A metà mattina la Porta di Damasco è vuota. Non ci sono le anziane sedute a terra con di fronte un telo pieno di frutta da vendere ai passanti. Non ci sono i passanti. Sulle gradinate non è seduto nessuno.
Un gruppo di soldati è fermo sotto il grande arco che conduce alla Città Vecchia di Gerusalemme. Quando si avvicinano dei giovani palestinesi, li bloccano, li perquisiscono braccia al muro, poi decidono se lasciarli passare o mandarli via.
Il luogo più vivo della Gerusalemme palestinese è sospeso in una bolla. Lo spazio vissuto da persone di ogni provenienza e identità, lo spazio pubblico che mescola la quotidianità delle classi più povere a quella dei giovani universitari, dei lavoratori e dei religiosi, lo spazio allo stesso tempo più politico e più neutro, più libero e più oppresso, è in silenzio.
Perché è qui – avviene da sempre – che si concentra il controllo delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese. E stavolta è peggio, molto peggio. «Siamo abituati alle punizioni collettive, ma questa volta è diverso, non ha precedenti. Nemmeno la seconda Intifada».
Adnan è un giovane residente della Città vecchia. Si definisce attivista socio-politico, è il project coordinator del Jerusalem Legal Aid & Human Rights Center. L’ufficio, vicino Salah-a-din Street, è stato rinnovato da poco, su una parete bianca il volto di Mahmoud Darwish, quello di Che Guevara e una fascia con i colori della bandiera palestinese.
Raccoglie denunce di abusi della polizia, nelle ultime settimane lievitano, impossibile registrarle tutte: «Tra noi ragazzi ci diciamo di non reagire alle umiliazioni. Se reagisci, ti arrestano».
È una politica, dice, che agisce in modo indiscriminato ma strutturale: «I soldati ti profilano per strada, se sembri arabo, se parli arabo. Ti fermano e la procedura è la stessa, a me è successo due volte negli ultimi giorni: ti fanno alzare le maglietta per controllare se nascondi qualcosa, poi ti fanno alzare le mani e camminare verso il muro. Quando hai il volto alla parete, ti spingono il gomito sul collo e ti allargano le gambe con i manganelli, le allargano e la allargano. Io non ce l’ho fatta più, ho detto di smettere e mi hanno sbattuto la testa contro il muro. Perquisiscono ovunque, toccano tutto il corpo. Anche i bambini che vanno a scuola in Città vecchia vengono perquisiti e toccati ovunque, è un abuso».
«Intanto ci gridano insulti in arabo, offendono le nostre madri perché vogliono farci reagire. Se reagisci ti picchiano. A volte ti arrestano». A molti confiscano il telefono, li costringono a sbloccarlo, se ha il riconoscimento facciale è più semplice: glielo puntano in faccia. Cercano post sui social, fotografie, chat su WhatsApp.
«Ci picchiano se trovano la foto della bandiera palestinese – continua Adnan – Ci picchiano se trovano chat dove ci scambiamo notizie. Ci picchiano se trovano post su Gaza. Non importa se sono notizie di agenzia o like a un post: stanno accusando tantissime persone di incitamento al terrorismo». Molti cancellano le chat, altri disinstallano WhatsApp, altri tolgono il riconoscimento facciale dal telefono o non lo portano più con sé.
Rami ha 50 anni. Anche lui lavora al centro legale. Anche lui ha subito perquisizioni e minacce: «Mentre mi controllavano, i poliziotti dicevano che non avrebbero dimenticato quello che abbiamo fatto il 7 ottobre. Come se fossimo stati noi. Ma è questo il punto: la punizione collettiva di tutti i palestinesi. Registriamo casi di abuso ogni giorno, auto perquisite, patenti ritirate, anziani umiliati, fedeli a cui è impedito di andare a pregare, persone arrestate perché avevano come suoneria una canzone araba. Ci stanno togliendo ogni umanità, ci trattano come animali».
La Città vecchia è diventata un luogo quasi irraggiungibile. Pochi palestinesi in giro, figurarsi i turista, negozi con la serranda chiusa: non hanno a chi vendere. La presenza di soldati a ogni angolo non ha mai rassicurato, oggi è ancora più temuta.
«Hanno trasformato Gerusalemme in una caserma», sintetizza Rasim Obeidat. Giornalista, ex prigioniero politico durante la prima Intifada, dice che un clima così non lo ha vissuto mai.
«C’è tanta paura, siamo come congelati. La sera non si esce di casa. Nei quartieri palestinesi dove ci sono i coloni, Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amud, le famiglie vivono nel terrore. I coloni lasciano slogan scritti sui muri, bruciano le auto, offendono i cristiani».
Un tale livello di controllo non c’è stato mai, insiste: «I corpi speciali arrestano all’alba, nelle case per lo più, non per strada. Tanti sono ex detenuti, tanti vengono portati via per un post sui social. La gente ha paura a scambiarsi idee a voce alta. Qualsiasi atto di sostegno a Gaza è considerato incitamento».
Dal 7 ottobre nei Territori occupati sono stati arrestati oltre 1.200 palestinesi, circa 150 a Gerusalemme. Li hanno chiusi tutti al Moscobiyeh, il più temuto carcere della città. Il Russian compound, il nome con cui lo battezzò il Mandato britannico, da sempre il luogo degli interrogatori e degli abusi. Evocarlo fa già paura.
Ne hanno messi trenta per cella, dicono i centri legali, alcuni li hanno trasferiti altrove ma alle famiglie non hanno comunicato nulla: «Dal 7 ottobre la pressione sulle carceri è aumentata – dice Obeidat – Come nella prima Intifada: all’esercito il compito di sedare ogni protesta».
A Rasim alla fine degli anni Ottanta uccisero due compagni di cella. Oggi si chiede come siano morti i due prigionieri di cui è stata data notizia nei giorni scorsi: martedì Arafat Yasser Hamdan, 25 anni, di Beit Sira; lunedì Omar Hamza Daraghmeh, 58 anni, di Tubas.
Le autorità israeliane parlano per entrambi di infarto e di appartenenza ad Hamas. Hamdan era stato arrestato appena due giorni prima ed era detenuto ad Ofer; Daraghmeh era in detenzione amministrativa dal 9 ottobre (senza accuse né processo) a Megiddo. Nessuna autopsia indipendente è stata ancora svolta sui loro corpi.
CHIARA CRUCIATI
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