Per superare una concezione e una pratica del potere per il potere

Probabilmente esiste qualcosa di ancora peggiore, ma la foga di chi ha il potere e lo utilizza per colpire gli avversari, le opposizioni, le minoranze è di certo già...

Probabilmente esiste qualcosa di ancora peggiore, ma la foga di chi ha il potere e lo utilizza per colpire gli avversari, le opposizioni, le minoranze è di certo già un buon livello di intolleranza dimostrata nei confronti di una democrazia repubblicana che dovrebbe, almeno stando alle parole di quasi tutti gli esponenti dell’estrema destra di governo, essere non più oggetto di disputa ideologica, bensì elemento fondante della nuova stagione del conservatorismo populista e neonazionalista.

Ma le pulsioni emotive, primordiali dinamiche interiori della nostra essenza tante volte disumana, ci inducono ad una interpretazione costante, continua tanto dell’ethos esistenziale quanto di quello, se vogliamo più ristretto perché parte stessa della vita vissuta, del mondo politico, microbicamente miserrimo in tante sue odierne declinazioni di svolta sempre più a destra del panorama antisociale, incivile e immorale dell’Italia del 2025.

Tutto questo discorsetto mira ad essere il corollario claudicante, incerto tanto quanto lo sono gli eventi, bislaccamente uguale alla narrazione ufficiale che si discosta da quella propriamente governativa, tutta d’un pezzo e irreprensibilmente devota all’onor di Patria, Dio e Famiglia, sul caso riguardante Cospito, il PD, Delmastro e Donzelli. Il telegiornale di RaiNews 24 con gran foga titola sull’assoluzione, anticipando di qualche ora la sentenza di primo grado di colpevolezza ad otto mesi per il sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, e qui si ha un po’ la dismisura dell’ossequio nei confronti del potere.

Vanno bene i trionfalismi, ci siamo abituati. Sono una consorteria che si impalma al potere, che si produce in una innumerevole condiscendenza di parole, di opere, di genuflessioni televisive, radiofoniche, internettiane. Ma la paranormalità è davvero tanto, forse troppo. Soprattutto se poi si toppa alla grande e il trucco è dismisuratamente evidente: far conto che la giustizia sia condizionabile a tal punto dal potere esecutivo da dare per scontate le sentenze. Se non altro abbiamo ricavato da questa esperienza una pseudo-para-certezza: non tutto è ancora perduto.

Perché nel momento in cui i titoli cubitali di RaiNews 24 vengono smentiti dalla lettura del dispositivo giudiziario, ti assale ancora un brivido di costituzionalità delle istituzioni: forse c’è speranza, perché l’uniformità, nonostante le apparenze, non è così totalizzante. C’è chi si comporta secondo la Legge, secondo le norme, secondo l’etica del proprio ruolo e il ruolo dell’etica stessa e fa il suo dovere prescindendo dai governi, dai colori che passano entro le stanze di Palazzo Chigi, dalle maggioranze parlamentari a discapito di un piglio autoritario che qualcuno carezza e vellica con sottile, infingardo piacere.

La reazione del governo non si fa attendere: Giorgia Meloni esprime sconcerto, bolla la sentenza come “politica” e, siccome se ne rende perfettamente conto, attacca ancora una volta consapevolmente la magistratura. Diranno che non è così, che si tratta della stigmatizzazione di un solo collegio giudicante. Ma – avrebbe sentenziato Totò – è la somma che fa il totale! E perdiana e perbacco. Saremo anche di sinistra ma non siamo così ingenui nel nostro essere lontani da una afferenza pressoché complessiva, globale e quasi endemica con il potere.

Chi indossava i vestiti da nazista, mettendo al braccio la svastica, fingendo una attitudine tutta carnascialesca, manda baci, solidarietà al sottosegretario: naturalmente, se la magistratura assolve un ministro dall’accusa di sequestro di persona, nonostante i migranti in alto mare siano rimasti per giorni e giorni, è buona e cara; se condanna è vilmente anti-italiana perché antigovernativa. Proprio in questa identificazione dell’esecutivo col potere a tutto tondo sta la deformazione pericolosa della situazione politica attuale: il melonismo non è governo del Paese ma controllo sull’Italia.

Senza dubbio, ogni maggioranza prova, del tutto legittimamente, a dare alla nazione quell’impronta caratteriale che ritiene più giusta per lo sviluppo di tutti e di ciascuno: questo è del tutto legittimo, perché è prima di ogni altra cosa il dettame inscritto nella Carta del 1948. Articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Ma un conto è amministrare, un contro provare a spadroneggiare. Atavica malattia del potere fine a sé stesso, alla propria perpetuzione nel nome di interessi tutt’altro che pubblici.

Ma, se stiamo ai fatti, in tre anni di governo meloniano la retrocessione dei diritti è andata tutta a vantaggio dei privilegi di pochi e di una vera e propria familistica e amicale concezione dell’occupazione dei posti di potere. Non si è nemmeno provato a salvare le apparenze: per esempio domandando ai propri ministri di evitare ripetutamente gaffes nel migliore dei casi, di vere, proprie, volute invasioni di campo nelle prerogative delle opposizioni, degli organi di controllo sulla maggioranza, degli altri poteri dello Stato.

In questo senso il tasso di ammaloramento della nostra democrazia è davvero preoccupante: soprattutto se si considera che questo sdoganamento di lascive prepotenze diventa una specie di costume nazional-popolare, di altra etica tanto della politica quanto della tenuta di una società che, proprio come nei primi decenni del Novecento, viene indotta ad andare incontro alle ispirazioni governative, a ciò che l’esecutivo si attende dalle amministrazioni locali, dagli uffici che gli dipendono e, non di meno, dai singoli cittadini. Vale non la bussola costituzionale, ma quella che orienta Palazzo Chigi a seconda del momento.

Non aiuta, indubbiamente, una soggettivizzazione della politica nel suo complesso che prescinde da una vera e propria nuova interpretazione ideale della realtà: mancano quindi degli obiettivi di lungo termine che, nemmeno lontanamente, sono sintetizzabili nelle pseudo-riforme di una destra avvinghiata attorno ad un progetto opportunistico che punta a rappresentare gli interessi della moderna impresa a scapito di quelli del lavoro. Prova ne è l’attacco costante ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori per cui non è stato fatto un solo atto di aumento della capacità di risparmio mediante politiche di sostegno sociale.

Si è tolto qualunque minimo comune denominatore che mettesse insieme espansione salariale, tassazione dei profitti (e degli extraprofitti!) con una rimodulazione del rapporto tra lavoro e ambiente. Questo governo ha fatto dell’economia di guerra la cifra costante del suo muoversi in una Europa di cui ha condiviso senza alcuna critica l’impostazione iperbellicista, ultra-atlantica e neoimperialista occidentale. Tanto più oggi che il trumpismo diventa il centro di antigravità impermanente di una riscrittura dei patti internazionali, delle relazioni tra i poli del neoliberismo, Meloni e soci tengono aperte diverse strade.

La guerra in Ucraina non è più quella fatta in nome della civiltà democratica; ci si dimentica anche della perenne, inflazionatissima invocazione della “pace giusta“. Si tace, si fa melina, cercando di trattenere per per sé stessi una palla che continuamente sfugge di mano perché il gioco è molto più complicato di quello che si possa immaginare o anche solo tentare di raccontare al popolo la cui sovranità è sempre meno riconosciuta e sempre più concessa… Qui sta il punto dirimente del rapporto, poi, tra melonismo e corpi intermedi.

I sindacati, a parte la CISL, sono vissuti come un impiccio fastidioso. Se ne rispetta formalmente il ruolo, ma sono collocati nel girone dei tollerati e niente più. La primavera referendaria che si sta preparando può essere il vero luogo nuovo di una rinascita dell’opposizione diffusa, di massa, interdipendente tra comitati, partiti, associazioni, sindacati stessi e categorie che sono troppo spesso escluse dal dibattito sociale, politico e culturale di questo nostro Paese. Quei cinque quesiti sui diritti di chi lavora ed è sfruttato, così come sul diritto alla cittadinanza, sono oggi il miglior programma della sinistra di opposizione.

Se non sono vissuti così dai partiti comunisti, socialisti, libertari ed ecologisti e genericamente di sinistra, dovrebbero quanto prima esserlo. Lo stato comatoso della nostra democrazia repubblicana esige uno sforzo in questa direzione: non c’è migliore tattica al momento se non quella di logorare il governo non nella sua azione di normale amministrazione, ma in quella di sovvertimento degli equilibri costituzionali, del rapporto tra i poteri, dell’utilizzo del potere stesso per espandere il proprio a discapito dei diritti di tutti gli altri che non lo hanno.

Possiamo accettare di essere governati, non comandati. Nel rivendicare i diritti sociali e civili, la sinistra di alternativa, così come quella più moderata, non può non rimettere in discussione sé stessa: a partire dalla compenetrabilità tra economia sociale diritti egualmente tali. Per questo è quanto meno curioso che ci si spenda per la fine di certe diseguaglianze imposte per legge con il Jobs act e poi si sia restii a partecipare localmente ai comitati promossi dalla CGIL per i referendum sul lavoro. Caso mai non fosse chiaro, il tempo per decidere da che parte stare è scaduto. E non da oggi. Da molto.

Rinviare ancora la decisione di costituire un ampio fronte progressista che rivendichi libertà, democrazia e giustizia sociale è davvero incomprensibile, è un autolesionismo che si riverbera pesantemente sulle spalle e le tasche di chi sopravvive quotidianamente a dispetto dei tanti bei proclami sull’unità, la condivisione, l’emancipazione nella modernità di una globalizzazione che invece ci percuote e schiaccia sempre più. Va rimesso in moto un processo di ripresa della critica ragionata, non dell’anatema per l’anatema.

Va quindi riconsiderata una partecipazione davvero di massa. Ed a questo compito non può sottrarsi una sinistra si pensi, che sia per l’appunto diffusa e non rinchiusa nelle proprie piccole stanze del calcolo meramente politicista e istituzionalista.

MARCO SFERINI

21 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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