Dobbiamo essere maturi, seri, pienamente consapevoli che agitare gli spettri del fascismo del primo Novecento non è politicamente insensato ed è, oltremodo, storicamente inadeguato: gli spettri e tutti gli epifenomeni del Ventennio criminale di Mussolini non si possono ugualmente rimaterializzarre in Italia oggi, nel 2022, con l’affermazione probabile di Giorgia Meloni e del suo partito in queste elezioni settembrine.
Questo è un fatto: perché camicie nere, gagliardetti, la polizia segreta dell’OVRA, le squadracce delle Brigate Nere, i torturatori spietati della Banda Koch, gli omicidiari seguaci di Mussolini e Mussolini stesso non esistono più. Sono stati consegnati al giudizio della Storia e a quello dell’Italia che decise, tra il 1946 e il 1948 di darsi una Costituzione che permettesse alla nazione di rinascere democraticamente, senza più totalitarismi, tentazioni che fossero tali e monarchie reiette, capaci solo di essere delle sanguisughe del popolo italiano.
Questi sono dati di fatto, perché sono ormai elementi storico-politico-sociali di cui dobbiamo essere consci. Dovendo portare rispetto alla nostra storia, dobbiamo trattarla come tale: un patrimonio della memoria che va trasferito sempre nell’attualità per avere il giusto calibro con cui misurare gli eventuali eccessi che possono procedere in direzioni antitetiche a quelle della democrazia repubblicana.
Anticipazioni come quelle di cui sopra, però, presuppongono sempre un “ma“.
Eccolo: se risulta ridicolo fare una campagna elettorale agitando lo spauracchio del fascismo del primo Novecento, non è affatto da dileggiare tutta una serie di analisi e di affermazioni che mettono in guardia da un allontanamento progressivo della democrazia da sé stessa, trascinando la Repubblica verso una deriva presidenzialista per via di una esigenza, fatta sentire alla popolazione, di ricorrere ad un decisionismo che sorpassi la complessa macchina parlamentare da cui escono le leggi che l’intero Paese deve (almeno dovrebbe) rispettare.
Il patto comune, il contratto sociale che lega il popolo italiano ogni giorno, è emanazione del Parlamento che, a sua volta, è espressione della volontà popolare. Il principio è questo. La Costituzione così afferma e determina risolutamente.
Il fatto che gli interpreti politici della stessa non abbiano, per lunghissimo tempo, messo in pratica i dettami della Carta del 1948 è una questione di mala amministrazione ed anche di cattiva fede, seguaci entrambe di uno spostamento della tutela dell’interesse pubblico e dei beni comuni ad una adesione volontaria alla privatizzazione delle nostre vite che è andata continuamente allargandosi, espandendosi nei settori più dirimenti per l’economia tanto del singolo quanto dell’intero Paese.
Potremmo definirla una vittoria del liberismo sul liberalismo, perché, quanto meno, pur non essendo i nostri punti di riferimento, quei princìpi erano almeno un compromesso tra contenimento degli eccessi del mercato e sviluppo di una idea di società in cui si raggiungesse un livello sostenibile di uguaglianza sia formale sia sostanziale.
E potremmo anche definire tutto questo una vittoria del liberismo, dunque, sulla democrazia, sullo Stato, sulla Repubblica che rappresenta quel punto di contatto tra interesse popolare e concretizzazione della difesa di questo interesse da parte delle istituzioni preposte.
Potremmo, anzi possiamo dire, che la vittoria ormai cinquantennale del fenomeno liberista oggi trova oggi, in questo suo compleanno, le maggiori difficoltà ad essere realizzata nell’attualità di una convergenza di fattori esplosivi come la pandemia, la crisi ambientale e climatica, la guerra in Ucraina che è guerra di opposti imperialismi per la ridefinizione della geopolitica mondiale.
Il cambiamento repentino degli equilibri su cui si fondava il moderno sviluppo capitalistico di una produzione mondiale di merci diffuse su tutto il pianeta, con una popolazione salariata pari ad un terzo di quella totale, ha determinato non solo una crisi di panico del sistema del profitto e dello sfruttamento della forza-lavoro, ma ne ha destabilizzato alle fondamenta le certezze che stavano, seppure altalenanti, nelle crisi cicliche esaminate con cura da Marx.
Il pericolo che oggi vediamo, nell’inviluppo autoritario di democrazie che addirittura fanno parte dell’Unione Europea (Ungheria e Polonia, tanto per gradire) o che si fregiano, almeno a ragion storica veduta, dell’essere le più antiche al mondo (Stati Uniti d’America in primis, Inghilterra a pari merito) e che sono state preda del complottistico furore antimondialista del sovranismo trumpiano, è un pericolo reale e mutuabile nelle singole realtà nazionali, ancorché protette dai meccanismi interstatali delle organizzazioni che ne dirigono le cosiddette “stabilità economiche“.
Quando si fa riferimento, a questo proposito, all’Europa come garanzia di impedimento del ritorno di revanchismi di destra estrema che negherebbero i diritti fondamentali civili, sociali di un popolo – come quello ungherese o quello polacco – o che ne minaccerebbero apertamente la cultura, che è differenza, confronto, dialettica e anche scontro aperto tra idee opposte, si ha innanzi l’evidente insufficienza politica della UE proprio come sovrastruttura confederale, come aggregato solamente economico e finanziario che, invece di dare equilibrio tra forti e deboli e viceversa.
La questione che riguarda la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario è uno degli argomenti fondanti di un sovranismo che vuole esacerbare gli animi delle persone, mettendo in contrapposizione non tanto Roma con Bruxelles o Francoforte ma, viste le velocissime svolte europeiste ed atlantiste di Giorgia Meloni in campagna elettorale, quanto con quei paesi della UE che stanno facendo progressi nella regolamentazione proprio del capitalismo continentale, escludendone gli eccessi da tutta una serie di interventi strutturali che devasterebbero ancora di più le precarie condizioni di vita di milioni e milioni di cittadini.
Il comizio della leader di Fratelli d’Italia nella piazza spagnola degli estremisti franchisti di Vox è, sotto tutti i punti di vista, emblematico: quello è il vero credo politico di Meloni. Quello è quanto intende portare avanti una volta al governo dell’Italia, pur circondandosi di ministre e ministri che saranno scelti oculatamente per dare qualche barlume di sicurezza ai mercati, a Confindustria, al ceto medio-grande. A quel 4, 5% di popolazione che ha redditi spropositati e che intende mantenerli grazie alle tutele di privilegi che solo le politiche liberiste di un governo anche conservatore possono permettere.
Il fascismo del fez e dell’orbace, degli stivaloni e delle pose erculee di Mussolini dai balconi, tronfiamente aggressivo per incutere timore e sicurezza al tempo stesso, non sono il pericolo che dobbiamo fronteggiare. Occorre metterselo bene in testa, soprattutto per non scadere in una retorica autoprodotta che ci allontanerebbe dall’analisi concreta e vera che bisogna invece diffondere e fare senso comune, intelligenza collettiva.
La lotta anche elettorale, propria di questi giorni, che noi comunisti e anticapitalisti di ogni sfumatura dobbiamo rendere visibilmente oggettiva e comprensibile per le persone che andremo ad incontrare con banchetti, volantinaggi o anche scrivendo su Internet come in questo caso, deve essere anzitutto il mettere in guardia dal pericolo di un cambiamento retrocedente che si innesti su un connubio tra privilegi dei ricchi e conservatorismo dei sovranisti.
Non è mai una ripetizione inutile avere ben presente che, quando il liberismo si afferma come moderno adattamento del capitalismo ai tempi post-bellici e poi si rinnova nell’attualità più stringente dell’oggi, ostacola lo Stato sul piano della difesa dei diritti sociali e lascia alle destre e alle forze reazionarie in genere il compito di comprimere i diritti civili. In questo modo si dà un fondamento quasi antropologico ad una visione tradizionale della famiglia, dello Stato stesso (come comunità esclusivamente nazionale) e della cultura che non possono innovarsi, ma che devono riprendere il passato e tradurlo pari pari nel presente.
Il conservatorismo di destra punta al presidenzialismo proprio per fare della Repubblica italiana un paese in cui solo la maggioranza abbia dei diritti conclamati e riconosciuti, mentre le minoranze dovranno sottostare ad una serie di pregiudizi, preconcetti e vessazioni che saranno – statene certi – spacciati come “tutele” munifiche e dimostranti l’autentica “democraticità” del sovranismo di governo.
Smettiamola di propagandare l’utilità del voto solamente se data a coalizioni che, numeri alla mano e sensazioni quotidiane alla percezione di ognuno di noi, non hanno la minima possibilità di prevalere sul tridente composto da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega con l’aggiunta delle appendici neocentriste di Toti, Lupi e Brugnaro. Smettiamola. Perché il problema è semmai sovvertire la logica maggioritaria già da ora, dicendo che ogni voto dato a partiti che non abbiano progetti di sovvertimento della parlamentarità della Repubblica è un voto dato contro quelle destre, contro quelle forze che ne muterebbero a fondo l’essenza originaria.
Ma quali sono le forze che escludono per davvero la torsione presidenzialista della nostra democrazia? Si fa prima ad andare per esclusione. E qui sta alla cultura civile, sociale e politica di ognuno di noi; sta a noi fare i conti con una coscienza cui dovremo rispondere immediatamente dopo il voto, se prevarranno forze che non allestiranno il teatrino lugubre del fascismo mussoliniano, magari nella sua più squallida rappresentazione, quella malinconicamente grigia e devastante della spietatezza repubblichina di Salò, ma che, con i due terzi delle Camere, potranno mettere mano a controriforme incostituzionali.
Non sono solo i voti dati al PD e ai suoi alleati a fare la somma che può scongiurare queste eventualità. Ogni voto non dato alle destre è utile a questo scopo. E lo è ancora di più se dato ad una forza come Unione Popolare che si prefigge di riportare in Parlamento le esigenze dei più deboli, del lavoro precario, della disoccupazione crescente, del disagio sociale estesissimo, di chi non vuole scendere a patti con quelle destre un minuto dopo le elezioni per dare magari vita ad una “bicamerale” per le riforme.
Serve in Parlamento un ampio schieramento progressista che possa fare rete, unirsi e lavorare insieme per costringere anche chi progressista non è a non lasciarsi tentare da queste sirene, da questa voglia di dare al liberismo economico la sponda politica, il placet delle istituzioni, piegando la democrazia a variabile dipendente dagli interessi privati piuttosto che essere espressione di quelli pubblici e collettivi.
I progetti di riduzione all’inedia delle nostre libertà fondamentali sono arginabili. Con tanti voti utili ad altrettante forze politiche utili. Una molteplicità di convenienze non private ma veramente di tutte e di tutti.
MARCO SFERINI
11 settembre 2022
Foto di Isabella Mendes