Durante il biennio pandemico, quando la scienza è stata messa in discussione da una rumorosa minoranza di manifestanti che inneggiavano alle fantasie di complotto e ne facevano l’archetipo di una sorta di nuovo manifesto della regressione acritica nei confronti di un empirismo disconosciuto e condannato a priori, per qualche istante è parsa persino accettabile la dialettica con questa sorta di parterre variegatissimo, eterogeneo e privo di qualunque aderenza con dati e comprovati fatti.
La galassia degli antivaccinisti, che pure giustamente aveva posto la questione della mercificazione della salute pubblica, delle tante storture provocate dal capitalismo anche in campo medico e scientifico, aveva finito col scivolare sul crinale di una opposizione pregiudizievole, tipica di un revisionismo che somiglia molto ad una sorta di autodifesa psicologica contro la portata di eventi che, oggettivamente, erano e rimangono molto più grandi di noi.
Secondo i no-vax, eredi dei no-mask e antesignani dei no-green pass, nei vaccini erano contenute una serie di componenti altamente pericolosi per la salute di ciascuno: dai feti umani a quelli delle scimmie, dai microchip a sostanze capaci di magnetizzare i corpi con la tecnologia 5G e surriscaldare membra, cervello, cuore, fino a farci morire.
Un giorno qualcuno studierà attentamente la fragilità psichica di quel periodo che, a cominciare proprio dai primi giorni di irruenza pandemica nelle nostre già bistrattate esistenze, ci ha sconvolto letteralmente la vita: rinchiudendoci in casa per mesi, costringendoci a portare le mascherine chirurgiche prima e le FFP2 poi in ogni dove, evitando contatti personali, distanziandoci sempre e comunque, lavandoci le mani più del solito, assumendo quindi nuove categorie di interpretazione del reale.
Nel giro di pochissimi giorni, in quel principio di 2020, tutte le nostre abitudini vennero sovvertire e dovemmo adeguarci ad una esistenza realmente capovolta. Fu un trauma di cui ancora oggi è difficile comprenderne appieno la portata e, fu, a posteriori un mutamento di una percezione particolare e totale della società fino ad allora costruita, portata avanti a discapito della Natura, del pianeta, del rapporto con l’habitat in cui ogni giorno crediamo di vivere, mentre invece a fatica sopravviviamo.
L’interpretazione di quello che accadde alterò lo scambio vicendevole tra noi e il limitrofo geografico: gli spazi non erano più gli stessi, le misure nemmeno, le distanze e le vicinanze neppure. Ci siamo dovuti ripensare in quelle categorie di una analitica trascendendale che, secondo Kant, erano (sono) lo strumento proprio e particolare della nostra capacità di sentire il mondo nello spazio e nel tempo.
Siccome per il filosofo di Königsberg il pensiero è categorizzazione della realtà (ed anche di noi stessi), non è affatto improprio affermare che nel biennio pandemico siamo stati indotti, e poi anche costretti, a rivoluzionare il nostro apparato di acquisizione delle informazioni dal mondo e nel mondo. Verso noi e da noi verso gli altri.
Quella che un tempo sarebbe stata definita come la “leges mentis“, quindi l’insieme delle regole attraverso le quali essere in contatto con ogni aspetto della quotidianità e, dunque, del nostro più profondo relazionarci con l’esistenza, in quei due anni è stata riscritta da un velocissimo, repentino e per nulla fugace movimento naturale di un virus che abbiamo accusato di fuga da laboratori in cui si sperimentavano vaccini che la fantasia di complotto, nuova narrazione di un isterismo collettivo, vero e proprio evitamento dell’angoscia di un inconscio collettivo, ha trasformato in “sieri genici“.
Ciò cui abbiamo assistito nel corso del 2020 e del 2021 è, attraverso il metodo kantiano della categorizzazione quantitativa, qualitativa e relazionale, il capovolgimento dell’esperienza, la negazione dell’oggettività, il rovesciamento dell’evidente in nome della scoperta di un mondo parallelo, segreto, di una serie di “deep state” entro cui si tenevano tutte le combutte inconfessabili dai principali responsabili di un “nuovo ordine mondiale” guidato da pedo-satanisti, finanzieri con aguzzi denti luciferini o draculeschi.
In sostanza, per certi versi, si è trattato anche qui di una categorizzazione, però molto poco kantiana, quindi per nulla critica, per niente razionale e scientifica al tempo stesso.
I no-vax, essenzialmente, sono divenuti un movimento culturalmente disomogeneo, politicamente trasversale, sociologicamente ed eticamente riconducibile ad una condivisione di timori, paure e fobie che si sono autorigenerate mediante una ridda di false informazioni sulle quali è stata edificata una vera e proprio contronarrazione antiscientifica che a Kant avrebbe dato i brividi.
Non tanto per un discorso concernente la scientificità dei dati che, di volta in volta, venivano mostrati sull’evoluzione della malattia, sulla sua diffusione e sui metodi per poterla eradicare dal contesto globale.
Quanto, semmai, per il disprezzo nei confronti di quegli innegabili trascendentali che fanno parte della nostra essenza umana (e quindi animale) e ci ricordano che tutti noi accediamo alla conoscenza di quello che ci è intorno secondo categorie comuni, anche se non ne siamo consapevoli.
Persino il racconto fantasticamente complottista dei no-vax, dai QAnonisti americani ai tribuni popolari improvvisati nelle piazze di mezza Europa, è stato costretto ad utilizzare una appercezione che, per quanto violentata nella sua essenza duplice di consapevolezza e di coscienza unite in una simbiosi ancestrale, non ha potuto del tutto estraniarsi dall’oggettività del metodo sperimentale, dell’analisi di laboratorio, quindi dalla prova visibilmente materiale e tangibile di quello che medici e ricercatori andavano dimostrando.
Per quanto il capitalismo sia in grado di piegare la conoscenza, il sapere e la materialità delle cose alla sua logica governatrice degli interessi particolari di un minuscolo nucleo di iperricchissimi rispetto ai miliardi di esseri viventi che abitano il pianeta, non può eliminare le specificità essenziale di qualunque fenomeno. Semmai, può agire nel condizionarne il percorso della sua naturale collocazione dentro l’evoluzione della materia, sia naturale sia per intervento umano, ma non può, ad esempio, fare della scienza qualcosa di esattamente altro da sé stessa.
Nella pandemia si è venuta operando, certamente non volontariamente ma per effetto di una sorta di eterogenesi dei fini, una confusione tra “mente” e “ragione“, proprio nella definizione che ne dava Kant: la prima come sinonimo del nostro intelletto che riguarda l’approccio costante con l’esperienza, quindi del continuo confronto con quello con cui veniamo a contatto; la seconda come espressione di una analisi metafisica che prescinde dall’empirismo e che, pertanto, si relaziona al tutto attraverso categorie non solo esistenti ma anche da scoprire.
Dall’analitica trascendentale cui si faceva cenno, si passa ad una dialettica della trascendenza che, proprio in fenomeni come quello dell’instabilità emotiva congiunta alla necessità di placare paure, ansie e stati fobici (singoli e di massa), se inopportunamente declinata nella frenesia autorigenerante dei nostri velocissimi tempi di assimilazione delle (in)conoscenze, non può che portarci a confondere i piani e a mescolare ciò che di buono l’esperienza può regalarci con ciò che di crudelmente fantasioso (e di complottista) la ragione (kantianamente intesa) può indurci a ritenere.
Se esaminiamo a fondo le nostre sensazioni durante il primissimo periodo della pandemia, possiamo renderci conto un po’ tutte e tutti che abbiamo messo in atto dei meccanismi di difesa diversissimi da caso a caso.
C’è chi ha preso atto della tragicità del momento, del fatto che nei primi mesi non vi fosse alcun rimedio per la Covid19 e che, quindi, se si fosse rimasti infettati dal virus si sarebbe potuti morire soffocati sotto ad un casco in ospedale; e c’è chi, per sopportare questo terrore ha, giorno dopo giorno, alterato la realtà e dato vita ad una fantasia protettiva che, però, nel suo prodursi e riprodursi ha finito col divenire una gigantesca illusione e allucinazione collettiva.
Non si tratta qui di giudicare chi si sia comportato meglio, chi sia stato più virtuoso, meno avvolto dal timore, dalla paura, dall’angoscia.
Semmai si deve, a posteriori, operare una critica ragionata, sociale e politica, quindi culturale e antropologica al medesimo tempo, sulla fragilità emotiva, comprensibile, associata ad una fuga dalla realtà che non ha riguardato pochi, singoli casi, ma, al pari della causa (la pandemia incontrollabile) si è presa gioco di centinaia di migliaia, anzi di milioni di individui in qualunque parte del mondo.
Ciò che ci interessa analizzare qui è la scissione che si è oggettivamente prodotta per effetto di una diversa reazione davanti ad un pericolo comune. Vale per la pandemia, ma vale anche per le guerre, per le catastrofi ambientali, per ogni dramma che si riversa sulla nostra piccolezza disumana. Kant ci insegna che dall’esperienza non possiamo estraniarci, non possiamo fuggire. Siamo costretti a fare i conti con la minuscola capacità intellettiva dentro l’incomprensibilità non solo di tanti fenomeni inaspettati che riguardano il nostro pianeta, ma anzitutto con la vastità dell’Universo.
Proprio la parola “fenomeno“, che in queste righe è ricorsa più volte, per Kant significava “apparenza“, traduzione letterale dal greco antico “φαινόμενον” (phainómenon, ossia “mostrarsi“), ed è il solo modo di arrivare ad una parziale conoscenza delle cose, di quello che avviene, di quello che noi per primi contribuiamo a che avvenga. Fisica e scienza si contrappongono quindi ad una metafisica per la quale il Nostro si domanda se sia possibile, mentre dell’oggettività delle cose si domanda “come siano possibili“.
Col senno di poi si riempono le fosse, potremmo chiosare, parafrasando un vecchio adagio popolare. Ma, probabilmente, non sbagliamo poi tanto se pensiamo ad una pandemia vissuta troppo metafisicamente e poco scientificamente.
Non occorreva avere “fede” nella scienza, ma fiducia. Perché ciò che possiamo conoscere, sapere è – per dirla sempre con Kant – un costrutto composto da aposteriorismi, tutto ciò che è frutto dell’esperienza, del già vissuto, del già visto, del già sentito e del già pensato, e apriorismi: tutto quello che già era sedimentato in noi e che ha plasmato l’ulteriore, ultima esperienza dell’esperienza stessa.
Insomma, se avessimo dato retta al nostro “già vissuto” e avessimo presupposto meno, saremmo stati in grado di gestire le nostre paure (tantissime) rispetto alle nostre certezze (pochissime) in un tentativo di equilibrio. Un tentativo.
Non avremmo avuto la certezza di riuscire a generarci un campo di atarassia consolatrice e stabilizzante le emozioni rispetto alla drammaticità di quel momento. Siamo tutti preda di ipocondrie. Nei confronti delle malattie e nei confronti dell’angoscia di un’esistenza che, se vista attraverso le lenti della spietata realtà del fatti, è sempre meno sostenibile.
Per le nostre menti, per le nostre sensazioni, per la nostra vita giornaliera. Lì dove sedimentano tutte le ansie e dove si edificano i tanti pregiudizi che ci trasciniamo pesantemente dietro. Dimenticando Kant. E non solo…
MARCO SFERINI
22 ottobre 2023
foto: elaborazione propria