Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura di Colette Guillaumin (pp. 254, euro 22), esce in una nuova edizione italiana – sempre per Ombre Corte – a quattro anni di distanza dalla prima, con una sapiente prefazione a sei mani a cura di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz.
La raccolta di saggi pubblicati tra il 1977 e il 1992, uscita in Francia nel 2016 presso iXe, aveva già contribuito a diffondere la conoscenza del femminismo materialista francofono aggiungendo un tassello al composito paradigma in cui annoverare Christine Delphy, Monique Wittig ma anche Paola Tabet, Nicole-Claude Mathieu, Emmanuèle de Lasseps e Monique Plaza. È infatti nella relazione dialogica tra queste femministe e attorno alla rivista Questions féministes che si colloca l’esordio della produzione di Colette Guillaumin.
Sociologa al CNRS, militante antirazzista e femminista, Colette Guillaumin (1934-2017) è stata infatti tra le componenti del collettivo della rivista, fondata nel 1977, che ha avuto Simone De Beauvoir come direttrice di pubblicazione. Tuttavia il suo posizionamento risale già al periodo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi del Settanta, quando – esattamente nel 1972 – pubblicava la sua tesi di dottorato intitolandola L’idéologie raciste. Genèse et language actuel.
Il testo metteva in discussione, anzi smentiva, uno degli assunti che per il pensiero comune sembravano a quell’epoca così incontrovertibili e che costituivano per Guillaumin uno dei fondamenti di principio alla categoria stessa di razza: quello per cui la razza fosse un dato «naturale» e da considerarsi come ordine fuori dal contesto storico – e necessariamente anche di quello ideologico, politico e socio-economico – volto a invisibilizzare i rapporti di dominio.
Capiamoci. L’idea di razza, questa nozione, è una macchina di morte, uno strumento tecnico di morte. E la sua efficacia è dimostrata. È un modo per razionalizzare e organizzare la violenza omicida e il dominio di gruppi sociali potenti su altri gruppi sociali ridotti all’impotenza.
A meno che non si arrivi a sostenere che, poiché la razza non esiste, nessuno è stato forzato o è stato ucciso a causa della sua razza. E nessuno può dirlo perché, a causa sua, milioni di esseri umani sono morti, e altri milioni di esseri umani sono dominati, esclusi e forzati.
L’aggettivo materialista, di base marxiana, associato a femminismo, fu associato da Christine Delphy a significare, come si legge nella parte di prefazione curata da Sara Garbagnoli, «una teoria della storia dei modi di produzione secondo la quale i gruppi sociali che li caratterizzano sono creati dagli specifici rapporti sociali che definiscono tali modi di produzione». Per Guillaumin ad esempio in Europa i valori égalitaires dell’Illuminismo, tra il XVIII e il XIX secolo, non sono riusciti ad invertire le tendenze – né in termini di sfruttamento industriale della forza lavoro, né il quelli abusivi dello schiavismo.
Colette Guillaumin legge la stessa differenza tra uomo e donna in conformità a una costruzione sociale funzionale al mantenimento dell’ordine secondo delle classi di sesso.
Introducendo un neologismo, sexage-sessaggio, che rimanda a servage ma anche a esclavage, la sociologa francese spiega la portata e il carattere del rapporto asimmetrico e di sfruttamento e appropriazione privata agito dagli uomini (a livello individuale e collettivo) nei confronti delle donne – nei confronti della loro psiche, del loro corpo, della loro sessualità, del loro tempo; e della loro forza-lavoro, da intendersi in quanto dominazione dell’individuo, anzi reificazione a mera forza-lavoro.
Il sessaggio riguarderebbe per Guillaumin i rapporti di classe e di sesso nell’economia domestica moderna.
Infatti, come per l’ingiunzione di maternità, lo stesso vale per i servizi alla persona dovuti dalle donne a soggetti maschi, ai bambini, ai malati, ai disabili. E quando parliamo di servizi alla persona dovuti, questo significa eseguiti – e da eseguire – senza una contropartita salariale, sia nell’istituzione coniugale, sia nell’istituzione religiosa (e in questi casi contro il mero «mantenimento» della donna) sia nell’istituzione familiare in senso ampio.
Al posto di un salario queste mansioni vengono troppo spesso adornate con l’onorabilità del «dovere», dell’«abnegazione» o del sentimento religioso.
FRANCESCA MAFFIOLI
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