Ho mandato il mio sms al 45500. L’ho fatto per dare un piccolo aiuto al sostegno economico per il terremoto del centro Italia, ma vi confesso che non solo non mi sento orgoglioso di questo gesto, nemmeno mi sento meglio emozionalmente parlando.
Forse perché da ieri mattina ho assistito alla solita accumulazione originaria e continuativa di buoni sentimenti ed espressioni di ipocrisia mutate in atteggiamenti di cordoglio lamentoso, quasi indigesto da tanto che se ne ingerisce mentalmente se si leggono Facebook, Twitter e si ascoltano le radio e si vedono i programmi televisivi non stop dedicati alle dirette dai luoghi del disastro.
La retorica della ripetizione del dolore mi atterra, mi sfianca. Soprattutto non credo nella bontà che emerge univoca, tutta spontanea, mentre un momento prima anche coloro che sono stati travolti dal sisma magari disprezzavano le disgrazie altrui, quelle dei migranti, inneggiando a chissà quale forma di repressione e razzismo.
Poi, come dice il vecchio detto: “in disgrazia addio orgoglio”.
Mi colpiscono meno le analisi politiche e sociali, persino quelle geogoliche, della parodia dei sentimenti di pietà che tutti, ma proprio tutti, dimostrano e vogliono dimostrare di avere verso le vittime, le famiglie spezzate da lutti che non sono comprensibili, così come molte altre cose e vicende della vita continuano a non essere tali.
Mi danno invece fastidio e mi provocano una nausea indicibile quelle parole vuote, banali, appunto ipocrite che risuonano così: “Povera gente, guarda cosa gli è capitato”; oppure: “Beh, certo, è una zona sismica e ogni tanto può succedere”; e ancora: “Dobbiamo mettere da parte le critiche e lavorare tutti per aiutare i terremotati”.
Nei tranquilli giorni del resto dell’anno, se la terra non trema e il mare non si alza in onde di tzunami, siete impegnati nell’urlare contro altri vostri simili che cercano rifugio dai terremoti delle guerre, della fame, della disperazione. Siccome, ora, il terremoto, definito “una guerra” dai maggiori quotidiani italiani, è nel cuore di “casa nostra”, scatta un moto di universale solidarietà che nessuno può negare, contrastare o criticare.
E’ un moderno ritorno al melodramma tutto italiano, fatto di buoni sentimenti e con un finale tragico. Ma qui i buoni sentimenti sono davvero buonismi: non da parte di chi si rimbocca le maniche e va sui luoghi dei crolli per scavare a mani nude e salvare bambini, donne e uomini intrappolati tra le macerie; ma, semmai, da parte di chi come me sta dietro ad una tastiera e non può fare altro che inviare un sms alla Protezione Civile, 2 miserevoli euro che forse serviranno ad acquistare un po’ d’acqua per chi ha perso tutto.
Eppure non riesco a sentirmi né un “buonista ipocrita” e tanto meno un “indifferente senza scrupoli”. Sono in una via di mezzo: la pedanteria giornalistica e la retorica mi spingono verso l’indifferenza, quasi a dire: “Non ne avete mai visti di terremoti? La gente muore sotto le case che cadono. E allora?”; la foto di una bambina estratta dalle macerie e spaesata, senza più punti di riferimento, mi fa invece piombare in una tristezza difficile da descrivere.
Così come la commozione di una cronista di Rai News 24 che, a poche ore dal sisma, e in diretta su quei luoghi aveva davvero la voce strozzata dalla commozione quando ha sentito dire che due coniugi che forse potevano essere vivi non sarebbero stati tirati fuori dai detriti se non senza vita.
Piccole emozioni, momenti quasi impercettibili nell’assordante titolazione a cinque colonne dei quotidiani, negli strilli in sovraimpressione dei canali di notizie continue. Piccole cose che ti fanno sentire ancora umano e un poco afflitto: senza bontà inventate, senza sentimenti artatamente creati, senza infingimenti e scoperte di buonismi a ottimo mercato.
Non solo la guerra, ma anche un terremoto tira fuori dalle persone sia il peggio sia il meglio. Tutto sta a riconoscere il vero meglio e il vero peggio.
MARCO SFERINI
25 agosto 2016
foto tratta da Pixabay