In una intervista a l’Unità online, Enrico Morando, una delle voci liberal più note rimaste nel PD di Elly Schlein, spiega, attraverso una molto opinabile descrizione geostrategico-politico-economica del mondo, che oggi il confronto multipolare non si gioca tra capitalismo e socialismo (e fin qui ci voleva poco a capirlo e a dirlo, essendo abbastanza oggettivo come dato di fatto), quanto tra capitalismo liberale e capitalismo di Stato e che, quindi, la sinistra, per come la intende lui, deve aggiornarsi in tal senso.
E’ evidente che per capitalismo liberale intende l’Occidente cosiddetto “democratico“, atlantista e filoamericano, mentre per capitalismo di Stato intende la Cina e tutti quei paesi a sistema un po’ misto tra struttura economica e sovrastruttura politica e, conseguentemente, istituzionale. Non si può dare torto ad Enrico Morando quando, pur non affermandolo, lascia tra le righe il pensiero per cui nei paesi che si ostinano a definirsi socialisti e comunisti, di socialismo c’è ben poco, di comunismo neanche l’ombra.
Ma questo non è sufficiente per ritenere così semplice la divisione in due di un globo in cui, invece, sono molte le differenze che oggi caratterizzano gruppi di paesi che, infatti, al di là delle loro scelte “capitalistiche” (per stare nell’alternanza/alternativa che il leader dell’area liberal del PD ci propone), si osservano, si approcciano e, spesso, tessono accordi ed alleanze certamente al pari di quelle consolidate da decenni con organizzazioni transnazionali che, invece di tutelare le ragioni e gli interessi dei popoli, applicano il peggio del neoliberismo: la preservazione esclusiva dei profitti e dell’accumulazione dei capitali.
Secondo Morando la fase neoliberista sarebbe ormai al tramonto e ci dovremmo preparare ad una stagione nuova, abbandonando certe idee della sinistra del passato, intesa come luogo socio-politico e culturale esclusivo del pubblico, del bene comune, dell’interesse solamente popolare e del mondo del lavoro.
Il tema della compenentrazione tra fattori opposti di classe, tra le stesse classi che si contrappongono senza che questo venga mostrato con tanta evidenza nei racconti televisivi e giornalistici, rimane il leitmotiv di un riformismo che supera sé stesso nell’accondiscendenza verso un sistema che produce ogni giorno enormi quantità di diseguaglianze, guerre, stragi, devastazioni ambientali e vilipendi di diritti, imponendo doveri, confini, pregiudizi, finte nazionalizzazioni e nazionalismi, rientrando perfettamente in una logica di imperialismi multipli che si scontrano sul terreno: un Ucraina, a Gaza, nel Pacifico, nel golfo di Aden, in Africa.
Se tutto questo lo si può chiamare “fine del liberismo” e magari pure “inizio del nuovo liberalismo“, allora la prima considerazione opportuna è una domanda: è questo il vero modello liberale? Perché se è questo, se è sbagliato considerarlo una torsione di sé stesso entro i termini dell’espansione globalizzatrice dei mercati a tutto tondo, allora vuol dire che fino ad un minuto prima dell’intervista data da Enrico Morando a l’Unità (nell’anno in cui il giornale di Gramsci compie cento fantastici e tribolati anni) abbiamo chiamato “liberalismo” qualcosa che non era tale.
Se nella lingua italiana hanno ancora un senso le parole e tutte le differenze, se pure apparentemente inunfluenti che possono esprimere, si converrà sul fatto che “liberismo” e “liberalismo” non sono mai stati e non possono essere la medesima cosa. Non fosse altro perché il liberismo è, in sostanza, una teorizzazione economica, una interpretazione della società in cui il ruolo dello Stato viene sempre meno, lasciando il posto ad un dirigismo economico che, tuttavia (lo si è visto molto bene negli ultimi trent’anni del Novecento), utilizza il potere politico rinforzandono per avere le giuste garanzie di pace sociale.
Liberalismo è, invece, il carattere ideologico di una politica che riconosce l’uguaglianza dei diritti di tutte e tutti davanti alla Legge e allo Stato e che, nel tempo, è divenuta il contraltare del socialismo e del comunismo con sempre maggiore nettezza (dai tempi di Cavour fino al più moderno centrismo democratico), identificandosi, sul terreno economico, con la classe borghese, con la preservazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, con l’espansione del mercato oltre il contesto euro-atlantico.
Secondo Enrico Morando, in un mondo in cui il liberalismo la farebbe da padrone, essendo superata la fase aspra del contrasto asperrimo del liberismo turbocapitalista, la logica progressista che vede privilegiare il pubblico rispetto al privato sul piano economico-sociale, quindi preferendo ciò che è statale rispetto a ciò che non lo è, dovrebbe aprirsi ad una tendenza liberalizzatrice tutta nuova ed innovante.
Probabilmente noi e Morando abbiamo vissuto in due mondi diversi fino ad oggi, ma i disastri antisociali di questi decenni, di un ridimensionamento progressivo delle garanzie, delle tutele e dei servizi pubblici, dalla scuola alla sanità, dal lavoro ai trasporti, dalle comunicazioni ai più elementari beni comuni (primo fra tutti l’acqua…), sono tutti frutto di quelle politiche liberalizzatrici che si sono trasformate in esecuzione di ordini liberisti provenienti dalle centrali di strutturazione di un liberismo europeo che, nonostante tutti gli sforzi, è rimasto subordinato a quello americano ed ha subito il gioco dei finti opposti.
Dov’è la grande novità di una sinistra che dovrebbe, con le liberalizzazioni, divenire il polo di attrazione interclassista capace di superare antichi contrasti, dando all’Italia e all’Europa un presupposto di rilancio sociale, economico e politico? Forse la fine del Partito Comunista Italiano cos’è stata se non il maldestro traghettamento in una acidula salsa socialdemocratica del maggiore partito anticapitalista europeo verso una linea governista che escludeva ormai a priori l’opposizione socio-politica e abbracciava le compatibilità dell’Occidente?
Possiamo discutere fino alla noia del tasso di socialdemocrazia già presente nel PCI alle soglie del suo mutamento in PDS e, al pari, possiamo pure dissertare su quanto tutto questo abbia corroborato le tesi dei miglioristi sull’avvicinamento ad un socialismo che era, con il craxismo, approdato ad un centrismo snaturante tanto l’ideologia quanto l’essere parte del primo centro-sinistra della storia repubblicana dell’Italia moderna. Ma un dato rimane inequivocabile: ogni volta che una forza di sinistra si è allontanata dalla concezione del pubblico per mescolarla col privato, per arrivare ad un compromesso politico, ha tradito prima di tutto la sua classe e poi anche sé stessa.
Legittimamente, i liberali presenti nel PD, dichiaratamente tali, rivendicano questo tratto del post-comunismo, ancora più evidente con il primo passaggio veltroniano dal democraticismo di sinistra a quello di centrosinistra: la convergenza tra esperienze riformiste sul piano sociale e sul piano dei diritti, per fare del liberalismo il terreno di un progressismo privo di quelle che reputano le ideologizzazioni radicali, ancorché riferite a tanti passaggi altrettanto riformisti che dall’inizio del Novecento si sono avvicendate nelle tante trasformazioni del socialismo italiano.
Ma affermare che, proprio mentre il liberismo ultramoderno si mostra in tutta la sua spietata forza imperialista, intrisa di suprematismi politico-militari da un lato e ferocemente finanziario-economici dall’altro, la nuova lotta tra i poli (tutt’altro che opposti) sia tra capitalismi è dare per scontato che una alternativa è inesprimibile tra “liberalismo” e “statalismo“. Probabilmente per Morando il socialismo è una proiezione distopica, tutta immaginaria, proiettata all’indietro, sedimentata nei ricordi di una sinistra che deve invece guardare al contrario di sé medesima.
Nel convincersi che solo nel capitalismo c’è una speranza per l’umanità, lì e solamente lì c’è la grande illusione. Una menzogna che ci si racconta per evitare di riorganizzare una alternativa internazionale contro tanto il capitalismo liberista da un lato e quello di Stato dall’altro. L’analisi è molto difficile da fare se si perde di vista l’obiettivo: e questo non può che essere, se davvero si intende stare dalla parte degli sfruttati, il superamento di qualunque capitalismo. Sia che si faccia chiamare democrazia liberale, sia che prenda il nome di comunismo per diventare una delle potenze più appetibili per il mercato.
Un tempo, storicamente parlando, l’espressione “capitalismo di Stato” era riferita soprattutto all’Unione Sovietica, criticata da sinistra per il dirigismo intransigente, per l’oligarchismo che aveva preso piede nel dopo-stalinismo, per la mortificazione dei valori rivoluzionari, costretti ad avere la parte dell’ideologia di governo mentre tutto attorno il mondo correva al riarmo nucleare, nel contesto bipolare della Guerra Fredda. Almeno in quel frangente, durato decenni e decenni, la scelta di campo era quasi istintiva: con l’America o con la parte che si richiamava al socialismo, pur con tutte le sue contraddizioni?
Oggi, chi come noi è anticapitalista e comunista, non solo non può essere dalla parte del capitalismo liberale per avversione primigenia, caratteriale, culturale, politica e sociale; non solo non può schierarsi con quei capitalismi di Stato che fingono di essere società in cui lo sviluppo individuale coincide con quello comune e collettivo, mentre i mercati se ne appropriano; non può, anzitutto, pensare di dare seguito ad una terza via liberale in mezzo a queste due contrarie identità.
C’è tutto di sbagliato nel cercare un compromesso tra pubblico e privato quando questo è oggettivamente, ed inevitabilmente, a vantaggio solo del secondo. La nostra Costituzione prevede un raffronto in merito, nel nome dell’utilità sociale. E sancisce sempre il primato dell’interesse pubblico. Su qualunque altro interesse. Il liberalismo di sinistra, nel corso della sua poco gloriosa storia, ha invece preteso di partire da una base valoriale che rivendicava i diritti della povera gente, per terminare nella sempre più accondiscentende e complice tutela dei privilegi di pochi.
Diversamente da quello che crede Enrico Morando, ci sembra che il neoliberismo, pur in crisi e pur nel pieno delle sue contraddizioni, che gli derivano dal capitalismo stesso, non sia affatto arrivato al traguardo ma stia anzi puntando ad un adattamento sempre più urgente, anche in vista dello sviluppo di una crisi climatica e ambientale di dimensioni catastroficamente epocali. E’ facile tacciare di utopismo ogni proposta che non rientra nei cardini della stretta attualità, perché i rapporti di forza lo impediscono.
Ma è anche abbastanza facile ormai smascherare quei tentativi di far credere che la sinistra vera possa essere una delle paladine del liberalismo e delle liberalizzazioni in campo economico. E’ uno spettacolo già visto e vissuto. Troppe volte. Sarebbe ora che qualcuno dicesse, rivolto a questi teatranti, dal pubblico: «Sipario!».
MARCO SFERINI
16 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria