Tra gli effetti della guerra di aggressione, l’esasperazione nevroticamente isterica del nazionalismo è tra i primi a farsi sentire.
Probabile che, al momento, il tasso di ipocondria dal nemico sia più alto – e con qualche obiettiva ragione! – da parte ucraina rispetto alla grande madre Russia, ma non c’è alcun dubbio che, se la guerra continuerà ad espandere i propri confini e coinvolgerà sempre maggiori territori, Stati e, in particolare, condizioni di vita quotidiane, il richiamo all’identità nazionale salirà nelle quotazioni di qualunque scommettitore.
La famosa “Z” russa e il “Trizyb” (“Tridente“) dell’Ucraina sono i simboli che si scontrano massmediaticamente: chi non ha visto un carro armato di Putin con pitturata sopra la nostra ultima lettera dell’alfabeto (mentre nel cirillico russo la zeta corrisponde praticamente ad un segno grafico simile al nostro numero (arabo) tre)?
Chi non ha scorto in televisione il presidente Zelens’kyj parlare, chiedere sempre più armi e avere come sfondo la bandiera nazionale sormontata nel campo blu, in alto a sinistra, dall’emblema usato anche dal partito fascista di Stepan Bandera?
Siccome non c’è telegiornale, spettacolo, varietà, programma di attualità che non parli, più che giustamente, della guerra in corso in Ucraina, un po’ tutte e tutti ci siamo assuefatti a queste simbologie ma forse abbiamo tralasciato di considerare che sono l’espressione, se ripetutamente ostentata, di un montante clima di avvicinamento dell’opinione pubblica a posizioni politiche estremamente identitarie, dove la contrapposizione è la cifra propagandistica su cui prendono corpo tutte le considerazioni più retoriche e banali sul conflitto.
Così, quando il nazionalismo è il costrutto del confronto, si finisce quasi sempre per passare direttamente allo scontro, perché le argomentazioni che tracciano dei confini ben delineati su ciò che è giusto e ciò che non lo è in riferimento alla tradizione, alla cultura e al territorio sacrale della “patria in armi“, sono esclusivismi che non relativizzano l’orgoglio ma ne fanno un caposaldo dell’identità personale e collettiva.
La bandiera, così come un simbolo che ci identifica in quanto popolo, diventa un feticcio pericolosissimo, una drappo cui aggrapparsi senza vedere altro se non i suoi colori. Non c’è spazio per le ragioni storiche di un conflitto, per l’albero genealogico dei corsi e ricorsi degli eventi nei decenni e nei secoli passati.
Se ne fa qualche cenno in pochi spazi di approfondimento dove miratamente si intende andare a fondo delle ragioni non solo militari e geopolitiche che portano alle guerre; dove l’indagine riguarda anche l’evoluzione economico-sociale non esclusivamente di un popolo ma badando a quella interconnessione globale che, nei millenni e ben prima della globalizzazione capitalistica novecentesca, è stata rappresentata dagli assi del mondo antico.
Il mercato, in fondo, è molto poco avvezzo al nazionalismo: la necessità, intrinseca nella sua natura economica, di doversi espandere ovunque, liquidamente, come un fluido che prende la forma di qualunque contenitore dove riesca a penetrare, non permette soprattutto oggi alle moderne classi dominanti di chiudersi in una ristretta visione locale tanto sul piano produttivo quanto su quello degli scambi commerciali.
Le transazioni finanziarie sono diventate, dall’inizio della fase liberista ad oggi (quindi a partire dall’ultimo trentennio del Novecento), davvero dei ponti tra i paesi: soprattutto tra i grandi agglomerati e poli del capitalismo che, per l’appunto, viene definito “transnazionale“. Pochissime sono state, oltre tutto, le guerre combattute dentro i confini di una nazione e che lì siano rimasti senza altri contatti con l’esterno.
Le implicazioni sono mutevoli e, per questo, imprevedibili anche nei confronti dei rapporti con un perimetro che va ben al di là del limitrofo.
Se non direttamente sul terreno di battaglia, come per ora sembra accadere in Ucraina, le guerre guerreggiate finiscono per tendere ad un coinvolgimento diretto e indiretto di altri Stati, dei governi che ne rappresentano gli interessi economici e dei popoli che finiscono per essere, costante nella storia del cammino umano, veramente le vittime sacrificali di interessi che non li riguardano direttamente, di lotte di potere che, alla fine, intendono sempre proteggere i privilegi di un determinato status quo.
La guerra tra Russia e Ucraina non si discosta da questo schema interpretativo della Storia. Noi trattiamo questi primi due mesi di conflitto come se fossimo innanzi ad un tempo già lunghissimo, perché abbiamo bisogno di sperare che la guerra finisca presto, anzi immediatamente. Ma sappiamo bene che, purtroppo, durerà a lungo quella guerreggiata, ancora più a lungo quella economica, mentre gli effetti di tutto ciò si spalmeranno su un tempo che abbraccerà più generazioni.
Il nazionalismo non è mai veramente buono. Non dovrebbe essere un valore da attribuire alla politica da fare nei confronti del proprio Paese, perché lo priva di un rapporto di equipollenza con gli altri Stati, con gli altri popoli. Eleva i propri valori a morale superiore, fa delle proprie leggi e tradizioni il modello culturale e sociale da seguire e tende a denigrare, stigmatizzare e persino irridere tutto ciò che alla nazione non appartiene e che è al di là dei suoi confini.
Molta parte dell’informazione, e certamente tutta la disinformazione prodotta da ambo le parti in causa, sta suggerendo una continuità tra difesa della presunta democrazia ucraina, riarmo delle nazioni e aumento quindi delle spese militari. Ecco che la saldatura tra nazionalismo e militarismo torna ad essere protagonista della tempesta perfetta della guerra.
Tutto si tiene e tutto torna, mentre gli affaristi si gustano fin da ora la prospettiva, nemmeno tanto a breve termine, di lautissimi profitti per le armi vendute, e quella un po’ più remota della ricostruzione di intere città, di un paese devastato, di un popolo disperso in mezza Europa.
C’è guadagno per tutti, tranne per chi muore sotto le bombe, i missili e negli assedi delle città. La funzione dell’ONU, che dovrebbe rappresentare un antidoto ai nazionalismi esasperati, è ridotta al lumicino, sfruttata dall’imperialismo americano da un lato e presa di mira da quello russo dall’altro. Nessuno crede, almeno al momento, ad una mediazione possibile da parte di Guterres: i margini minimi per intervento delle forze di interposizione, dei “caschi blu“, prevederebbero non solo un cessate il fuoco, ma una tregua vera e propria.
E nessuno ha intenzione di fermarsi veramente: per primo Putin che intende prendersi molto di più del Donbass e della Crimea. La situazione, giorno dopo giorno, gioca purtroppo a favore di un irrigidimento delle posizioni. Da parte ucraina, per consentire all’Occidente di dichiarare la sconfitta della Russia e il necessario passaggio di testimone del presidente, serve la ricacciata indietro delle truppe russe e la riconquista delle regioni attualmente occupate; da parte russa, per non perdere la faccia dopo l’ampollosa dichiarazione di inizio dell'”operazione militare speciale“, serve altrettanto, ma al contrario.
I tempi lunghi della guerra, dunque, permetteranno a tutti i nazionalismi di riorganizzarsi: compreso quello italiano. I sovranisti, l’estrema destra si dicono pronti a governare senza troppi ingombri centristi, con un fronte leghista depotenziato e un centrosinistra praticamente incapace di fare la differenza sia nei sondaggi ma, in particolare, nelle aree più in crisi del Paese.
La Francia sembra aver resistito al contraccolpo lepenista, ma le legislative di giugno ci diranno se è davvero così o se per l’Europa si prospettano tempi di rannuvolamento antidemocratico, nel nome delle piccole patrie e, comunque, della ipocrita difesa dei valori occidentali sotto la protezione armata della NATO, con alle spalle quello che un tempo – ma pure oggi – è definibile come il “gendarme americano“.
Il Primo maggio di quest’anno, più che mai, va dedicato ad una contronarrazione degli eventi in corso, dimostrando che solo la trattativa, la pace, il disarmo e l’internazionalismo sono la via d’uscita da una condizione di dipendenza dei popoli dagli interessi non soltanto dei grandi capitalisti che tengono in pugno miliardi di persone e centinaia di milioni di salariati e sfruttati, ma anche da quelli di un imperialismo dilagante che esaspera il ruolo del privato, che si lega ad una visione ultra-liberista dove non c’è spazio alcuno per l’interesse sociale, per la riconversione della ricchezza in beni comuni, in servizi pubblici.
Se un valore deve avere la festa dei lavoratori, questo deve esprimersi oggi nel trittico: anticapitalismo, pace, disarmo.
Buon Primo maggio a tutte e tutti…
MARCO SFERINI
30 aprile 2022
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