Agatha Christie sosteneva che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno una prova. Al punto in cui siamo, ci possiamo permettere di affermare che di prove dell’emergenza antisociale e antidemocratica, che prende la via di un nuovo consolidamento del consenso verso formazioni di estrema destra un po’ ovunque in Europa (ma anche nelle Americhe e nel vicino Medio Oriente), ne abbiamo purtroppo oltre la sufficienza.
Noi sappiamo che la crisi economica ha causato un disagio così esteso e vasto da trasformare ancora una volta la rabbia popolare non in rivendicazione di massa per una giustizia sociale che inferta la rotta delle politiche liberista, bensì in approvazione per soluzioni esclusiviste, verso l’individuazione di colpevoli che niente hanno a che fare con le vere ragioni del pauperismo esponenziale che si prende la scena del dramma mondiale.
La risposta dei governi alla crisi stratificata in tanti livelli paralleli e intersecantesi fra loro, è stata affidata ad un riposizionamento dei poli di interesse privato, delle grandi ricchezze da tutelare a discapito di miliardi di salariati e di sfruttati in tutto il mondo.
Se osserviamo, nello specifico, l’Italia e l’Europa, la facilità con cui le destre oggi di governo sono passati da un ruolo marginale di opposizione (nel caso del partito di Giorgia Meloni) a quello di forza trainante la nuova maggioranza conservatrice e reazionaria, dovrebbe essere il paradigma del pericolo che stiamo correndo.
Un pericolo di riaffermazione di una incultura di massa, sostenuta da ragioni tutt’altro che concrete, ma figlie di una contingenza che cresce nell’eterogenesi dei fini di una modernità cui tocca il ruolo di preservazione di uno status quo in cui prima di ogni altra cosa viene la stabilità dei grandi patrimoni, dell’alta finanza, delle centrali di preservazione del capitale.
L’Europa che si dispone in questo senso, esercita un ruolo di guardiano del privilegio e, al contempo, di mortificatrice dei bisogni sociali più elementari.
La disaffezione nei confronti della partecipazione all’atto politico, come luogo di espressione della volontà tanto singola quanto collettiva, è in questo caso la spia di emergenza che da tanti anni ormai si illumina ciclicamente, ad ogni tornata elettorale, facendo segnare un sempre minore livello di votanti e inducendo i commentatori a registrare il tutto alla voce dell’apatia anti-istituzionale, nella caduta tendenziale del saggio di fiducia dei cittadini nei confronti dei processi democratici, di repubbliche che, dal secondo dopoguerra in avanti, avrebbero dovuto essere invece il fiore all’occhiello della rinascita continentale.
Il capitalismo moderno, almeno dagli anni ’70 in poi, ha indotto la politica ad assumere i connotati perversi di un individualismo egocentrico e rampantista davvero esasperato; ha introdotto nella dialettica delle idee e delle ideologie elementi di distorsione tanto della percezione dell’utilità della complessità dei sistemi democratici, quanto della reale efficacia che essi avevano nella mutazione delle rivendicazioni dei diritti sociali in concrete soddisfazioni dei bisogni delle più ampie fasce della popolazione.
Il deperimento democratico, così, ha inevitabilmente riguardato ogni ambito della vita di una nazione: dall’adesione alle associazioni culturali e sindacali alla riconoscibilità dei propri interessi nelle lotte politiche dei partiti progressisti e della sinistra tanto moderata quanto di alternativa, radicale e anticapitalista.
Se il primo ciclo della resistibile ascesa delle destre berlusconiane poteva dirsi concluso con il cortocircuito tra interessi macroregionali tra nord e sud, tra Lega bossiana e nazionalalleati finiani, il secondo tempo di queste avventure malsane si ebbe nel momento in cui il centrosinistra non fu in grado di realizzare quel compromesso (anti)sociale tra capitale e lavoro.
Con tutti i doverosi distinguo del caso, ma pur sempre nell’ambito dell’Unione Europea (quindi letteralmente entro il circuito e il perimetro delle contraddizioni che dai vertici di Bruxelles e Francoforte si estendono ai Ventisette paesi che ne fanno parte), la rincorsa affannosa delle forze progressiste all’imitazione delle politiche precipuamente declinate in favore di un asse tra conservatorismo economico illiberale e reazione politica neonazionalista, autarchica per certi versi, altro non ha sortito come effetto se non quello di far somigliare sempre di più socialdemocratici, ecologisti, socialisti e laburisti a quell’avversario che avrebbero invece dovuto contrastare.
Il fallimento della “terza via” blairiana è in Gran Bretagna qualcosa di simile a quanto avvenuto in Italia con il veltronismo prima e il renzismo poi.
Nemmeno i governi tecnici sono riusciti nell’operazione di salvezza economica, di ripristino di quei diritti sociali che, invece, hanno ulteriormente calpestato, ridotto e ridimensionato sul terreno dell’impatto devastante di nuove ondate di crisi che, nello specifico, sono state fatte pagare tutte e soltanto alla classe lavoratrice, al mondo della precarietà con altra precarietà incedente, con altre parasubordinazioni, con uno spezzettamento della forza-lavoro che nemmeno con i livelli di fabbrica e le gabbie salariali si era mai raggiunto.
Conseguenza del trasformismo della sinistra moderata in un centrosinistra sempre meno alternativo al centrodestra, è stata anzitutto l’indistinguibilità tra le posizioni, la teorizzazione giocata con virulenza sul tavolo del rischio politico di una rassegnazione più che comprensibile e giustificata da parte di sempre maggiori masse di ipersfruttati, pieni di collera nei confronti di un potere incapace di rappresentare i bisogni sociali, soltanto capace invece di proteggere i più ricchi e privilegiati.
Paradossalmente, proprio questa narrazione, che individua i colpevoli in quanto tali, è il trampolino di lancio di una rabbia popolare che premia le forze politiche contrarie a qualunque ipotesi di redistribuzione della ricchezza, di tassazione dei profitti e degli extraprofitti in senso fortemente progressivo, di introduzione di nuovi meccanismi di tutela del lavoro e del non-lavoro.
La risposta di destra, infarcita di odio verso gli stranieri, di stigmatizzazione delle differenze, tutte nemiche dell’identità nazionale, tradotta in una specie di salvacondotto per accedere a servizi che dovrebbero invece avere un carattere universale, è risultata quella più facilmente comprensibile per una larga fetta di popolazione incapace di eviscerare i problemi fin dalle loro vere origini; capace soltanto di attingere alla superficie dei grandi temi del presente.
I rapporti di forza tra le classi tradiscono questi aspetti strutturali: l’incoscienza è, prima di tutto, espressione di una ignoranza molto diffusa che comprende tanto le ragioni dell’attuale stato di crisi globale, continentale e nazionale, quanto le dinamiche che riguardano la complessità delle relazioni che intercorrono tra l’economia e la politica, quest’ultima e la vita quotidiana dei cittadini.
La tempesta perfetta per la destra è proprio questa: utilizzare una insofferenza così grande, manipolabile con armi di distrazione di massa che hanno al centro il nemico del momento. E, guarda caso, si tratta sempre di una diversità, di qualcosa che viene capito molto poco: una volta perché pregiudizi storicamente atavici affondano ancora oggi nell’ancestralità delle incoscienze; un’altra volta perché, oltre al colore della pelle che non piace, alla lingua che non si capisce, ai costumi e alle culture con cui proprio non c’è confronto, si aggiungono le fobie antisociali.
La pura della diminuzione dei posti di lavoro già così scarsi, il timore della “sostituzione etnica“, della scomparsa dell’italiano bianco, cattolico, eterosessuale, maschio. Del prototipo tipico di quella “normalità” che viene sbandierata da sindaci dalla fisiognomica autoritaria, mascellarmente somiglianti al passato che non passa, muscolarmente protesi ad imporsi piuttosto che a proporsi.
Una volta che il danno è fatto, porvi rimedio vuol dire non tanto rimettere insieme i cocci, ma costruire ex novo un modello di società in cui anzitutto il rispetto civile derivi da quello sociale. Se la politica istituzionale non fa nulla per migliorare le condizioni dei più fragili, dei meno garantiti, dei più esposti alle tempeste del mercato dominante, è evidente che quel po’ di architrave di civiltà che era l’eredità del disastro dei totalitarismi va a schiantarsi contro la sicumera offerta dalle destre che teorizzano il benessere che deriva dal successo personale.
L’individualismo come cerniera saldante tra capitale e lavoro. Il capolavoro del liberismo che, tuttavia, non gode di ottima salute. Non fosse altro perché la rivolta della natura contro l’antropocentrismo capitalistico che tutto sfrutta e tutto consuma, è decisamente più forte di qualunque rivolta di classe. Si tratta di una constatazione amara, ma così è. Almeno fino ad oggi.
La pochezza culturale della destra non è più quella di sempre, perché un tempo era riconoscibile in mezzo ad una società in cui gli operai, i lavoratori leggevano, si informavano, aiutati da grandi organizzazioni di massa, da partiti che veramente li rappresentavano e ne facevano gli interessi (di classe). Oggi, qualunque supporto in questo senso è venuto a mancare e, quindi, si può desumere che una delle conquiste del liberismo nella sua affermazione come modello di innovazione capitalistica, è stata la destrutturazione progressiva del rapporto di partecipazione attiva alla vita sociale, culturale e politica del Paese.
La sinistra moderata vi ha messo del suo nel gareggiare con la destra nella contesa governista di una Italia in cui il privato ha dominato sempre di più e ha surclassato il bene comune, mortificando così l’impianto costituzionale che, infatti, è sempre più facilmente sotto attacco con l’accusa di essere desueto e anacronistico rispetto ai veri bisogni dell’economia moderna.
Tutto il resto, dai saluti romani allo sdoganamento di tutta una serie di parole, frasi, emblemi, icone e ciarpame del ventennio mussoliniano, è il contorno inquietante di una pietanza avariata, di un pasto del condannato a morte: per una democrazia che si incrina perché la si è lasciata per troppo tempo in balia delle correnti del mercato, del grande interesse finanziario, piuttosto che riportarla nel contesto del mondo del lavoro.
Le grandi manifestazioni antinaziste che si sono prodotte in questi giorni in Germania, contro l’ascesa pericolosa di Alternative für Deutschland (AfD), il partito che più tra tutti rivendica una saldatura tra il Reich imperiale (secondo o terzo a questo punto fa ben poca differenza per questi energumeni che propalano soltanto odio e disprezzo), sono la dimostrazione dell’alto tasso di emergenzialità che sta divorando l’intera Europa. La prima delle proposte del partito di Alice Weidel è, oggi, la “Dexit“: l’uscita della Germania dall’Unione Europea.
E’ evidente che se la Repubblica federale abbandonasse la UE, sarebbe la fine dei Ventisette, dell’idea stessa di federazione degli Stati che ne fanno parte. Anche solamente guardando una cartina del Vecchio continente, ci si può rendere conto di quello che significherebbe la vittoria di una posizione di tal fatta e, quindi, la prevalenza dell’AfD nel Bundestag, oltre che nei parlamenti regionali in cui è già singolarmente avanti tanto in termini di voti assoluti quanto di seggi.
Le guerre che stanno scoppiando un po’ ovunque sono la rappresentazione plastica del fallimento neoliberista, incapace di governare le crisi tanto globali quanto regionali. Ci siamo resi abbastanza conto che, tanto la guerra in Ucraina, quanto quella in Medio Oriente, per non parlare di quello che può capitare in Asia dove ogni giorno gli allarmi si susseguono, da Taiwan alla Corea, dall’Iran al Pakistan, sono espressione di una unica grande crisi mondiale del capitalismo.
Se la risposta a tutto questo sono le affermazioni presidenziali e politiche di Milei, Trump, Orbán, Meloni, Le Pen, Abascal, Netanyahu e Weidel, ciò significa che manca una alternativa tanto a livello locale quanto globale. Manca una saldatura tra i movimenti sociali e progressisti, manca una nuova Internazionale del mondo del lavoro, degli sfruttati, dei partiti socialisti e comunisti, dell’ambientalismo, del libertarismo.
Detta così sembrerebbe che si possa fare ben poco nel proprio contesto iper-provinciale di paese matrioskizzato dentro il piccolo grande calderone europeo. Ma in realtà, se iniziamo a mettere insieme le nostre debolezze, se partiamo dalle insufficienze che siamo e ci proponiamo di superarle cercando un minimo comune denominatore, tanto culturale quanto politico, tanto sociale quanto civile, allora abbiamo la possibilità di inserire nel Parlamento di Strasburgo una voce e una forza che conti nell’ambito della sinistra continentale.
In Italia che cosa possiamo fare? Aprire un tavolo di confronto che vada da Sinistra Italiana a Rifondazione Comunista, da Europa Verde a Potere al Popolo, mettendo insieme in una unica lista, insieme alla proposta di Santoro e La Valle, una linea chiara su pace, lavoro, ambiente, diritti umani, uguaglianza civile e sociale.
Esistono le convergenze possibili, anche se tendiamo sempre a vedere maggiormente ciò che ci separa da ciò che ci può unire, perché siamo indotti a preservare i nostri piccoli feudi di inutilità pratica, mentre ci appaghiamo delle identità culturali che rappresentiamo. Siccome possiamo convergere su un NO ad ogni invio di armi, ad ogni guerra, ad ogni razzismo, ad ogni fascismo, ad ogni tentativo di sovvertimento della democrazia nel nome del connubio tra legge e ordine, facciamolo.
Più forza avrà la sinistra europea e più ne avremo anche in Italia per costruire le basi di una nuova proposta progressista plurale: anticapitalista e antiliberista, socialista e comunista, ecologista e libertaria. Se manca la volontà, niente da dire. Ma se davvero c’è quella volontà che tanto tutti sbandierano per sembrare in buona, ottima fede, allora mettiamola in pratica. Sta scadendo il tempo. E una volta scaduto, sappiamo cosa attende l’Italia, cosa attende l’Europa.
MARCO SFERINI
23 gennaio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria