Sorprendente, ma anche molto eloquente, è lo smarrimento col quale le forze politiche hanno accolto le parole di Sergio Mattarella, la conferma della sua indisponibilità a un secondo mandato. Il presidente l’aveva già detto e ripetuto. La sua posizione era nota. I partiti, evidentemente, non ci credevano. Erano convinti di poter contare su quella rete di protezione. Proprio per questo il capo dello Stato ha sentito il bisogno di mettere un punto fermo.
Le ragioni della sua scelta sono note. Eleggere per la seconda volta un presidente sarebbe un segno di agonia delle istituzioni disastroso. L’idea di tenere in caldo la poltrona per Mario Draghi la considera, giustamente, offensiva. Il ragionamento per cui un presidente eletto da queste camere e non dalle prossime, con un terzo di parlamentari in meno, lo giudica, da costituzionalista, assurdo: cambia solo il numero degli elettori, non la dinamica istituzionale. In più sa che le forze di destra non lo vogliono. Sarebbe insensato sfidarle costringendole a uscire allo scoperto, contro una rielezione che comunque il diretto interessato non accetterebbe. Capitolo chiuso.
La perentorietà di Mattarella costringe i partiti a guardare in faccia la realtà. Non ha un volto sorridente. L’elezione di un presidente di parte, eletto dalla destra o dalla sinistra più scampoli centristi, potrebbe non essere la campana a morto per il governo solo nel caso di una sfida concordata e basata sul reciproco rispetto: un candidato di destra, uno di sinistra e vinca il migliore. Solo che quel clima civilissimo esiste nelle favole, non nel parlamento italiano. E anche se ci fosse né l’una né l’altra parte hanno i numeri per eleggere un capo dello Stato. A maggior ragione quando nessuno dei leader, tranne Giorgia Meloni, vanta un reale e pieno controllo sulle truppe.
L’unica via d’uscita è un presidente condiviso, un presidente di unità nazionale. Lo dice persino Matteo Salvini, sgambettando così senza remore Berlusconi: «Stiamo lavorando per un presidente che rappresenti tutti». Non potrebbe essere l’uomo che per decenni ha diviso l’Italia. Non c’è dubbio che nessuno corrisponda al requisito più di Draghi, cioè di chi i partiti proprio non vorrebbero insediare al Quirinale. La sua candidatura è di fatto in campo ma non può essere ancora ufficializzata. Manca un passaggio decisivo, ineludibile. Per ambire al Colle il premier deve poter affermare apertamente di aver portato a termine il mandato ricevuto dal capo dello Stato e deve farlo già all’inizio di gennaio.
Quel mandato era doppio. Bisognava portare a termine la campagna di vaccinazione, casella già sbarrata, e avviare il Pnrr. Il che non significa implementarlo, anche perché in questo caso Draghi dovrebbe restare a palazzo Chigi sino al 2025. Significa varare tutte le numerosissime riforme necessarie per «mettere a terra» il Pnrr, tradurlo in investimenti concreti. È una corsa contro il tempo. Draghi, che al Quirinale punta e ha accolto con irritazione alcuni articoli che tra le righe lo invitavano a rinunciare, deve vincere una gara con il tempo, raggiungere il doppio traguardo entro gennaio. Anche per questo ripete che il Pnrr è «in fase di piena attuazione» e palazzo Chigi enumera la lista lunghissima di riforme già varate. Per lo stesso motivo, forse, glissa sul prolungamento dello stato d’emergenza. Se fosse possibile non rinnovarlo sarebbe il segnale più chiaro che la fase in cui la sua presenza al governo era indispensabile si è conclusa. Per i partiti, in segreto obtorto collo, chiudere le porte sarebbe quasi impossibile.
Resterebbe aperto il problema che per tutti è quello principale, l’eventuale scioglimento delle camere. Per le truppe è questione di difesa del posto di lavoro fino all’ultimo. Per i generali, meno triviali anche perché molto meno precari, il problema è che non sono pronti, tranne Meloni, ad affrontare le urne. Ma una volta esaurito ufficialmente il mandato assegnato a questo governo, sempre che il premier faccia in tempo davvero, non è affatto detto che la presidenza Draghi metterebbe la legislatura più a rischio di una sua silenziosa bocciatura. Nessuno più di lui si adopererebbe per evitare le elezioni anticipate. Senza garanzia di farcela però e i partiti preferirebbero di gran lunga la certezza offerta da un altro candidato eletto da tutti e tanto forte da sfidare il voto segreto di un’assemblea ingovernata. Però bisognerebbe trovarlo. Ripetere come fanno tutti «è presto, se ne parlerà a gennaio» è il modo più sicuro per non riuscirci.
ANDREA COLOMBO
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