È un innocuo topolino quello che, tra dichiarazioni altisonanti e giusti reclami contro il neocolonialismo, è stato partorito dalla montagna del Vertice dell’Amazzonia, conclusosi ieri con un dialogo con i paesi e gli organismi invitati.
La Dichiarazione di Belém, con i suoi 113 principi e impegni, è un capolavoro di genericità: non fissa alcun obiettivo concreto rispetto alla lotta alla deforestazione ed evita di stabilire qualunque restrizione a sfruttamento del petrolio, attività mineraria ed espansione della frontiera agricola.
Così, sebbene la dichiarazione impegni gli otto paesi dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela) a operare congiuntamente per evitare il cosiddetto «punto di non ritorno», la «deforestazione zero» che Lula ha promesso per il Brasile entro il 2030 è definita appena come un «ideale» da raggiungere non si sa bene quando.
Quanto alla seconda grande rivendicazione della società civile, quella relativa allo stop allo sfruttamento dei combustibili fossili in Amazzonia, la dichiarazione non va oltre il richiamo ad avviare un dialogo sulla loro sostenibilità. Inascoltato l’appello alla decarbonizzazione del presidente Petro, che ha denunciato – accanto al negazionismo tipico di una destra nemica della scienza – l’esistenza tra le forze progressiste di «un altro tipo di negazionismo: la retorica della transizione», a cui i governi ricorrono di frequente per giustificare la continuità degli investimenti nel petrolio e nel gas.
«Non è possibile che, in uno scenario come l’attuale, gli otto paesi amazzonici non riescano a scrivere in una dichiarazione, a lettere cubitali, che la deforestazione deve essere azzerata e che estrarre petrolio nel bel mezzo della foresta non è una buona idea», ha commentato Marcio Astrini dell’Observatório do Clima, definendo la dichiarazione tutt’al più come «un primo passo» in direzione di una politica comune in difesa del bioma.
Attraverso per esempio la creazione, prevista dal documento, di un’Alleanza amazzonica di lotta alla deforestazione (a partire dagli obiettivi che ciascun paese fisserà autonomamente) e di un «Ipcc dell’Amazzonia», gruppo intergovernativo tecnico-scientifico con la partecipazione dei governi, degli scienziati, della società civile e dei popoli originari.
Proprio riguardo agli indiscussi conoscitori e custodi della foresta, è indicativo però che i 600 rappresentanti indigeni accorsi a Belém per discutere il loro modello di Amazzonia – alternativo a uno sviluppo basato su progetti estrattivisti, monocolture, centrali idroelettriche e grandi opere – siano stati esclusi dal programma ufficiale del vertice e costretti a riunirsi per conto proprio nel quadro dell’Assemblea dei popoli per la terra: «Non siamo stati invitati, ma siamo venuti a Belém perché la nostra lotta è fatta di resistenza», ha dichiarato Toya Manchineri, coordinatore generale della Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira (Coiab).
E certo non sorprende che la dichiarazione diffusa al termine del loro incontro sia lontana anni luce da quella dei leader degli otto governi dell’Otca, a cui i popoli della foresta chiedono di proclamare lo stato di emergenza climatica in Amazzonia e di adottare tutte le misure necessarie per evitare quel punto di non ritorno tanto temuto, ma solo a parole, dai capi di stato.
Solo per citarne alcune, lo stop alla deforestazione illegale entro il 2025; l’azzeramento anche di quella legale entro il 2027; la rigenerazione delle aree degradate; il riconoscimento di tutti i territori dei popoli indigeni, degli afrodiscendenti, delle comunità tradizionali, assicurando la sicurezza giuridica e fisica della proprietà collettiva dei popoli originari; il deciso avvio di una transizione energetica «giusta, popolare e inclusiva», rinunciando ad aprire nuovi fronti di sfruttamento dei combustibili fossili in tutta la regione.
Oltre al «totale appoggio» alla lotta per porre fine all’estrazione di petrolio all’interno del Parco nazionale Yasuní, su cui i cittadini ecuadoriani si pronunceranno il 20 agosto, e alle rivendicazioni dei movimenti del Brasile e della Guyana contro l’espansione della frontiera petrolifera lungo le coste dei due paesi.
«Chiederò a Lula di non estrarre petrolio in Amazzonia», aveva detto il cacique Raoni Metuktire, accolto a Belém come una star, alla vigilia del vertice, proprio mentre il presidente dichiarava alla stampa che lo stato di Amapá «può continuare a sognare» lo sfruttamento petrolifero nella foce del Rio delle Amazzoni. Ma il confronto con il grande leader indigeno non c’è stato: ancora un volta, Lula non è stato disponibile a incontrarlo.
CLAUDIA FANTI
Foto di Tom Fisk