Per una rivoluzione pacifista nell’Europa dei guerrafondai

Praticamente ministro degli esteri di uno Stato che non esiste, Joseph Borrell, Alto commissario dell’Unione Europea agli affari esteri ha sostenuto, nella due giorni di riunioni con tutti i...

Praticamente ministro degli esteri di uno Stato che non esiste, Joseph Borrell, Alto commissario dell’Unione Europea agli affari esteri ha sostenuto, nella due giorni di riunioni con tutti i ministri preposti dei Ventisette e con i vertici dell’Alleanza atlantica, un piano di evoluzione della guerra in Ucraina, una dichiarazione di intenti che, ovviamente, alla Russia suona come un preallarme per una estensione del conflitto su scala davvero globale.

Siccome le truppe di Putin aprono il fronte di Kharkiv, conquistano città e villaggi intorno alla seconda città del paese, Stoltenberg e Borrell leggono in tutto questo una urgenza nel salto di qualità dal concedere armi europee e NATO a Kiev per rispondere entro i confini di guerra, al poterlo fare oltre le frontiere, in pieno territorio russo. Come se fino ad oggi tutto questo non sia avvenuto e i droni che portavano le bombe su Belgorod e su altre città della Federazione fossero made in Ucraina.

I rapporti ufficiali e le cronache di quel po’ di giornalismo indipendente che ancora riesce ad avvicinarsi alle linee del fronte dicono che le armi dell’Occidente sono state usate tanto al di qua quanto al di là del confine con la Russia. Ma un conto delle singole azioni mirate a depositi di carburante, a basi militari, come anche il far sorvolare il Cremlino da qualche marchingegno esplosivo, altro conto è impostare una vera e propria condotta di guerra.

Caso mai non fosse ancora chiaro, si tratta appunto del confronto bellico tra Russia e USA-NATO-Europa. Blocchi di imperialismi che, a vario titolo sostenuti da altre potenze (come la Cina nel caso della Russia), si confrontano nella nuova fase di definizione delle sfere di influenza mondiali. I termini stretti della questione tattico-strategica si fanno pressanti sul campo perché, contrariamente alle previsioni di Washington e Bruxelles, la tenuta dell’economia ad est ha superato la prova delle sanzioni e la macchina industriale bellica continua a produrre. Sostenuta, si intende, anche da Pechino.

Resta il fatto che i russi disinnescano la controffensiva ucraina, avanzano sul consolidato fronte del sud-est e aprono varchi e consolidano teste di ponte nel nord dell’oblast di Kharkiv. La preoccupazione maggiore di Stoltenberg è proprio questa: l’ammasso delle truppe putiniana in quella parte di confine che è vicino alla Bielorussia e in cui, se le difese di Kiev non dovessero reggere, la penetrazione moscovita sarà tale da far saltare una buona parte del fronte, saldando il tutto con i territori già occupati.

Dunque, per evitare che la Russia prenda il sopravvento, la NATO, dopo aver fatto pressioni sui governi nazionali europei per un aumento delle spese militari al 2% del proprio PIL, ora induce al rifornimento di armi a Kiev col consenso di utilizzare esplicitamente e senza più mezze sortite sul territorio della Federazione. La sottile linea ipocrita della “guerra per procura” si fa sempre più esile e indifendibile anche soltanto come punto di distinzione tra attacco indiretto e attacco diretto. Del resto, Emmanuel Macron non fa da tempo mistero di esigere dall’Unione Europea l’invio di truppe di terra.

Truppe che combatterebbero al fronte e, se così fosse, vorrebbe dire divise francesi, tedesche, italiane, polacche contro divise russe. Eserciti contro eserciti. Sostenere, a quel punto, che si tratti ancora di un aiuto militare a Volodymyr Zelens’kyj e niente più, dovrebbe risultare un esercizio di dialettica retorica veramente bizantina, infiorettata non si sa bene con quali barocchi saltinbancheggianti giri di parole per sfuggire alla realtà concreta dei fatti.

Tant’è, nonostante le minacce di apertura di una guerra oggettivamente mondiale fatte da Putin e Medvedev in risposta alle provocazioni (n)euro-atlantiche, Borrell, Stoltenberg e Macron paiono voler proseguire su questa strada. Dovrebbe essere lancinantemente evidente che è la via del disastro davvero globale, della sfida senza possibilità di vittoria di una delle parti, del punto di non ritorno da cui si passa per nuove connessioni con altri conflitti. Primo fra tutti quello dell’incendio di Gaza, della tragedia palestinese.

Parlare di pace e di trattative diplomatiche davvero è celebrare una distopia in cui si precipita vertiginosamente nel momento in cui non c’è una voce delle istituzioni europee che si levi forte per dire: ma siete tutti impazziti? Nonostante gli enormi interessi (imperialisti, capitalistici e finanziari) in ballo, siete davvero disposti a mandare l’Europa e il mondo nel tunnel di una guerra globale, di un conflitto che finirebbe col moltiplicare altri conflitti così come una scintilla in un pagliaio causa incendi in ogni dove, propagandosi indefinitamente?

Se Russia e NATO dovessero affrontarsi sul campo, che fine farebbe lo status quo precarissimo tra Cina e Taiwan? Che accadrebbe alle già esacerbatissime tensioni tra Iran e Israele? Che sarebbe del conflitto tra Turchia, Siria, Iraq e Kurdistan? Che ne sarebbe dei tanti focolai di guerre intestine che pullulano in Africa? Che succederebbe all’Europa che si troverebbe in mezzo a questo scenario apocalittico tra est, ovest e sud in fiamme?

È probabile che siano domande banalmente ingenue, visto che le decisioni sembrano prese: Biden, Stoltenberg e Macron sono per un riarmo a tutto tondo, per un rifornimento ancora più ingente a Kiev di supporti atti ad attaccare direttamente il territorio russo. Ognuno di loro nega di voler creare queste condizioni. Nelle dichiarazioni ufficiali il tono rimane quello dell’ipocrita narrazione che parla di sostegno agli ucraini nel nome della difesa delle frontiere “democratiche” del “libero” Occidente.

Nonostante le centinaia di miliardi di dollari ed euro spesi per rifornire l’Ucraina di armamenti leggeri e pesanti, per addestrarne l’esercito, per installare sul suo territorio basi operative della NATO a questi fini, Kiev sta perdendo la guerra e, con lei, l’Occidente. L’unico modo per vincerla è passare dall’ipocrisia del sostegno indiretto con la finta “guerra per procura“, al confronto diretto tra Stati Uniti d’America, Alleanza Atlantica ed Europa contro Mosca. In quel caso lì, gli eserciti dovrebbero scontrarsi e, molto probabilmente, i russi avrebbero la peggio.

Ma significherebbe la guerra mondiale. La terza per davvero. Non denunciata dalle parole del papa o da quelle dei pacifisti che la paventano da tempo, derisi e inascoltati in particolare da quelle forze progressiste che dovrebbero avere invece nel loro DNA l’antimilitarismo e il rifiuto dei conflitti secondo i termini della Costituzione repubblicana, ma concretizzata nell’orrore quotidiano di un confronto senza ombra di dubbio atomico, nucleare. Ministri e primi ministri si trincerano dietro il pragmatismo dell’adeguamento delle loro politiche alle risposte russe.

Ma se ad una possibile via del dialogo, vagheggiata da Mosca, si risponde con un netto rifiuto e con l’invio di nuove armi e, di più ancora, con l’ipotesi del loro utilizzo sul territorio russo, è evidente che il corto circuito è innescato e non si può fermare se non mettendo fine ai contendenti che lo producono e riproducono. E non da oggi. Perché, a partire dalla guerra del Donbass, di cui si è parlato e si parla ancora troppo poco come causa ufficialmente scatenante della successiva invasione russa del 2022, l’Europa ha rifornito l’Ucraina di armi fin dal 2014.

Fu la Lituania, prima tra i primi, a dichiarare di voler conferire «armamento letale agli ucraini sotto forma di aiuto gratuito e non come vendita». Così, mitragliatrici pesanti, mortai, fucili e tonnellate di munizionamento vennero date a Kiev per sostenere lo sforzo bellico contro i separatisti filo-russi negli oblast di Donetsk e Lugansk, per imporre un regime di negazione dell’identità culturale, sociale e civile russa come minoranza entro i confini della “democratica” Ucraina che si era proiettata nell’orbita occidentale e filo-euro-atlantica.

La complessità delle dinamiche dei conflitti armati affonda molto più di quello che si possa pensare nelle radici di una storia di contrapposizioni figlie della Guerra fredda e di contraddizioni che non sono mai state sanate, soprattutto da parte occidentale, ma anzi sono state esponenzializzate dopo la fine dell’unipolarismo e il timore, da parte degli Stati Uniti, di assistere anche in Europa ad un ritorno del giganteggiamento russo ai confini con l’Unione dei Ventisette. La crisi economica mondiale del 2008-2009 aveva preavvisato un rimescolamento delle carte anche in campo geostrategico e militare.

Ma che potesse avvenire su queste proporzioni e in tempi così piuttosto ravvicinati, era molto difficile da prevedere o anche soltanto da immaginare. Alla vigilia delle elezioni europee, i leaders delle istituzioni continentali fanno comunella con una NATO che ha preso in mano le redini della politica estera dell’Unione e la dirige di comune concerto con Biden. Il minimo che ci si può attendere è quella “escalation” delle posizioni reciproche che significa quindi aumento della conflittualità. Tra le cancellerie e al fronte.

Non sappiamo le cifre precise dei morti. Ma di certo in Ucraina sono morte decine di migliaia di civili. Le perdite al fronte, da entrambe le parti, potrebbero ammontare complessivamente ad oggi a centomila morti su mezzo milione di soldati impiegati. Ma sono cifre certamente imprecise, per difetto o per eccesso, visto che è molto difficile potersi fidare delle informazioni che giungono tanto da Kiev quanto da Mosca. Di sicuro, nelle battaglie per le conquiste di città come Adviika sono morti migliaia di ragazzi e uomini mandati al fronte senza una preparazione militare adeguata.

L’Europa di Borrell e Macron va dritta nel precipizio del disastro. Ci stanno spingendo ad un odio tra i popoli che è l’antitesi dei princìpi su cui era stata immaginata la riorganizzazione delle relazioni tra i paesi usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale e quelli usciti sconfitti. La rottura drastica dei rapporti tra Germania e Russia, in questo quadrante di osservazione della politica internazionale, è uno degli elementi più dilanianti per l’Unione, per una ricomposizione tra i paesi fondatori e i paesi che hanno aderito dopo la caduta del socialismo reale.

La ferita sanguina ancora ed è un rigolo che va dal Baltico fino al Mediterraneo. Non ha più il tracciato della Guerra fredda ma ne conserva tutte le caratteristiche intrinseche: sfere di influenza economiche, militari e geopolitiche che si fronteggiano a discapito dei diritti dei popoli di poter vivere in pace in un contesto comunque multipolare, fatto da una differente declinazione capitalistica da paese a paese, da continente a continente.

Caso mai le elezioni dell’8 e del 9 giugno dovessero avere un senso, questo altro non sarebbe se non la rimarginazione delle intercapedini, dei solchi che separano le civiltà, di cui dobbiamo parlare al plurale, perché non solo l’Occidente è depositario della modernità della conoscenza, della scienza, dei diritti sociali, civili e delle libertà che sono parte delle lotte di tanti movimenti e partiti che si battono per l’affermazione di concetti simili a quelli di “democrazia” e di “partecipazione“.

L’Europa che ci propongono Macron, Stoltenberg, Scholz e Borrell va superata con un altro tipo di continentalità delle esperienze nazionali, di solidarietà di classe tra tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori nell’ottica della creazione di una sinistra radicalmente anticapitalista e libertaria al tempo stesso. Per un sindacalismo che non scenda a patti con i governi e che blocchi le filiere produttive tanto quando si tratta di alzare l’asticella dei diritti sociali quanto quando il problema è la vivibilità della vita stessa.

Lavoro e ambiente devono potersi compenetrare e non essere delle variabili dipendenti dal capitale europeo e transcontinentale. In una visione di questa natura – nel vero senso ecologico della parola – la pace si impone come elemento scardinante e rivoluzionario in tempi in cui la guerra è la forma mentis tanto del nostro concorrenzializzare la quotidianità in cui siamo costretti e, in parte, ci costringiamo a vivere, se non nemici almeno avversari gli uni verso gli altri, quanto progetto di stabilizzazione delle crisi capitalistiche e liberiste globali.

La pace è rivoluzionaria ma rimane un enunciato se non facciamo niente per contraddire la vulgata comune, il benemerito pragmatismo di una politique politicienne che si erge a moralizzatrice degli utopismi dei pacifisti chiamati spregiativamente “pacifinti“. Noi siamo “paciveri“, perché il rifiuto delle armi per noi è senza se e senza ma quando le armi servono a far scannare i popoli e non ad aiutarli davvero a liberarsi.

Scampato il pericolo putiniano, dove credete che finiranno gli ucraini? Dove già erano finiti. Tra le comode braccia avvolgenti del mercato occidentale. Di una Unione Europea pronta a sfruttarne tutte le risorse nel nome delle buone relazioni commerciali e finanziarie con l’asse nord-atlantico. E dove finirebbero se vincesse Putin? Dall’altra parte della barricata, il che non significa che starebbero meglio.

La trappola è, alla fine, sempre e soltanto il sistema economico strutturale che alimenta tutta questa perversione devastante. Se la pace può essere il grimaldello per far sollevare l’orpello del pensiero unico in merito, facciamo leva sulla pace, non solo per mettere fine alle guerre, ma per eliminarne anzitutto le cause primordiali.

MARCO SFERINI

30 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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