L’estate torrida, afosa, umida, siccitosa e praticamente tropical-africana è un dato di fatto. L’autonomia differenziata promossa dalla Legge Calderoli vorrebbe esserlo e, con tutta probabilità, alla fine non lo sarà.
Non è un auspicio. Piuttosto è la sempre più concreta prospettazione di un cammino irto di costituzionalissime insidie che vanno ad intaccare quella sicumera governativa che pretende tutt’ora, forte della sua maggioranza parlamentare e della sua arroganza politica, di imporre al Paese una controriforma che sovverte i già esigui margini di equipollenza dei diritti fondamentali da nord a sud del Paese.
Nel giro di pochissimi giorni, dai banchetti in giro per tutta Italia e soprattutto dalla piattaforma digitale online, sono state raggiunte le cinquecentomila firme necessarie per promuovere il referendum totalmente abrogativo della legge sull’autonomia differenziata.
Ma la raccolta va avanti, perché è necessario tenere alta l’attenzione su un problema che davvero riguarda trasversalmente tutte e tutti, a prescindere dalle colorazioni politiche e dalle collocazioni ideologiche e culturali. Quando si parla di “legge SpaccaItalia” non si riduce all’estrema banalizzazione comunicativa nulla.
Si afferma, invece, una verità oggettiva: è ovvio che istituzionalmente l’Italia rimarrebbe una nazione, ma sarebbe una repubblica iperfederalista in uno Stato concepito centralmente, dove le autonomia sono uniformate ad uno spirito solidale che non distingue cittadino da cittadino, ma bisogno da bisogno senza mortificarne uno a scapito dell’altro.
Soprattutto, la Costituzione della Repubblica promuove la coesione sociale e non l’esclusione: avvicina le regioni pur rispettandone le specificità, perché l’interesse nazionale non è equiparabile al patriottismo dei meloniani, ma ad una idea di Paese dove le cure siano le stesse per tutti e dove il privato venga molto dopo il bene comune e l’utilità pubblica.
L’impianto legislativo che prevede una diversità delle prestazioni fondamentali, a loro volta parte congruente dell’espressione pratica dei diritti altrettanto fondamentali di ogni cittadino e, se vogliamo, prima ancora di ogni essere umano e vivente, è manifestamente un controsenso rispetto alla Carta del 1948: lì dove la si evidenzia la necessità di dare maggiori poteri alle Regioni non si fa un’operazione egualitaria, ma si particolarizzano da un lato le eccellenze e dall’altro le enormi lacune.
Nord e Sud del Paese, se l’autonomia differenziata dovesse essere a pieno titolo una riforma applicabile dell’impianto istituzionale italiano, non avrebbero benefici in uguale misura ma, al contrario, li otterrebbero soltanto in virtù delle loro capacità di spendere sui territori.
E regioni come la Lombardia o il Veneto, capacissime – visti i pregressi e le ulteriori premesse – di investire ancora di più nel privato affidandogli enormi fette di pubblico, surclasserebbero di gran lunga la debolezza strutturale delle regioni meridionali.
La “questione meridionale” stessa, proprio gramscianamente parlando, si aggiornerebbe di un capitolo nuovo ma tutt’altro che moderno, se con questo concetto si intende significare una innovazione positiva e progressista, quindi un avanzamento dei diritti sociali per la popolazione entro i termini della ristrutturazione di una sorta di rete o di stato-sociale di nuovo concepimento, necessario per affrontare le crisi che l’economia di guerra rovescia su tutto il continente europeo.
La pericolosità della Legge Calderoli è l’insidia, a dire il vero piuttosto evidente e non nascosta, della sua irreversibilità nel momento in cui troveranno attuazione le intese tra Stato e Regioni.
La devoluzione dei poteri, vecchio sogno dell’eversione leghista, quando ancora si sognava la Repubblica del Nord prima o la fantasmagorica Padania poi, qui ritorna come nemesi di una idea di autonomia che fa il paio con il privilegio dei territori e non ha nulla a che vedere col solidarismo nazionale di un vero federalismo.
Nel momento in cui le intese tra lo Stato e le Regioni trovassero la loro soluzione e quindi si concretizzassero in tutto e per tutto, bloccare e abrogare la Legge Calderoli sarebbe molto difficile da un punto di vista del diritto costituzionale: questo perché quelle stesse intese, in parte o in tutto accordi economici tra il governo di Roma e le giunte regionali (ovviamente approvate dal Parlamento con maggioranza assoluta), non sarebbero materia sottoponibile a referendum popolare.
Ma la strada è, fortunatamente, come si faceva cenno all’inizio di queste righe, irta di pericoli per il progetto calderoliano. Le Regioni, infatti, possono impugnare la Legge e portarla davanti alla Consulta per “manifesta incostituzionalità“. La Sardegna ha già fatto sapere che intende seguire questa strada (ex articolo 127 della Costituzione della Repubblica).
Due mesi per poter fare un ricorso che contesta l’assunzione di prerogative locali da parte dello Stato. Una questione di “igiene” democratica imporrebbe che molte Regioni difendessero i loro ruoli davanti alla protervia del potere centrale che intende, decennalmente, fare degli accordi per cui la maggior parte delle questioni sociali, civili ed economiche vengono delegate all’autonomia dei singoli territori, creando in questo modo venti piccoli staterelli seppure dentro la cornice unitaria nazionale.
Prima di tutto le Regioni del Sud avrebbero il dovere di farsi sentire in merito. Difendendo il diritto loro e di tutti di trovare la compartecipazione con lo Stato nella gestione di interessi che sono comuni perché riguardano i diritti elementari di tutte le cittadini e di tutti i cittadini. Là dove un diritto è costituzionale, l’autonomia differenziata non può esaltarlo da un lato o deprimerlo dall’altro consegnando il fardello della sua concretazione all’ente regionale.
L’obiettivo minimo del mezzo milione di firme, raggiunto più che altro per via telematica, è un campanello d’allarme per queste destre arroganti e prevaricatrici: il tema dell’autonomia differenziata non è così indifferente per il popolo così come lo si vorrebbe far passare, vista la sua difficoltà ad essere compiutamente spiegato soprattutto alla gran parte della gente meno dotata di strumenti conoscitivi tanto politici quanto del diritto.
Ma una cosa i cittadini la comprendono pienamente: che chi è oggi più ricco potrà permettersi cure e assistenze migliori; migliori infrastrutture, migliori scuole e trasporti ancora migliori (è tutto poi da vedere… perché le commistioni tra pubblico e privato non sempre – anzi quasi mai – sono generatrici di virtuosismi meccanicistici di questa natura…). Chi invece vive in zone storicamente povere e maltrattate, subirà il riflusso di un pauperismo strutturato.
Per questo si sono raggiunte e superate mezzo milione di firme in davvero pochissimi giorni. Perché questo problema, posto da un leghismo che non si rassegna alla sua sconfitta storica, è davvero di una importanza cruciale per la tenuta unitaria del Paese in quanto Nazione, in quanto comunità popolare stretta attorno ad una serie di valori imprescindibili e di diritti inalienabili.
Pure è vero che, nei fatti, già oggi un esempio di quello che potrebbe essere il regionalismo differenziato in profumo di leghismo neonazionalista lo abbiamo dallo stato della sanità: se osserviamo regione per regione ciò che è a disposizione per le cure dei cittadini e ciò che manca, possiamo fare un elenco impietoso che, rispetto al maggiore PIL del Nord, lascia interdetti per come sia stata trattata la spesa sanitaria nelle regioni settentrionali. Non parliamo poi di quelle del Centro-Sud.
Il discorso dovrebbe partire dalla destinazione dei fondi sanitari nazionali, previsti per legge, alle diciannove regioni e alle due provincie autonome di Trento e di Bolzano. E lo stesso discorso non dovrebbe però perdere di vista la quota di spesa sanitaria pubblica che viene indirizzata verso il settore privato. Le tre regioni con una spesa pro-capite più alta (considerato il rapporto tra pubblico e privato, in favore purtroppo del secondo…) ad oggi sono: la Lombardia, l’Emilia Romagna e la Liguria.
Quelle che invece soffrono di più in tal senso sono, in ordine: Campania, Calabria e Basilicata. Resta e si amplia un divario già enorme tra settentrione e meridione che, nonostante le molte magnificazioni del ruolo del privato nell’essere comprimario del pubblico nella gestione dei settori chiave dello Stato, non è per nulla diminuito nel corso dei decenni.
E sotto la guida di governi di qualunque colore, di qualunque composizione: dal centrosinistra al centrodestra, dai tecnicismi ai politicismi più perversi e mistificanti. La grande questione sanitaria fa da anticipazione manifesta dei danni che potrà fare l’autonomia differenziata in tutti gli altri settori pubblici che traballano e al tempo stesso resistono.
La crisi globale e, segnatamente, quella continentale, si riversano su una Italia che spende ancora tantissimo in “grandi opere” che devastano i territori, in attrezzature militari e che taglia costantemente, anno dopo anno, il gettito destinato alla salute pubblica, alla sanità altrettanto pubblica ed alla ricerca che è sempre più nelle mani delle grandi consorterie farmaceutiche mondiali.
La teorizzazione dell’autonomia dei territori regionali si infrange impietosamente sul muro di cinta del liberismo che avviluppa l’intero Paese e ne fa una dipendenza da un polo economico più corposo, legato mani e piedi al neo-nordatlantismo che unisce politica e guerra, economia e bellicismo, facendo dell’Europa una intercapedine tra Occidente ed Oriente, tra ovest ed est e nulla di più.
Immaginare una riqualificazione dei diritti di tutte e di tutti differenziandoli a seconda delle possibilità locali e da ciò che le regioni potranno trattenere ancora di più (ovviamente se più ricche di altre) nelle loro casse, evitando di dare i soldi a “Roma ladrona” (l’eco leghista d’antan un po’ si sente…) è, nel più ampio contesto internazionale (e pure nazionale) una aberrazione.
Il governo Meloni, e nello specifico Salvini, Calderoli e compagnia, si sofferma sul punto che le Regioni hanno dei diritti. Per evitare che i diritti diventino dei privilegi, sarebbe opportuno che i primi coincidano, come diritti istituzionali, quindi come prerogative, con i diritti di ogni singolo cittadino. Ma sarebbe così con l’autonomia differenziata?
No, non lo sarebbe. E questo perché, ormai da troppo tempo, le istituzioni nazionali e locali hanno adottato come principio risolutore delle problematiche sociali il metro del mercato e la logica del profitto. Questa pretesa di rendere efficiente il pubblico legandolo alle ragioni del privato non ha subordinato il secondo al benessere comune; ha favorito singoli gruppi imprenditoriali che si sono arricchiti con i soldi di tutte e tutti noi.
I governi che si sono succeduti fino ad ora, chi più chi meno, hanno adottato questa linea di condotta e hanno consentito, logorando la strutturalità socio-economica del pubblico e del bene comune, le penetrazioni dei privati nei settori più importanti dell’essenza di uno Stato democratico: scuola, cultura, sanità, pensioni, trasporti, infrastrutture, persino l’acqua, i mari, il territorio propriamente inteso come tale.
Sconfiggere il progetto dell’autonomia differenziata è necessario e imprescindibile. Però bisogna poi ripartire con una dinamica di governo del Paese che guardi al dettato costituzionale in merito e metta avanti a tutto le ragioni sociali, civili e morali di una anteposizione dell’interesse comune rispetto a quello particolare e di quello della popolazione rispetto a quello delle imprese.
Il SÌ forte e deciso al referendum abrogativo dell’autonomia differenziata deve essere accompagnato da un ritorno al pubblico come basamento moderno della Repubblica, dell’Italia progressista, democratica, parlamentare.
MARCO SFERINI
6 agosto 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria