Quando sentiamo parlare di ecologia, di ambientalismo, di ecosistema, di equilibrio tra natura e umanità, molte volte i grandi assenti nelle frasi che si scrivono e nei discorsi che si fanno sono tutti quegli esseri viventi che dovrebbero poter coabitare questo pianeta con noi, gli animali umani.
Si tratta, infatti, degli animali non umani, di tutte quelle specie, differenti dalla nostra per evoluzione, a cui non viene riconosciuto da migliaia e migliaia di anni il diritto alla vita libera tanto quanto lo pretendiamo per noi stessi.
Poiché noi siamo, oggettivamente, la specie più evoluta sul piano razionale, quella sola che è capace di farsi domande e di indagare il mistero dell’esistenza compresa nel grande buio dell’universo, abbiamo pensato fosse giusto migliorare la nostra vita utilizzando le vite altrui, gli sforzi altrui, i corpi altrui.
Abbiamo messo davanti a tutto il nostro diritto alla felicità, alla prosperità e all’arricchimento sempre costante: dal singolo al collettivo, da una comunità ristretta a popoli interi. E da questi alle nazioni, che sono organismi socio-politici molto complessi.
E così, con uno spirito economico (nel senso più etimologicamente originario del termine greco “οἰκονομικός“, ossia “governo della casa“), abbiamo badato alla nostra sopravvivenza: per istinto dapprima e per piacere poi. Ci siamo accorti che gli animali non umani non erano in grado, nella maggior parte dei casi, di stare appresso alla nostra arguzia, ai nostri inganni, alle trappole che mettevamo loro sul terreno.
E ci siamo accorti, allo stesso modo, che potevamo sfruttarne la forza, la potenza fisica, la resistenza alla sopportazione di fatiche che sarebbero state quindi trasferite da noi sapiens ai cavalli, ai muli, ai tori e a qualunque altro essere vivente fosse in grado di avvantaggiarci nella lotta quotidiana per la vita e la sopravvivenza.
La fase economica dell’antropocentrismo nasce qualche tempo i primordi del primitivismo umano. Tuttavia è molto lontana nel tempo rispetto ad un oggi in cui il dominio dell’animale umano sugli altri animali si è fatto globale, totalizzante e totalitario.
Quando celebriamo la Giornata mondiale della Terra, oppure quando festeggiamo in altri modi l’impegno ecologico di ognuno di noi, anatemizzando contro chi inquina e lo fa per la mera ricerca di profitto, spesso scordiamo che il sistema capitalistico è sfruttamento di per sé e che, ad esempio, non esiste un lavoro che possa dirsi al di fuori di queste regole economiche.
E dimentichiamo che lo sfruttamento colpisce non solo noi stessi e i nostri simili, la nostra specie, ma tutti gli altri esseri viventi a cui assegniamo una patente di inferiorità solamente perché ci fa comodo averli al nostro servizio, disporne per alleviarci le fatiche e farne quello che vogliamo una volta che non ci servono più.
Oppure, siccome abbiamo ereditato il primitivismo come regola di vita quando non era più necessario sostenersi con l’ABC della sopravvivenza al tempo delle caverne, invece di rispettare tutti gli altri animali non umani e considerarli individui al nostro pari, con gli stessi diritti nostri di poter esistere senza diventare preda di nessun altro, li abbiamo trasformati in cibo, nella nostra dieta fondamentale, quella “onnivora“.
E per sorreggere questo architrave di simbiosi tra consuetudini, economia casalinga, collettiva e nazionale, allargatasi poi alle grandi reti commerciali del mondo antico e moderno, ci siamo detti e ripetuti la giaculatoria della naturalità delle cose, della logica del forte che prevale sul debole.
Una logica predatoria, richiamata anche da quell’insieme di contraddizioni paranoiche e megalomani che rispondeva al nome di Adolf Hitler: divenuto vegetariano nel mezzo del cammin della sua breve e devastante vita, il Führer era in realtà un teorizzatore del diritto del forte a dominare su tutti gli altri esseri viventi.
L’Olocausto ebraico, la morte per omicidio sistematico, crudele e brutale, di milioni e milioni di persone della sua stessa specie, rende ancora più ridicolo l’amore che il pittore fallito austriaco nutriva per gli animali non umani.
Se il razzismo è lo specismo tutto interno alla specie umana, l’antirazzismo è un antispecismo altrettanto tale. Dunque necessario per lottare contro le discriminazioni, le vessazioni e tutte le ingiustizie che vengono perpetrate dai nostri simili contro noi stessi, ma non risolve, purtroppo, il problema a monte, quello del rapporto tra umani e non umani.
Se si vuole rispettare davvero la natura, la terra in cui viviamo, il salto di qualità che si deve mettere in pratica anche – e soprattutto – politicamente è iniziare a considerare l’ecologia, l’ambientalismo e la tutela del patrimonio ecosistemico come una lotta che gli umani possono fare non solamente a nome e per conto proprio. Ma per tutti, proprio per tutti gli altri esseri viventi a cui abbiamo tolto tanto: a cominciare dalla libertà e dalla vita, squilibrando le dinamiche di Gaia e alterando ogni ambito di vita.
Deforestazione, depredazione dei mari, inquinamento dell’aria: non c’è un luogo fisico del nostro microcosmo in cui noi animali umani non abbiamo agito se non per interesse di specie, considerando il globo una proprietà privata, metafisicizzandoci e ponendoci astrattamente al di sopra di tutti gli altri animali.
Ma dopo migliaia di anni, adesso la natura chiede il conto a noi di un olocausto che fa centinaia di miliardi di vittime ogni anno per il piacere del palato, per ingrossare i capitali delle multinazionali della carne e dello sfruttamento di suolo e mari, e che è insostenibile, incompatibile con i ritmi evolutivi, con la preservazione della nostra esistenza sul pianeta.
Noi siamo la minaccia per tutte le altre specie viventi, per l’ambiente e, pur rendendocene conto, pur sapendo di essere la minaccia per noi stessi, non riusciamo a capovolgere questo sistema: perché le leggi che lo regolano sono spietate, perché chi ha un ruolo di classe non vuole abdicarvi, abbandonarlo e perché sarebbe molto ingenuo pensare di affidarsi ad un coscienzioso spontaneismo in merito.
Per iniziare a cambiare bisogna distruggere il capitalismo, e tuttavia non sarà sufficiente fare solo questo per riportare un equilibrio ecologico, una vita armoniosa sulla terra per tutti gli esseri viventi che la abitano. Se una specie avrà sempre il dominio sulle altre, non scompariranno mai i presupposti per un revanchismo del suprematismo dei forti sui deboli anche all’interno della nostra specie.
Razzismo, xenofobia, pregiudizi e sfruttamento possono essere archiviati come infamie della Storia disumana solo se si passerà da una economia umana ad una economia antispecista, che condanni il presunto diritto degli animali umani a regnare sugli altri animali e sulla natura e che intenda il nostro rapporto col resto del pianeta di reciproca dipendenza, di mutuo soccorso, di interazione e non più di sovrastamento e dominio indiscriminato.
Lo stridore tra queste considerazioni e l’esistenza che siamo costretti a vivere ogni giorno è già un buon punto di partenza per le coscienze: accorgersi del problema è, psicoanaliticamente parlando, fare il primo passo verso la guarigione che consiste nel considerare parametri più ampi della sola nostra specie che avrà anche il diritto di emanciparsi e liberarsi dalla dittatura del capitale in nome di quella del proletariato, ma se lo farà sempre a scapito del resto del mondo, potrà questa essere chiamata davvero “liberazione“?
Il socialismo specista forse non l’avevano considerato in molti. Adesso è bene farlo. Perché, pur essendo cresciuto esponenzialmente come animali umani in questi ultimi due secoli, rimaniamo comunque una minoranza. 7 miliardi e mezzo contro centinaia e centinaia di milardi di animali non umani: compresi quelli più bistrattati e non riconosciuti nemmeno come tali, a cominciare dai pesci, per passare alle forme di vita più piccole e microbiche.
I detrattori dell’antispecismo arguiscono con toni presuntuosi, tipici dell’umano che può dominare qualunque dubbio e ridurlo a miti consigli: «Ma allora voi volete difendere anche le zanzare e i moscerini! Non è possibile tutelare tutte le forme di vita!».
Dal punto di vista specista ovviamente no. Non è possibile tutelarle. E si vede ogni giorno. Ciò che noi antispecisti vogliamo è diffondere il messaggio di una uguaglianza che nei fatti c’è, ma che viene negata dagli umani per comodità tutte economiche e per privilegi a cui si è dato il titolo di “naturalità” senza che fossero tali.
Certo, se si vuole banalizzare il discorso si può tentare di farlo scadere a questo livello di banalità oltre ogni limite. Ma se si vuole affrontarlo con un po’ di criticismo dal sapore kantiano, con un rigore dialettico del tutto onesto, soprattutto a sinistra ci si renderà conto che iniziare a pensare diversamente da come si è sempre fatto non è tradire noi stessi e nemmeno la nostra storia.
E’ il contrario. E’ affrontare un nuovo gradino evoluzionista, un dare valore alla nostra intelligenza che merita di essere elevata disponendosi al servizio di tutti gli esseri viventi. Una ricchezza o è condivisa, soprattutto se appartiene a un così grande numero di individui, oppure è ciò che il capitalismo pretende che sia: esclusivismo, appropriazione indebita e privilegio.
Una lotta ecologista senza anticapitalismo è – come osservava acutamente un grande sindacalista brasiliano – mero giardinaggio. Ma una lotta anticapitalista senza l’antispecismo, senza la creazione di una “animalità nuova” (che comprenda quindi umani e non umani), è un egoismo mascherato da emancipazione. E’ un inganno da cui ci dobbiamo liberare, per liberarci veramente. Tutti, ma proprio tutti.
MARCO SFERINI
5 giugno 2022
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