Perché non possiamo sciogliere Rifondazione Comunista

La segreteria nazionale del Partito Comunista d’Italia ha scritto una lettera aperta a Paolo Ferrero,  rivolta a tutte le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista per invitarci ad...

La segreteria nazionale del Partito Comunista d’Italia ha scritto una lettera aperta a Paolo Ferrero,  rivolta a tutte le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista per invitarci ad una riflessione sull’attuale fase politica e sociale e, conseguentemente, sull’utilità di una riunificazione delle comuniste e dei comunisti in un solo partito.
Ogni appello all’unità viene sempre vissuto come qualcosa di estremamente positivo e utile, ed indubbiamente anche quello in questione lo è per quanto riguarda il metodo: confrontarsi può essere utile ad entrambi o ai più soggetti che si vogliono parlare.
Confrontarsi significa mettersi sullo stesso piano del proprio interlocutore, rifuggire quella pratica veramente dannosa che è l’esclusivismo un po’ narcisistico di chi ritiene di essere l’unico portare di una qualche verità o di un comportamento che altri non possono assumere perché “inferiori” o lontani da una “purezza ideologica” o “pratica” che ricorda molto il rifiuto dei Cinquestelle nei primi tempi di discesa in campo di Grillo.
Poi anche i più pervicaci assertori del populismo a buon mercato devono fare i conti con la realtà dei fatti e con la macchina amministrativa locale o nazionale e, pertanto, devono confrontarsi e scendere dal piedistallo cui si erano dedicati.
Ma veniamo al contenuto della “lettera aperta” del PCdI rivolta a Rifondazione Comunista: si sostiene che esistono valori condivisi (anticapitalismo ovviamente, antifascismo, anti-imperialismo, pacifismo, ecologia, socialismo, tanto per citare le pietre angolari più importanti) e, pertanto, in un momento attuale come quello in cui le forze della sinistra sono divise e sempre meno visibili a causa del trasformismo di chi le vorrebbe e pretenderebbe di rappresentare (a cominciare dal PD di Renzi…), occorre ricostruire il soggetto “di classe”, il partito comunista.
E’ da questo punto che comincio a non essere d’accordo con le compagne e con i compagni che vogliono la “Costituente comunista”.
Un partito comunista, per come lo intendo io, esiste già in Italia dal 1991 e si chiama Rifondazione Comunista. Ha attraversato venticinque anni di tormenta, tra alti e bassi e, ora, si trova certamente in basso ma non è una comunità politica e sociale che si possa dire scomparsa. Dalle televisioni e dai mass media in generale, sicuramente. Ma non certo per volontà nostra.
Non si può nemmeno dire che questa comunità rappresenti l’avanguardia di chissà quale proletariato che vuole marciare per la rivoluzione e stravolgere il tanto celebre “stato di cose presente”.
E non lo si può dire perché non ne ha le forze e perché deve ritornare ad essere una forza che è venuta meno col passare non del tempo, bensì degli avvenimenti che ne hanno logorato la funzione primigenia che era contenuta in quelle due splendide parole: “rifondazione” e “comunista”.
Un sostantivo che voleva e vuole dire ancora oggi una riqualificazione della funzione sociale e politica dei comunisti in Italia. Un aggettivo che affermava senza nessun rimpianto quale era il carattere di quel progetto.
E la “rifondazione comunista” di oggi è, almeno nella proposta politica sia di medio che lungo termine, esattamente quella che fece nascere, appena un minuto dopo lo scioglimento del PCI, quel “Movimento” che sarebbe diventato il partito di milioni di compagne e compagni incapaci di gettare alle ortiche del moderatismo e della voglia di compromesso governativo il patrimonio culturale e politico del comunismo italiano.
La Rifondazione Comunista di oggi non può essere, se non altro per ragioni banalmente anagrafiche, la stessa che ha dato vita al “Movimento”, ma è la stessa sul piano dell’impostazione culturale che è, imprescindibilmente, rivendicazione politica conseguente.
Perché non è possibile accogliere il progetto della “Costituente comunista” che ci propongono i compagni del PCdI? Per un motivo purtroppo molto semplice (a volte le complicazioni sono meno visibili e quindi diventano secondarie e tralasciabili, mentre le evidenze non si possono scansare): non siamo comuniste e comunisti che vivono nel mito del Partito Comunista Italiano. Siamo (almeno io sono, ma penso lo siano anche molti altri), comunisti che guardano al PCI come a qualcosa di irripetibile tanto politicamente che socialmente. Perché il PCI era davvero quel “Paese nel Paese” di pasolinana memoria. Ma quell’esperienza è finita e non la si può rievocare nemmeno simbolicamente prendendo il contrassegno disegnato da Renato Guttuso e proponendolo come elemento unificante.
Non unificherebbe: chi, più anziano di me, ha vissuto le stagioni degli anni ’50, ’60 e ’70, probabilmente non vi si ritroverebbe se avesse un passato da lottacontinuista, da socialista di sinistra o da demoproletario.
Si sbaglia, quindi, nel riproporre una simbologia che richiama ad un solo fenomeno, seppur grande, del passato.
Ma tutto questo può essere secondario rispetto al tema fondamentale: la cultura politica, l’elaborazione di una critica sociale e la prospettiva.
Certamente corrisponde al vero affermare che tutte le comuniste e i comunisti sono anticapitalisti. Se non lo fossero, francamente, non capirei come potrebbero definirsi “comunisti”. Chi, infatti, abbandona il termine “comunista”, finisce poi con l’essere “genericamente di sinistra”, per fondare nuovi partiti che guardano al socialismo ma senza troppo pronunciare la parola “anticapitalismo”. Meglio definirsi “antiliberisti”, sapendo bene che il liberismo è un fenomeno tutto interno al capitalismo che lo genera e, quindi, si può provare ad essere riformisti facendo finta di rimanere radicalmente antisistemici.
I valori condivisi lo sono, però, fino a quando non si comincia ad interpretarli nella vita di tutti i giorni: come applicare le teorie e le idee che abbiamo? Come far rinascere una coscienza critica diffusa nelle moderne masse di sfruttati che non sanno di esserlo e che pensano di vivere in un mondo “naturale” e, quindi, riformabile solo sul piano dell'”onestà” e dell’aderenza ai “princìpi della legalità”?
Non può esistere partito, soprattutto comunista, senza la sua classe di riferimento. E non mi sembra che ci siano milioni di disoccupati, precari, studenti, pensionati e lavoratori che reclamano la nascita di un partito comunista come forza che li sostenga nella lotta per l’emancipazione sociale.
Per questo la proposta del PCdI è irricevibile, perché vuole costruire un nuovo partito comunista senza avere con sé la classe di riferimento: a che cosa serve un nuovo partito comunista se non esiste nemmeno un nuovo movimento degli sfruttati (definirli solo “lavoratori” sarebbe limitante per tutte le altre categorie che, pur essendo sfruttate dai padroni, non sono identificabili come salariati nel senso classico del termine).
Da venticinque anni a questa parte esiste Rifondazione Comunista che è un partito comunista. Rivoluzionario? Non in questo momento. Nemmeno negli scorsi anni. Forse potrà esserlo o forse no. Ma esiste e propone un comunismo che non guarda agli schemi del sovietismo, al marxismo-leninismo, a categorie inventate per distinzioni che ormai sono superate.
Noi non siamo in grado oggi di essere una avanguardia. Noi siamo in grado di metterci, da comunisti, a disposizione di tutti quegli sfruttati che non hanno una risposta da altri se non dalla disperazione che vivono. Non dobbiamo essere una succursale di una chiesa che apre dei confessionali, né offrire spalle su cui piangere. Noi dobbiamo provare ad essere comunisti, ancora una volta, proprio nel rientrare attraverso un percorso di condivisione dal basso, proprio tra i moderni proletari, in un meccanismo che muova la classe da classe “in sé” a “classe per sé”.
L’unità comunista non serve a niente se non si fa prima l’unità della classe degli sfruttati, di tutti coloro che vivono del loro lavoro, che abbiano o non abbiano letto Marx ed Engels.
L’unità comunista non è valore a prescindere come, del resto, nessuna unità lo è. Quando lo diventano, sono solo feticci, amuleti che servono ad esorcizzare le paure della consunzione.
Voler mantenere in vita Rifondazione Comunista non è presunzione, ma solo la consapevolezza che i progetti che sono veramente falliti sono tutti quelli nati dalle scissioni che ha subito. Rifondazione è conciata male, ma chi l’ha abbandonata e vuole oggi fare novelli PDS e novelli PCI sta molto, ma molto peggio.

MARCO SFERINI

28 febbraio 2016

foto di Marco Sferini

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