Ciò che ci può unire non è mai sufficiente. Perché, obiettivamente, ciò che ci divide non è di poco conto: si tratta dell’appoggio o meno alle politiche liberiste, ad una economia di guerra che non può avere sfumature, che non può essere temperata, edulcorata, attenuata da compromessi su un medio termine per ottenere degli effetti su un termine più lungo. Ma ciò che ci può consentire di formare una grande alleanza democratica e popolare per la salvezza della Repubblica dal tentativo di torsione neoautoritaria del governo Meloni, deve poter poggiare almeno sui princìpi costituzionali.
Quando ci domandiamo cosa è necessario per poter mettere d’accordo le forze politiche della sinistra moderata con quelle della sinistra di alternativa e del progressismo variamente declinato in altre forme e programmi, la risposta non può che essere: la volontà ostinatamente contraria di preservare le libertà democratiche, i diritti sociali, i diritti civili e quelli umani. Tutte queste pietre angolari dell’espressione compiuta tanto del singolo cittadino quanto della comunità locale e nazionale in cui ognuno di noi vive, sono i punti di partenza per evitare da un lato moderatismi compromissori e dall’altro tentazioni settariste.
La manifestazione per la pace ed il disarmo convocata dai Cinquestelle oggi a Roma, un tempo sarebbe stata fatta da Rifondazione Comunista. I tempi cambiano, i rapporti di forza anche, i colori delle bandiere pure. Ma è importantissimo che oggi, in quella stessa piazza, Rifondazione, Sinistra Italiana, Verdi e molti altri soggetti anche di base, nonché una delegazione del PD siano presenti e lo siano convintamente. Non c’è dubbio sul fatto che molte contraddizioni permarranno, perché la contingenza politica esige che i confronti si facciano proprio su realtà che sono la prima istanza della protervia dei profitti rispetto al bene comune.
Ma ciò che conta è il riconoscersi come “popolo della pace“, come “popolo del disarmo“, come cittadine e cittadini che, partendo proprio dalla terribile connotazione di questi tempi di guerra permanente e sempre più globale, si possa mettere insieme un ampio settore delle opposizioni parlamentari ed extraparlamentari, sociali, sindacali, civili e culturali per dire al governo di Giorgia Meloni che c’è un’Italia – ed è la maggioranza delle persone, degli elettori – che non approva l’aumento delle spese militari, la destinazione del 5% del Prodotto Interno Lordo all’implementazione degli strumenti di morte.
Il tutto a discapito di una spesa sociale che sempre di più si riduce e che, ora, con la politica trumpiana sui dazi sarà ancora di più sotto attacco: basti pensare al fatto che uno dei settori più colpiti sarà l’industria farmaceutica entro il perimetro di una sanità pubblica parcellizzata, resa dipendente da troppe variabili privatistiche e spogliata del suo carattere di vero e proprio servizio sanitario nazionale. Il popolo della pace che oggi scende in piazza a Roma deve rivendicare non soltanto la necessità impellente dell’inversione di rotta riguardo al riarmo, ma pure l’agibilità degli spazi di critica in tal senso.
Qui rientra non solo il diritto di manifestare liberamente, pacificamente e ogni volta che lo si ritenga doveroso, ma prima di ogni altra cosa la disposizione di ognuno di noi a vedere riconosciuta la propria capacità obiettiva di discernimento dei fatti senza che il governo imponga una sorta di gestione etica del potere che trascende dall’amministrazione del Paese mediante la funzione esecutiva. Dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha, congiuntamente con i suoi alleati, portato avanti una serie di norme che stravolgono proprio il diritto di opinabilità delle politiche della maggioranza.
La necessità di fronteggiare l’emergenza bellica è stata presa a pretesto per giustificare qualunque repressione possibile del movimento antimilitarista, pacifista e per il disarmo. La fiera, muscolare, energica postura aggressiva delle destre, campionesse dell’enfatizzazione della forza come motrice della Storia, ha ispirato ovviamente tutto un filone di politiche neoautoritarie volte a colpire le diversità nel senso più lato del termine: così da includere dentro questo carnet tanto i rave party quanto le proteste improvvisate dei giovani che si sono fatti carico di rimuovere le incrostazioni dalle incoscienze di tanti di noi adulti sull’emergenza climatica, sul cambiamento della struttura biologica del nostro povero pianeta.
La pace che andiamo cercando non può prescindere da una riconversione della Repubblica al suo stato originario, al suo essere espressione compiuta della democrazia: quella del governo Meloni è tutto tranne che rispetto delle funzioni dei poteri equipollenti dello Stato. La maggioranza vuole sovvertire l’impianto costituzionale con il premierato, con l’autonomia differenziata, riconoscendo sempre meno diritti e attribuendo sempre maggiori doveri nei confronti del potere che ha ottenuto con una delega elettorale che, salvo colpi di mano non certo escludibili a priori, finirà nel 2027.
Nel momento in cui Ursula von der Leyen e i suoi commissari hanno disinvoltamente proclamato all’intera Europa e al mondo che siamo alle soglie della guerra qui, in casa nostra, presso le nostre città e a ridosso delle nostre già misere esistenze, il governo Meloni non ha detto una parola che fosse una per obiettare che questo possa essere il futuro che ci attende. La risposta delle estreme destre a Palazzo Chigi e in Parlamento è stata quella di convenire con le politiche fintamente pacificatrici di Trump nei confronti di Putin e, al contempo, di assecondare proprio Bruxelles nella sua furia bellicista.
La piazza organizzata dal Movimento 5 Stelle è tanto più importante oggi quanto diviene trampolino di lancio di un coordinamento sempre più interattivo tra le forze politiche e sociali che si pongo il problema della pace come problema che investe anche la giustizia sociale e così anche quella ambientale. Occorre davvero trarre da questi grandi appuntamenti di massa qualcosa in più del semplice (si fa per dire…) messaggio che si vuole mandare a Palazzo Chigi e all’Italia intera. Se è possibile costruire un momento di riflessione partendo da un conscio collettivo, da una consapevolezza condivisa, è proprio da queste adunanze che lo si deve fare.
Segretari, leader vari devono dall’alto dei palchi lanciare delle chiare intenzioni che siano disposizioni ad iniziare a raffrontarsi territorio per territorio ma con uno spirito di comune accordo che sia, prima di tutto, resistenza all’incedere autoritario del governo Meloni. Il decreto sicurezza va contrastato immediatamente: stiamo scivolando pericolosamente sulla china dell’Ungheria orbaniana. Rischiamo di farci intrappolare da una serie di normative di legge che finiranno con l’intimorire e, quindi, avranno raggiunto lo scopo di impedire che le manifestazioni si possano tenere liberamente, seguendo i princìpi costituzionali.
Soprattutto si tratta delle manifestazioni più piccole, quelle che non hanno magari dietro grandi organizzazioni sindacali, politiche, sociali e culturali. Ogni presidio per la pace, isolato dal contesto della grande piazza romana, rischia di essere proibito perché “antipatriottico“, contrario a quelli che il governo sostiene essere i “valori nazionali“, quindi – con una spudoratezza ineguagliabile – di difesa delle democrazie occidentali. Tutto questo è possibile oggi, mentre viviamo in una fase di retroguardia e ci posizioniamo purtroppo in una attitudine di difesa, attendendo gli attacchi del potere governativo, perché un’epoca è davvero finita: quella del Novecento.
Quella del confronto tra politiche riformiste e politiche alternative: la sinistra appare oggi una risposta insufficiente sul piano politico perché il capitalismo ha prevalso nella sua ottenebrante involuzione-evoluzione ordoliberista che mette al centro di tutto la vittoria del singolo, il primato dell’individuo rispetto alla collettività, al bene comune, all’insieme della società. L’egoismo oltre ogni possibile soglia di contenimento e, come abbastanza ovvio, fa il paio con lo spirito di primazia delle destre, di eccezionalità al comando, di ducesca impostazione del ruolo del capo del governo come conducator della nazione.
La pace mondiale, europea e anche quella della nostra Italia, sono minacciate da questo presupposto di onnipotenza del potere che non deve rispondere più alle masse, come la democrazia vorrebbe, ma che deve anzitutto essere soltanto coerente con i propri presupposti. Chi dissente viene emarginato, ridicolizzato, represso. La guerra è, a questo proposito, funzionale alle tensioni multipolari che si registrano nel mondo: la contesa globale è il cuore di una riconfigurazione delle pedine su uno scacchiere di interessi intricatissimi e davvero difficili da separare gli uni dagli altri. Eppure le lotte concorrenziali sono tali da imporre ancora una volta la necessità della sopravvivenza a scapito degli altri come prima politica da mettere in campo.
Il trumpismo è la politica dei miliardari per i miliardari: tanto peggio per i poveri se non sopravviveranno. Se si ribelleranno, ci penserà la repressione del governo a farli rientrare nei ranghi dell’obbedienza. Ma prima ancora, il tentativo sarà fatto gettando in pasto ad un sempre maggiore ammasso di cervelli svuotati dalla propaganda forcaiola, xenofoba e omofoba, una serie di fantasie di complotto che saranno utili a generare sospetti là dove invece dovrebbero esservi solo evidenze manifeste, quasi empiriche.
Il popolo della pace può anche essere il popolo di un nuovo movimento reale che intende abolire lo stato di cose presente. Poi ognuno lo chiami come vuole: comunismo, socialismo, rivolta sociale, neoprogressismo, eccetera, eccetera. Quello che importa è che si riconosca la necessità dell’insostenibilità di questa nuova fase mondiale fatta di paure create ad arte per tenerci nell’ignoranza, nell’acriticità, nella povertà e nella conseguente disperazione quotidiana per la sopravvivenza. La pace è prima di tutto giustizia, libertà, partecipazione alla ricostruzione di un tessuto sociale che ribalti la narrazione tossica dell’autoritarismo di destra mascherato da democrazia pietosa e benevola.
La pace è rivoluzionaria tanto quanto la cara vecchia, e sempre attuale, lotta di classe.
MARCO SFERINI
5 aprile 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria