voto anticipato, «che lo dispone», oppure che «il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, al Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».

A questo punto però, nota il dossier, «i poteri del Presidente della Repubblica si riespandono nella misura in cui gli viene rimessa la scelta tra il conferimento dell’incarico allo stesso Presidente del Consiglio incaricato o a un altro parlamentare». L’attribuzione dell’incarico, infatti, è una prerogativa del presidente della Repubblica, rimessa alle sue valutazioni. In più, nota il dossier «la disposizione, nella sua formulazione letterale, non esclude espressamente che la maggioranza parlamentare possa essere anche parzialmente diversa da quella originariamente collegata al Presidente del Consiglio eletto».

Quindi avremo non la norma anti-ribaltone, bensì pro-ribaltone: lo stesso presidente del consiglio eletto con una maggioranza diversa, oppure un altro premier non eletto con una sua maggioranza. Analoghe le osservazioni fatte in audizione dal professore Massimo Luciani, che ha glossato: «Un conto sono le intenzioni, un conto quanto è scritto».

KASPAR HAUSER

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria