Il taglio del cuneo fiscale, nonostante l’enfatica riunione del Consiglio dei Ministri il Primo maggio e i video di Giorgia Meloni a corredarlo di una spiegazione propagandistica, avrà come effetto pratico sulle basta paga delle lavoratrici e dei lavoratori di aumentarle di dieci, quindici euro. Domanda retorica: il governo crede così di anche soltanto attenuare in minimissima parte la enorme crisi sociale che vivono decine di milioni di persone in questo disgraziato Paese?
Non si fa che parlare di bonus, di benefit, di voucher, di piccoli incentivi che sono, per lo più una tantum e che, quindi, non danno corso ad una ristrutturazione organica delle tutele vere, di quei diritti che dovrebbero essere il primo argine di difesa del potere di acquisto di salari e pensioni, aumentantone la portata, diminunendone una erosione progressiva che li fa stare in coda alla classifica di quelli degli altri paesi europei.
Il problema sociale, nemmeno a dirlo, si lega ad una serie di tematiche che sono fondamentali per una redistribuzione delle risorse, per una considerazione delle stesse da un punto di vista non liberista, e quindi di pochi mega arricchiti, bensì da quello dei tanti che ogni giorno sulla loro pelle, nelle loro tasche subiscono gli effetti di una crisi globale che si riverbera in una quotidianità in cui la rabbia sale, le destre la cavalcano e la riproducono con la risposta razzista e xenofoba e il corto circuito che ne viene fuori è pressoché inarrestabile.
Le modalità con cui il governo si è posto nei confronti dei sindacati è, del resto, chiarificatore delle intenzioni che si invereranno nei documenti economici e finanziari che saranno a breve approvati e segneranno una ulteriore svolta involutiva nel rapporto tra politica, organizzazioni di difesa del lavoro, organizzazioni imprenditoriali e alta finanza europea.
La ministra Calderone si produce in dichiarazioni su una strutturalità del taglio del cuneo fiscale, nella ricerca delle condizioni che permettano di affliggere i magri salari italiani con sempre maggiori oneri.
Ma le condizioni affinché questo possa concretamente avvenire e, dando un significato coerente nella pratica ad una “struttura” che contempli una certa progressività, nonostante si sappia da tempo quali siano i veri intenti dell’esecutivo: l’appiattimento della tassazione, la riduzione delle aliquote di prelievo fiscale fatte in modo tale da privilegiare sempre e soltanto chi ha patrimoni che superano le centinaia di migliaia di euro.
Ogni presunta riforma del governo Meloni in tema di economia e fisco ha come risultato sempre e soltanto quello: creare le condizioni affinché a pagare veramente – rispetto alle proporzioni del reddito – siano i meno abbienti e a salvaguardare i capitali siano, ovviamente, coloro che quei capitali li possiedono e, magari, li hanno scudati già all’estero da molto tempo, eludendo il fisco del Bel Paese e magari facendo la ramanzina a tutti dagli schermi televisivi su ingorghi autostradali, sul turismo ostacolato, sui ristoranti che non producono come dovrebbero e via così…
La condizione complessiva in cui il lavoro sopravvive oggi è quella di una sempre più diffusa incertezza, di un arretramento dei diritti sociali, di un sindacato che, invece di lottare come in Francia, con una costanza e una continuità indefessa, promuove delle manifestazioni regionali, non unisce le vertenze in una condivisione critica di una disposizione politico-liberista che va all’attacco invece delle fondamenta di quello che rimane di uno stato sociale pressoché inesistente.
Non sono veramente mai bastati i comizi del Primo maggio per animare uno spirito untario, fortemente critico e radicalmente opposto alla visione sposata da un centrosinistra in attesa di vedere come si mettono le cose, quali ostacoli incontrerà il governo, a queli compromessi dovrà scendere. Ma vivaddio, se non sono il sindacato e le forze di opposizione a mettere delle contraddizioni sulla strada che intende percorrere l’esecutivo e, con lui, Confindustria e il padronato italiano, chi dovrebbe farlo?
La risposta potrebbe essere: dovrebbero farlo le lavoratrici e i lavoratori. Giusto. Ma la Storia ci insegna che, se non guidati da forze sindacali e politiche con un po’ di spirito rivoluzionario in corpo, oltre alla semplice proposizione del loro compito, della loro funzione determinata “nel” e “dal” sistema capitalstico, le masse difficilmente riescono ad autorganizzarsi senza dei corpi intermedi, senza una impostazione collettiva che sia in grado di dare una sintesi ai bisogni più con rivendicazioni che con proposte e richieste.
Oggi i sindacati vengono umiliati dal governo, convocati per ascoltare quello che Meloni e i suoi ministri hanno già deciso e che nemmeno mostrano con un testo scritto ai dirigenti nazionali di CGIL, CISL e UIL. Il decreto lavoro viene approvato da Palazzo Chigi sfregiando la giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori, ridotta ad una festa – pure importante – che si trasfonde in un concertone dove le ragioni degli sfruttati vengono lette dal palco, cantate con una certa enfasi, a volte mostrate con qualche provocazione che buchi lo schermo, che risuoni un po’ di più delle note delle stesse canzoni.
All’aggressività antioperaia e antilavorativa, antisindacale e ferocemente liberista del governo, bisognerebbe rispondere con una mobilitazione nazionale, con uno sciopero generale che non si limiti a coinvolgere il mondo del lavoro ma che, esattamente come in Francia, sconvolga le certezze di coloro che intendono procedere nel ridimensionamento dei diritti sociali e, al contempo, nella rivendicazione di sempre maggiori privilegi per le classi dominanti.
La cancellazione del Reddito di cittadinanza è un absurdum che viene considerato recuperabile dalle forze del centro e della sinistra moderata. La delusione, in questo senso, per il mancato fronte progressista che iniziasse, già dal voto di settembre, a difendere l’unica misura degna di nota nel panorama di una pur flebilissima tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, è oggettivamente paragonabile e inversamente proporzionale alla soddisfazione di Confindustria e dei partiti dell’arco conservatore e liberista (da Calenda e Renzi divisi fino a Fratelli d’Italia).
L’Assegno di inclusione, riservato a nuclei familiari con disabili, minori e ultrasessantenni, si riduce a cinquecento euro mensili più un contributo per l’affitto di duecetottanta euro sempre mensili. Diciotto mensilità di erogazione per richiedenti che abbiano un ISEE di almeno (sic!) 9.360 euro e un reddito familiare inferiore a seimila euro annui… Siamo praticamente sulla soglia della povertà assoluta, anche se l’ISTAT non la certifica come tale, ma riuscire a vivere con cinquecento euro al mese è praticamente impossibile per chiunque.
Siccome è la somma che fa il totale, sommiamo: interventi estemporanei e privi di un collegamento fra loro, di una sostanziale strutturazione, anche se rivendicata dal ministro come obiettivo del governo, più la cancellazione del Reddito di cittadinanza, più la assoluta ostilità nei confronti di un salario minimo orario a 10 euro (anche se sarebbe meglio rivendicarne quanto meno 12!), più la regionalizzazione esasperata delle tutele fondamentali per ogni cittadino (prima fra tutte la sanità sempre meno pubblica…), più l’assenza di un recupero dell’inflazione con un nuovo meccanismo di scala mobile adeguato ai tempi, più le morti per lavoro, per l’alternanza scuola-lavoro, ce n’è abbastanza per fare come in Francia.
Invece, il sindacato, le forze politiche moderate e anche una larga parte del mondo della cultura italiana si limitano a rimbrottare il governo, a denunciare lo sfruttamento becero nei confronti di giovanissimi e meno giovani. Guardano alle crisi delle industrie in sardegna, all’esempio della GKN come a momenti di lotta, ma non chiamano le lavoratrici e i lavoratori ad una saldatura di tutte queste disperazioni ed esasperazioni sociali.
Non si riesce a dare seguito ad un piano di espansione delle rivendicazioni. Ci si ferma a quello delle richieste. Un piano che, un tempo, si sarebbe detto senza troppi tentennamenti “riformismo“, se non addiritura “consociativismo” e che ogni tanto si lascia tentare dalla giaculatoria della mancanza di fondi per fare fronte alle richieste di un aumento dei salari, di un aumento delle pensioni e di investimenti maggiori nella scuola, nella sanità, nell’assistenza sociale ampia a variamente diffusa.
I soldi ci sarebbero. Anzi, ci sono. Basta andarli a prendere dove si trovano: nei fondi speculativi, nei conti correnti bancari dei ricchissimi, dei padroni, di coloro che ben prima della pandemia, poi con il suo arrivo e ora con la guerra fanno affari cinici e bari, lasciando nella miseria milioni e milioni di persone.
Non ci possiamo aspettare dal governo Meloni che faccia riforme strutturali progressiste.
Ma ci possiamo ancora attendere dal sindacato una inversione di rotta, una presa d’atto della drammaticità della crisi sociale, ambientale, tanto locale quanto continentale e globale e, inserendosi in questa tremenda contigenza dei tempi, dare il via ad una vera e propria opposizione di massa, continuativa, pressante, che costringa governo e Confindustria a fari i conti con un nuovo movimento popolare ben consapevole di lottare contro un nemico di classe.
MARCO SFERINI
2 maggio 2023
foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al popolo