Perché “Unione popolare” non sia l’ennesimo fallimento a sinistra

Tutto è relativo. Forse quasi tutto, perché, nel giro di valzer delle ultime tornate elettorali per le politiche, abbiamo – noi di sinistra, noi comunisti – tentato alla bell’e...

Il logo dell’assemblea romana per il lancio di “Unione popolare”

Tutto è relativo. Forse quasi tutto, perché, nel giro di valzer delle ultime tornate elettorali per le politiche, abbiamo – noi di sinistra, noi comunisti – tentato alla bell’e meglio, e con notevoli sforzi di carattere soprattutto intellettual-programmatico, di affidarci all’improvvisazione per strutturare progetti che solo nominalmente avevano quel tratto di continuità che avrebbe dovuto pronosticare un percorso costituente di più lunga durata. Un tiro di dadi con la Fortuna che, prontamente, ci ha sempre voltato le spalle. E con qualche fondata ragione.

L’unità delle forze della sinistra di alternativa che è stata ricercata nel corso degli ultimi quindici anni, aveva come scopo anche il consolidamento di comuni denominatori culturali tra micromondi dell’anticapitalismo e dell’ecologismo molto autoreferenziali e molto poco disposti a mettersi in discussione per dare vita ad una novità politica nel panorama dell’Italia trasformistica, populista e sovranista.

Ma, in particolare, questa unità della sinistra ha giocato le sue carte provando ad inserirsi in una partita, indubbiamente truccata dalle leggi elettorali dettate dalle forze politiche egemoni di turno, ma ponendo al primo posto la disperata tattica di un rientro nelle aule parlamentari senza aver prima strutturato un progetto politico nei territori, senza essersi data anni e anni di lavoro nella società per fare tutto questo e, quindi, senza avere una minimamente chiara strategia sul da farsi.

E’ questo che ci è mancato fino ad oggi: un evento traumatico tale, come la fine dei regimi socialisti reali dell’Est Europa e il crollo del PCI e dei grandi partiti di massa, per scuoterci e avere la volontà e la necessità unite in uno slancio di riconversione delle sconfitte in un superamento politico ed organizzativo delle stesse con la fondazione di un nuovo partito della sinistra anticapitalista, antiliberista, progressista e, per dirla con un termine un po’ retrò, “eco-marxista”.

Non sono stati soltanto i condizionamenti pesanti delle giravolte opportunistiche della politica istituzionale italiana a impedire che la sinistra di classe e di opposizione potesse trovare un varco in cui penetrare ed operare per uscire dal proprio infantile minoritarismo, dalla saccenteria intellettualoide che ci ha fatto scrivere documenti, programmi, relazioni e analisi ripetute all’infinito sullo stato della società capitalista oggi.

Un freno niente affatto trascurabile lo si è incontrato nell’operazione di disaffezione nei confronti della rappresentanza, della delega parlamentare, quindi dell’esercizio del voto e nella partecipazione alla complessa macchina descritta dalla democrazia costituzionale.

Chi ha fatto tutto questo è davvero estraneo al mondo della sinistra di alternativa e, quanto meno, di questa colpa possiamo dirci estranei. Ma non assolti: perché non abbiamo saputo, con una comunicazione semplice, chiara, non contraddittoria e, in particolare, con una voce unica parlare al vastissimo mondo del disagio sociale, del mondo del lavoro parcellizzato, dell’ipersfruttamento dei rider, del popolo delle partite IVA e di tutto quel sottobosco di nuove povertà che aumentano, toccando oggi oltre i 6 milioni di italiani classificati dall’ISTAT nella zona del neopauperismo, quello più nero.

Poter superare il pregiudizio di una coazione a ripetere i nostri errori, sarebbe già un grande esercizio di emancipazione dal desolante quadro che oggi l’arco parlamentare della “grande” maggioranza di unità nazionale e delle finte opposizioni che la contrastano. Poter sperare che l'”Unione Popolare“, che si accinge a formarsi in questi mesi e a darsi una prima bozza politico-organizzativa a settembre, possa non essere uno dei tanti tentativi sorretti da un iniziale, corale entusiasmo psico-politico, necessario più a noi stessi che alle masse che pretendiamo di voler rappresentare, sarebbe già un buon punto di partenza.

Sperare vuol dire lavorare in questo senso: significa quindi fare in modo che quel “campo aperto” richiamato da Luigi De Magistris nell’assemblea romana sia realmente tale e che l’inclusività poggi, anche piano piano, su una trasformazione dei soggetti politici che ne fanno parte in un’amalgama nuova, in una voglia di pensarsi, proprio sul modello francese, come un mattoncino di un muro più alto contro il liberismo, contro tutte le ingiustizie sociali e per una nuova lotta dei più deboli contro una politica fatta di poteri veramente forti.

L’Unione Popolare deve poter essere una forza politica con una vita propria e i nostri partiti devono rilasciare la loro autonomia politica per creare una formazione che abbia una organizzazione moderna, vitale, capace di tradursi in una attività nuova, pensandosi attraverso le lenti interpretative delle giovanissime generazioni, senza tralasciare le necessità di quelle più adulte e anziane.

Sappiamo cosa ci può unire: la pace, l’internazionalismo, la lotta contro il capitale, il profitto, lo sfruttamento, l’attenzione nei confronti dell’ambiente e anche – fa piacere poter constatare – quel salto di qualità civile, morale, intellettuale e politico che è l’antispecismo.

La considerazione di ogni forma di vita come degna di essere vissuta e, quindi, l’acquisizione di una nuova cultura del rispetto di ogni essere vivente, animale umano o animale non umano, può aiutarci a consolidare tutte le lotte che abbiamo sempre fatto solo per la nostra specie, tralasciando i diritti delle altre ma, è questo il paradosso, includendo nell’agenda dell’alternativa il problema del contrasto evidente tra sviluppo capitalistico e natura.

Una sinistra anticapitalista moderna deve avere questo coraggio, tanto quando afferma l’impossibilità di alleanze politiche con il PD e con un centrosinistra inesistente, ma sopravvissuto soltanto nelle terminologie giornalistiche benevole di chi descrive i giallo-rossi appunto come tali, qualificandoli addirittura soltanto come “sinistra“, quando quando ascolta parole nuove, respira concetti inesplorati e si apre ad una interpretazione del comunismo e del socialismo di un nuovo millennio che si fa “campo aperto” anche in questo senso.

Sappiamo cosa ci può unire. Sappiamo anche cosa rischia di dividerci ancora: il guardarci come fratelli separati in casa, il non sentire quella nuova casa comune come la casa in cui tutti hanno pari diritti ma in cui ognuno cerca di conquistarne gli spazi e di farsene padrone, mettendo in pratica un concetto di egemonia nemmeno lontanamente paragonabile a quello di gramsciana memoria.

Sappiamo che abbiamo bisogno di parlare un nuovo linguaggio con i moderni proletari, con tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici, quei precari e disoccupati, quegli studenti e quei pensionati che, ancora una volta, non ci capirebbero se gli andassimo a raccontare che vogliamo celebrare i miti di un Novecento che ormai fa parte della Storia.

Una nostra storia, ma un racconto che affidiamo alla parte culturale del nostro cammino, non certo a quella che deve rimettere in circolo una tensione emotiva, partecipativa e, pertanto, una passione politica che poggi su aspettative future e non su religiosi riferimenti ad iconografie, parole, nomi e detti che non ci aiutano a superare quegli steccati che impediscono il formarsi di una nuova comunità sociale, politica e culturale.

Creare il “senso della comunità” e, quindi, dare seguito alla sua concreta appartenenza da parte di ognuna e ognuno di noi, è lo scopo di questi primi mesi in cui si penserà e ci si penserà nel nuovo progetto.

Per dare un senso al “senso comune” che deve uniformarci, serve non solo la capacità di comunicare esternamente in modo diretto, chiaro e univoco. Serve un luogo della riflessione e dell’analisi, del dibattito e della cultura di sinistra dove potersi confrontare e riconoscerci pienamente. Serve un giornale. Serve un foglio di carta stampata da diffondere capillarmente con una azione militante, parlando così con le persone, intitolando a quel foglio le feste che faremo su tutto il territorio nazionale, iniziando così a dare vita al senso della comunità e, pertanto, in nuce, alla comunità stessa che ne vivrà pienamente.

Per poter essere politicamente riconoscibili dalle persone per cui vogliamo lottare, dobbiamo essere prima di tutto riconoscibili noi stessi nei nostri confronti. Rifondazione Comunista riuscì, con molte difficoltà e non certo con grande continuità, ad essere quel punto aggregante nello smarrimento del grande botto fatto dal PCI, diventando il centro catalizzatore di esperienze veramente diverse fra loro, quand’anche letteralmente antitetiche per il cammino politico che avevano intrapreso dalla loro fondazione fino allo scioglimento.

Che un giorno si potessero ritrovare, sotto lo stesso simbolo e tetto, compagni del PCI e di DP, di sigle filo-maoiste, trotzkisti e stalinisti, sarebbe stata, oltre ad un’utopia, una vera e propria bestemmia politica nonché organizzativa. Accadde, va ripetuto, con tutti i limiti del caso. Le scissioni contate e subite da Rifondazione sono un Guiness dei primati nella storia dell’Italia repubblicana. Ma, è pur vero, che non da meno sono state le destre e anche il centro di questo Paese.

Mentre noi ci accingiamo a creare le fondamenta di Unione popolare, Toti e Berlusconi litigano su chi debba rappresentare proprio quella parte del geoparlamentarismo italiano, per intercettare i consensi del mondo imprenditoriale, della buona borghesia moderna e anche di tanti che sperano di far carriera saltando sul nuovo carro del vincitore o, non fosse altro, del nuovo corifeo di un padrone che si sta ingrandendo prepotentemente nell’area della destra neonazi-onalista.

Teniamo il profilo basso avendo però aspettative alte. Non è solo in Parlamento che manca una sinistra di alternativa e di classe. E’ nell’intero Paese che questa lacuna va colmata. Ma nei tempi giusti e senza precipitazioni organizzative che finirebbero per mortificare il progetto politico. Lavoriamo incontro ai ceti più deboli e sfruttati, andiamo noi verso loro e facciamolo con proposte – come ha sottolineato Manon Aubry – di rottura, cambiando così quei rapporti di forza nella politica italiana che inducono la sinistra moderata di Fratoianni e di Europa Verde a farsi autonoma dal PD quel tanto per fare una lista alleata però del “campo largo” lettiano.

Non è più pensabile di dialogare solo per fini elettorali. Se il dialogo deve e può esserci, questo dovrebbe addirittura prescindere dalle tempistiche del voto e fondarsi esclusivamente su comuni azioni nell’oggi per dare gambe ad una nuova stagione di un vero progressismo italiano. Una vera unione popolare ha bisogno di un popolo che la sostenga, riconoscendovisi, aspirando a diventare un nuovo soggetto politico di massa.

Altrimenti si rischia nuovamente di cascare nell’ennesimo errore di valutazione, in un assemblaggio un po’ opportunistico e vigliacco per meri fini elettoralistici. Forse non sembrerà a prima vista, ma una novità politica di questo genere a sinistra gioverebbe, in primis, alla democrazia, al ruolo del Parlamento, a decostruire un po’ quei progetti di presidenzialismo che Renzi prima e Draghi poi hanno coltivato e coltivano per rassicurare sempre meglio i mercati della fedeltà istituzionale italiana nei loro confronti.

Lavorare al progetto di “Unione popolare“, in questo modo, ha più che un senso. E’ l’unico senso possibile che noi possiamo dare alla nostra voglia, alla nostra passione politica e sociale.

MARCO SFERINI

10 luglio 2022

foto: screenshot

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