Quando nel 1922 la “marcia su Roma” si impose sul governo Facta e sulla monarchia dei Savoia, forte dell’appoggio di larga parte del mondo imprenditoriale di allora e delle simpatie di una altrettanto ampia fascia del mondo rurale del centro e del sud dell’Italia del liberalismo in crisi, fu abbastanza evidente che il nuovo esecutivo di Benito Mussolini non sarebbe stato una cometa di passaggio, perché non si trattava di fulmine a ciel sereno.
Un politico di medio corso come l’ex socialista transitato repentinamente, nel giro di una notte, dal pacifismo non interventista del suo partito alla più cieca e fervida convinzione che le sorti della patria stessero tutte nella vittoria della stessa contro gli ex popoli fratelli di Austria-Ungheria e Germania, disponeva di un bagaglio culturale e sociale capace di essere il portato di una nuova egemonia politica in una nazione che usciva depressa dal primo conflitto mondiale, senza quelle aspettative di espansione territoriale che le erano state magnificate e, cosa ancora più importante, impoverita negli strati più debilitati di una popolazione in cui quasi ogni famiglia aveva avuto un combattente, moltissime un caduto, altettanto tante uno o più feriti e mutilati.
Proprio in questa trasformazione antropologica dell’Italietta riunita in regno a negli ultimi decenni dell’800, sostenuta da un sentimento diffuso di voglia di rivincita, di revanchismo un po’ su tutti i fronti, e sedotta abilmente dai comizi muscolari di Mussolini che prometteva pace, prosperità, ricchezza e lavoro per chiunque, aveva trovato gioco facile il movimento fascista che, sin dal principio puntava non solo alla conquista del potere politico ma pure a quella che sarebbe poi divenuta la “fascistizzazione” del Paese.
Mentre Gramsci scriveva proprio dell’intellettualità collettiva del partito comunista e, in generale, dei partiti che si disponevano a rappresentare grandi esigenze di massa, dicendosi pronti a soddisfarne i bisogni più impellenti, Mussolini costruiva una egemonia politica e culturale, sociale e (in)civile non sovrapponendo il suo regime allo Stato ma, nel conservare le forme monarchiche del potere costituito, creando una simbiosi di interessi reciproci tra fascismo, corona ed economia nazionale.
La nascita del governo fascista è divenuta così, in breve tempo, qualcosa di più del governo stesso che, nei fatti, è stato uno strumento necessario per mettere in pratica una visione totalizzante e totalizzatrice di una società che Mussolini e i suoi gerarchi volevano trasformare in chiave nazionalista ma stando bene attenti a non entrare in contrasto (e in contraddizione) con l’apparato burocratico di uno Stato ancora fragile, eredità di una unità raggiunta fondendo tante amministrazioni differenti che facevano capo agli Stati pre-unitari.
In questo senso, per le trasformazioni che il fascismo operò in Italia da quando salì al potere, si può parlare di “rivoluzione fascista” senza per forza attribuirla, come invece propagandisticamente faceva Mussolini, ad una marcia su Roma che si era rivelata una marcetta, una passeggiata, visto il comportamento del re, nonostante Facta lo scongiurasse di firmare il decreto di stato di assedio della capitale.
Il punto che possiamo mettere in correlazione con l’oggi, quasi a cento anni da quella marcia, non è una sterile similitudine tra il fascismo mussoliniano e il nazionalismo di Giorgia Meloni e del suo partito, oppure il sovranismo dei suoi alleati. Il punto che ci interessa è la creazione di una egemonia sociale, culturale, politica e, ancora di più oggi, (in)civile che il governo che nasce oggi può determinare sul lungo periodo, abituando il Paese a ragionare secondo parametri differenti dai valori costituzionali pur stando dentro la cornice della Costituzione stessa.
La storia è piena di esempi (a cominciare dal camaleonticismo augusteo) in cui i nuovi governanti hanno mantenuto la forma delle precedenti istituzioni per cambiarle radicalmente e trasformare uno Stato nel suo esatto contrario. Tutti siamo consci che il governo Meloni è, indubbiamente, quello più di destra che si sia insediato a Palazzo Chigi dalla fondazione della Repubblica. E questo perché manca una componente centrista capace di un certo bilanciamento nei proponimenti di politica tanto interna quanto estera, tanto social-economica quanto civile.
Chi sta lavorando al progetto neo-centrista, definito geopoliticamente come “terzo polo“, giustamente tiene a sottolineare che non più di “centrodestra” si può parlare se ci si riferisce al governo Meloni e alla sua maggioranza, ma solamente al secondo termine che componeva quel binomio risalente al primo atto della tragedia berlusconiana.
E’ proprio dopo il diffondersi del rampantismo egoistico, dell’utilitarismo della politica come mezzo per raggiungere fini quasi esclusivamente privati che il primo governo Berlusconi diventa il mezzo con cui riproporre i successivi passi dell’era dell’impresa prestata direttamente alla politica: l’intermediazione dei politici, spregiativamente chiamati “di professione” in seguito agli scandali di Tangentopoli, viene accantonata e una vera e propria mutazione genetica delle istituzioni e del Paese si attua nel giro di due decenni sull’onda di un tronfio liberismo sempre più diffuso e condiviso dal mondo padronale e da quello esplodente della grande finanza internazionale.
Se Berlusconi era pericoloso per il conflitto di interessi che aveva a trecentosessanta gradi con quelle istituzioni in cui andava a rappresentare l’elettorato e la volontà popolare sintetizzata dal voto democratico, Meloni rischia di esserlo due volte tanto perché la spregiudicatezza dei suoi disvalori inegualitari, della sua eredità missina, del suo mai essersi dichiarata antifascista, quindi di tutto quel portato ideologico e culturale nebbioso che si tenta di dipanare con un scrollar di spalle e un semplificazionismo revisionistico della Storia, è frutto di una volontà politica e non principalmente di un interesse personale dettato da una tutela di beni o aziende private.
Berlusconi è diverso da Meloni anche, e soprattutto, in questo: lui ha finito col credere in un impianto politico-antisociale che aveva dovuto costruire per proteggere i suoi privilegi di imprenditore; lei crede in ciò che fa e persegue come obiettivo la trasformazione dell’Italia da costituzional-resistente in costituzional-presidenzialista.
E’ un salto di squalificazione non da poco e va molto oltre le semplici, peraltro giuste, stigmatizzazioni dei nomi assegnati ai ministeri ricoperti, essenzialmente, da esponenti di Fratelli d’Italia: la rievocazione di concetti come “Natalità“, “Merito“, “Sovranità alimentare” vogliono dire certamente che oggi governa la destra e che lei intende metterlo da subito in chiaro. Prima di tutto con il suo elettorato di vecchio corso: il messaggio è quello di chi intende sottolineare che, sulla scia delle mai mutate proposizioni di esaltazione del nazionalismo, del particolarismo italiano e dell’esclusivismo autarchico di una economia che si intende comunque inserite nell’orbita continentale e globale, si intende procedere alla modernizzazione di questi concetti.
La destra che governerà attraverso Giorgia Meloni intende stabilire una connessione duratura col Paese, empatizzare la sua azione di governo e, al pari del fascismo novecentesco, agire con il proposito fermo di non essere solo un esecutivo nuovo ma un nuovo modo di fare politica di governo. Questo è il pericolo più profondo che sta dietro le tante chiacchiere e i tanti commenti che si possono fare al riguardo.
La mediocrità espressa attraverso una serie di spartizioni delle caselle ministeriali, per accontentare entrambi gli alleati, non rende il governo Meloni sottovalutabile nella potenzialità che una destra moderna, diciamo pure “di popolo“, o se vogliamo “di lotta e di governo“, possa avere quando si accinge a gestire problemi di caratura internazionale che riguardano direttamente la sopravvivenza di milioni e milioni di italiani.
Se riuscirà in questo intento, quindi nel far apparire come grandi conquiste sociali il sostegno spregiudicato alle imprese (parla chiaro il nome del MISE trasformato in “Ministero delle Imprese e del Made in Italy“) con i fondi del PNRR e la preservazione dei privilegi come fondamento della ricchezza nazionale, allora vorrà dire che, non solo avrà saputo muoversi tra le tante trappole fatte giocare all’interno della sua turbolente coalizione e maggioranza, ma ancora di più significherà che l’opposizione parlamentare non avrà saputo distinguersi sufficientemente e proporre al Paese una alternativa di concreta giustizia sociale.
La certezza fin da ora, in questo caso, è che non sia sufficiente fare opposizione nelle Camere per contrastare i disegni conservatori, reazionari e liberisti del governo Meloni.
Servirrà molto di più l’azione di piazza, tanto l’impegno politico quanto quello sindacale, per generare un contrasto veramente popolare e di massa che ostacoli e sconfigga quelle pretese di stravolgimento costituzionale che, dopo il passaggio dirimente della finanziaria e dell’autunno caldo, faranno, da vari ministeri, capolino per tentare la rivincita del clericalismo sul laicismo, del tradizionalismo ipercattolico sul riformismo condiviso tra la Chiesa di Francesco e i governi pur non progressisti avuti dalla Repubblica fino ad oggi (fatta eccezione per il Conte II che pare un faro in mezzo a tanto buio di retrocessione inculturale e incivile).
In questo quadro la perniciosità del governo Meloni è carsica nel suo esprimersi in un tentativo di rimodulazione della società italiana: dal berlusconismo ad un misto di liberismo draghista e nazionalismo dal retrogusto trumpiano, con riferimenti chiarissimi ad un mutamento radicale dei valori condivisi, per cui diventerà irrilevante avere ancora nella Costituzione la proclamazione dell’eguaglianza e della dignità sociale di tutti i cittadini nell’articolo 3, senza alcuna distinzione per colore della pelle, per culto, per idee, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Se una grande opposizione sociale, culturale, civile e morale non farà compattamente da argine a questa occasione per le destre di cambiare a centottanta gradi il carattere egualitario, resistenziale, laico della Repubblica, scongiurando lo spostamento dell’asse del Paese dal punto di vista dalla fondazione sul lavoro alla fondazione sulle imprese (la denominazione dell’ormai ex-MISE sta già lì come campanello d’allarme), avremo regalato all’Italia un altro periodo buio nella sua presunta attuale modernità.
Quello di Giorgia Meloni, più che un governo è un attentato alla Costituzione in potenza. Perché non lo divenga in atto occorre l’impegno della maggioranza degli italiani che non hanno votato le destre e di tutte e tutti coloro che hanno perso fiducia nel valore della delega rappresentativa della volontà popolare. Non ci si può astenere dal cominciare, fin da subito, a fare opposizione nel Parlamento e nel Paese all’esecutivo nero e al progetto di egemonia che si intende portare avanti imbellettandolo con le rassicurazioni del mantenimento intatto dei diritti tanto sociali quanto civili.
Non si tratta di dubitare, ma proprio di non credere per niente alla buona fede di chi inizia da oggi a governare l’Italia del post-draghismo, l’Italia che fa un vero e proprio salto nel buio.
MARCO SFERINI
22 ottobre 2022
foto tratta da Wikipedia