«Pinelli, una storia». Elogio di una vita libera e irregolare

Scaffale. Nel libro di Paolo Pasi per Elèuthera, il ferroviere anarchico sa che si può scartare dai percorsi obbligati e orientarsi in altra direzione. Per questo si sente vicino ai giovani che cercano uno stile di vita «disallineato». È un militante che sfrutta la libertà di viaggiare in treno per estendere la sua rete di relazioni, che si spende instancabilmente per i compagni incarcerati e, allo stesso tempo, a casa condivide i compiti con la moglie
Giuseppe Pinelli

Era il 1962 quando Luciano Bianciardi raccontò il lato oscuro «di un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve». La Milano del «miracolo balordo» di Bianciardi – dove crescono il Pil i consumi e i bisogni purché tutti «siano pronti a scarpinare» e dove la vita, per molti, è agra – è la stessa di Giuseppe Pinelli. La racconta in modo delicato il libro di Paolo Pasi, Pinelli. Una storia, (Elèuthera, pp. 184, euro 16), pubblicato a 50 anni esatti dalla morte del «ferroviere anarchico» come il saggio di Paolo Brogi, Pinelli. L’innocente che cadde giù (Castelvecchi, pp. 160, euro 15). Se la ricerca di Brogi è un ulteriore tassello nella ricerca della verità sul caso Pinelli, il libro di Pasi si pone un obiettivo diverso: «ricostruire la vita di un uomo di cui si è scritto molto, ma solo per raccontare le circostanze della sua morte».

Dalle pagine emergono le istantanee della Milano in cui Pinelli si spostava con il suo inseparabile motorino Benelli rosso fra la casa popolare di via Preneste 2, lo scalo ferroviario di Porta Garibaldi, il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, la Casa dello studente e del lavoratore in piazza Fontana, proprio di fronte alla banca teatro dell’attentato del 12 dicembre. È in questo spazio-tempo vivo e cupo che Pinelli contamina lo slancio giovanile antifascista (staffetta partigiana con la brigata Franco) e la formazione anarchica, acquisita attraverso il lavoro e l’incontro con lavoratori libertari, con la curiosità verso le controculture che sorgevano alla fine degli anni ’60: i beat di Brera e della «Cava», i provos antimilitaristi e anticlericali.

Pinelli è un anarchico pacifista, ha studiato l’esperanto in cerca di un alfabeto cosmopolita, all’amico in carcere scrive: «l’anarchismo non è violenza, è ragionamento e responsabilità». È un lettore autodidatta, ha la quinta elementare ma Fernanda Pivano, che lo conosce, lo definisce «troppo lungimirante». È un proletario con la passione per la letteratura e la musica, che non crede nella separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma rispetta il suo mestiere di caposquadra manovratore perché consente autogestione, responsabilità e solidarietà, al contrario della claustrofobica alienazione della fabbrica.

Quella cui Pasi cerca di restituire «il respiro del racconto» è soprattutto una vita condotta nel segno della «deviazione»: Pinelli, il ferroviere, sa che si può scartare dai percorsi obbligati e orientarsi in altra direzione. Per questo si sente vicino ai giovani che cercano uno stile di vita «disallineato». È un militante che sfrutta la libertà di viaggiare in treno per estendere la sua rete di relazioni, che si spende instancabilmente per i compagni incarcerati e, allo stesso tempo, a casa condivide i compiti con la moglie.

Ecco, un libro come questo ci aiuta forse a capire – e oggi ne abbiamo bisogno – che la caduta di Pinelli dal quarto piano della questura di Milano, la notte del 15 dicembre 1969, non solo «ha oscurato il sogno di una rivoluzione umanista e libertaria», ma ha spento una vita irregolare, refrattaria ai dogmi e all’ordine. Una vita preziosa perché rara.

FRANCESCA GRUPPI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia

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