In Italia sono oggi punite la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, l’istigazione a compiere, o il compimento di, atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, o religiosi. Il progetto di legge contro l’omotransfobia aggiunge a questi reati quelli «fondati sul sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere»
Le quattro parole, tutte insieme e l’una dopo l’altra, rimandano ai capisaldi dei cosiddetti studi di genere: il sesso è solo biologia, il genere designa i ruoli che la società assegna a un sesso o all’altro, l’orientamento sessuale è l’attrazione verso l’altro sesso o il proprio e l’identità di genere è il ruolo in cui ciascuno si percepisce, anche rifiutando il «binarismo».
Sono definizioni dal sapore normativo, in quanto stabiliscono che le cose stiano così e non in altro modo, sempre e per tutti. In effetti gli studi di genere appartengono al campo delle scienze sociali, come la sociologia e la psicologia sociale, che furono dette «scienze nomotetiche», scienze di leggi; esse, come spiegava Pietro Rossi, vogliono «conoscere la struttura della società e le sue ‘leggi’». Perché? Per «rendere possibile l’intervento consapevole sul corso delle cose, rivolto a indirizzarlo verso determinati fini».
Sin dalle loro origini ottocentesche, queste scienze sono «uno strumento di trasformazione della società in vista di precisi obiettivi politici», ciò che corrisponde alla «loro finalizzazione a un’opera di ‘ingegneria sociale’».
Quando costruita in modo normativo, e secondo criteri ancora debitori di prospettive positiviste, la scienza sociale ha suscitato e suscita serie obiezioni. È perciò ingenuo, da parte, per esempio, del manuale «Il genere della Società Italiana per lo Studio delle Identità Sessuali», sancire che «il tipo di pensiero e di ragionamento che sottende gli attacchi contro gli studi di genere – è basato su una “tradizione intuitiva” (ovvero uno schema di ragionamento precritico e prescientifico)».
Già Horkheimer e Adorno rivolsero critiche durissime alla convinzione per cui tutto nell’umano è determinato dalla vita in società, e pertanto con gli strumenti della società (per esempio le leggi penali, o i modelli e le teorie) può essere indirizzato, modellato.
Che cosa resta, in un simile quadro, dell’idea stessa di libertà? A sua volta, il pensiero femminista italiano detto «del simbolico» ha sempre affermato che la differenza sessuale non è solo costrutto sociale né mero dato biologico: il sesso è una relazione, di distinzione e connessione, con sé e con gli altri; è terreno dell’interazione umana, in cui mettiamo in gioco tutte le nostre risorse anche spirituali e dove troviamo la forza simbolica di resistere ai dispositivi di dominio.
La nostra differenza sessuale ci fornisce l’immagine interiore per saperci capaci di differire a ogni livello dai modelli imposti, compresi quelli che derivano da concezioni teoriche deterministiche. Tra questi la femminista americana Carole Pateman annovera il genere, strumento del contratto sociale capitalistico, cui sono utili identità fungibili.
Ammettiamo pure che in campi numerosi i legislatori si facciano guidare da teorie e da modelli sociali normativi, che non sono neutri e non sono oggettivi. Il problema è se sia corretto farlo quando, come in questo caso, si tratta di esplicitare limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. Per identificare questi ultimi la bussola non può che essere la Costituzione.
Con i valori personalistici su cui questa si impernia non si accorda l’idea, suggerita dalle quattro parole per come il legislatore le mette oggi in fila, secondo cui esisterebbe un aspetto di noi, il sesso, «soltanto biologico», il che significa prettamente empirico, o inanimato. Né vi si accorda l’idea che la società sarebbe solo la fonte di eteronomi «ruoli sociali» (il genere) che si impongono alle persone, alle quali resterebbe la scelta tra essi (identità di genere), e non anche il frutto dei modi molteplici in cui, nella storia, gli esseri umani, nella loro autonomia, si sono rapportati e si rapportano gli uni con gli altri. Quando la Costituzione usa la parola «sesso» è certamente per riferirsi a un aspetto eminente della personalità e della socialità umana.
Il libero sviluppo della personalità e la pari dignità sociale delle sue manifestazioni, nel rispetto dei doveri costituzionali di solidarietà, è allora il vero valore costituzionale in gioco.
Penso, del resto, che sia questo che il legislatore ha in mente: riconoscere e proteggere la libertà e pari dignità di tutte le persone indipendentemente da come esprimono la loro personalità nel campo della sessualità e in specie nel caso, poiché si tratta di proteggere minoranze, delle persone omosessuali e transessuali. Basterebbe che lo dicesse con queste semplici parole, senza eccedere in definizioni, e il legislatore scoprirebbe di avere con sé un fortissimo accordo sia nei diversi schieramenti intellettuali e politici, sia nel sentire comune.
SILVIA NICCOLAI
Foto di Julie Rose da Pixabay