Nessuna ingegneria, in quanto fenomeno umano, è mai neutra, tanto meno, dunque, l’ingegneria istituzionale, la quale, al contrario, si pone come supremo fenomeno politico proprio in quanto sedicente elemento sovraordinatore al disopra delle parti,entro una riproposizione postmoderna di un organicismo dal retrogusto amaro dell’Ancien régime.
In questo senso, la decostruzione dei linguaggi e delle retoriche con cui essa si autorappresenta, storicizzandone le forme nell’immanenza dei rapporti sociali di cui essi sono parte, si pone come imprescindibile punto di partenza per una sua critica.
Orbene, stando così le cose, l’opposizione alla controriforma costituzionale deve, a mio parere, cogliere la sfida delle argomentazioni retoriche che i suoi cantori utilizzano sino a trasformarle in veri e propri mantra mai messi in discussione. “Tagliare le poltrone”, “Tagliare i costi della politica”, dicono costoro, in ossequio (questo non lo dicono, però) ai dettami dei “mercati” (nuove entità politeiste che vanno per la maggiore nella postmodernità) che richiedono “velocità”, “incisività”, “pragmatismo” e via di mantra.
Tale insistere, rozzo ed efficace proprio in quanto tale, data la rozzezza di un’opinione pubblica regredita al preopolitico a seguito di trent’anni di guerra mediatica ad altissima intensità, si pone totalmente – sino a soggiacerne dialetticamente- all’interno del pensiero “TINA”, (“There is not alternative”), stadio regredito e distopico della “fine della storia” di fine secolo scorso,secondo il quale oggi la democrazia partecipativa e cosciente, cardine dei sistemi repubblicani redistributivi nati a seguito della vittoria sul nazifascismo e del compromesso fra capitale e lavoro dei “Trenta gloriosi”, è stata superata da una “governance” (non a caso i vocaboli della neolingua sono tutti di origine anglosassone, a proposito di non neutralità dei fenomeni umani) che richiede passività di massa, tanto che la democrazia, anche nella sua versione “borghese”, viene ridotta semplicemente ad un “isegoria”, peraltro sempre più compromessa dalla costante manipolazione dell’opinione pubblica.
Stando così le cose, dobbiamo dire forte e chiaro che noi siamo per il no esattamente per le ragioni che il sì ritiene così acriticamente fondamentali: siamo per il No perché NON vogliamo tagliare i costi e i tempi della politica, la quale, al contrario, per essere autenticamente democratica e repubblicana, richiede tempo e denaro, i due elementi che l’impianto ideologico degli estensori della riforma intendono “devolvere” ai mercati, di fronte ai quali, come buchi neri, deve flettersi anche la curva dello spazio-tempo.
La decostruzione di tali mantra, dunque, denuda ciò che la retorica aveva rivestito di cenci da “mainstream”: la naturalizzazione delle diseguaglianze, ossia il più grande regresso politico-culturale degli ultimi cinquant’anni, uno dei tanti frutti avvelenati della finanziarizzazione dell’economia come tratto storicamente prevalente.
Velocizzare la politica (velocizzare, poi, in base a quale modello di velocità e lentezza? Non è dato saperlo), privilegiare il Governo (peraltro svuotato in quanto satrapo del Gran re capitalistico) a scapito del Parlamento, formare una burocrazia di nominati i quali, proprio in quanto nominati, si autopongono come portavoce del Principe, togliere fondi al pubblico, demandando al privato ogni ruolo economico e ora anche politico (un Senato di nominati – chiedo scusa per la ripetizione – è la migliore trasposizione istituzionale – sovrastruttura in senso marxiano- dei processi di privatizzazione dell’economia), rendere più “snelle” le strutture statali ( da cui si deduce che esse erano ritenute sovrappeso, ovviamente senza che si dia un’unità di misura precisa), equivale, dunque, rispondere a quei desiderata delle classi dominanti che, lungi dal porsi, come vuole certo complottismo dal quale, purtroppo, non è immune anche certa sinistra giustizialista, come un’accozzaglia di oscuri individui complottanti, si configurano tranquilamente alla luce del sole esattamente per ciò che sono: fondi d’investimento, multinazionali, grandi industrie nazionali, medie imprese e giù a scendere, le quali, entro un quadro di economia globalizzata venutosi a determinare a seguito delle innovazioni tecnologiche (per parafrasare Lenin, se ieri il socialismo era “il soviet più l’elettrificazione”, oggi il capitalismo è l’aereo più internet) di fine Novecento, puntano all’appropriazione dei beni comuni come “nuova frontiera” di un processo di valorizzazione delle merci finalizzato da un lato all’antica forma di proprietà privata dei mezzi di produzione,dall’altro alla produzione di denaro da reinvestire in altro denaro, nell’infinita spirale di una finanza che oggi produce un PIL dieci volte superiore a quello dell’economia reale.
Dire dunque NO oggi, in un Paese periferico delle Potenze industriali al tempo della globalizzazione e della finanziarizzazione, non salverà certo il mondo, ma contribuirà a buttare qualche sano granellino di sabbia repubblicana entro una macchina capitalistica che di giorno in giorno si fa sempre più totalizzante, e dunque potenzialmente sempre più totalitaria.
ENNIO CIRNIGLIARO
redazionale
5 novembre 2016
foto tratta da Pixabay