L’assemblea di oggi del Partito democratico dovrebbe rispondere a una domanda: quali caratteri di sistema ha la sconfitta di Matteo Renzi? Il plebiscito, che lo ha travolto, è il frutto di un processo lungo di perdita di ogni credibilità.
Nessun leader può vincere in una contesa se la sua stessa parola, a maggior ragione dopo un abbandono così riluttante, è percepita come ingannevole.
Quando il loro leader ha perso l’ethos, ovvero il carattere, l’immagine che rende rispettabile, e degna di essere seguita, una figura pubblica, i ceti politici di supporto devono prendere gli accorgimenti inevitabili: affidarsi a un altro capo per sopravvivere. Occorre che qualcuno persuada i dirigenti del Pd oggi riuniti che è necessario che pria facciate al duce spento/successor novo, e di voi cura ei prenda. Ma il Pd, che ha scambiato la personalizzazione della politica con il partito della persona, ha smembrato questo argine. E quindi, mentre il sistema bipolare proprio con il referendum ha replicato il grande crollo del 2013, si coltiva l’illusione di una sua restaurazione imminente, ad opera dello stesso leader annichilito, che crede di avere in dote un potere personale.
Dopo il tracollo di dicembre, che è il compimento di un ciclo e non una eruzione improvvisa di cieca protesta, Renzi non ha più alcuna seria possibilità di trionfo. Questo non significa che ormai irrilevante risulti la sua ombra nella prossima battaglia. «Nessun problema politico – spiegava Bismarck – giunge ad una completa soluzione di tipo matematico. I nodi appaiono, hanno i loro tempi, e poi scompaiono soltanto sotto altri problemi». Finché non si completa il seppellimento del capo, la cui fascinazione è dileguata, altri problemi non compaiono a strutturare i nuovi conflitti.
Non porterà alcun effetto ricostituente per la democrazia la cura rivoltante di un governo sotto tutela dei consoli gigliati spediti a presidiare palazzo Chigi. Accresce ancor più la rabbia un esecutivo che occupa il tempo solo per scaldare la poltrona vacante e riconsegnarla al capo voglioso di riavere lo scettro che ha solo accantonato per qualche mese.
Un leader del tutto annebbiato impone alle sue truppe una mappa irrealistica di risalita perché è saltato il sistema bipolare. Renzi pensa ancora ad un traino leaderistico esercitato dal capo con un preteso dono carismatico: spento rito delle primarie, incoronazione nella marcia dei gazebo e poi assalto disperato al palazzo. Il punto di debolezza della sua strategia è evidente: confida in un nuovo congegno maggioritario per blindare un bipolarismo solo immaginario.
L’attivismo di Renzi per tornare al potere appartiene al campo del tragico. Senza più alcuna credibile capacità offensiva, la sua presenza al timone è la garanzia più certa del naufragio inevitabile. Anche per questa sua vulnerabilità estrema il M5S lo ha irriso chiedendogli di rimanere a palazzo Chigi sino al voto. Non spaventa più come leader in ascesa, e perciò da temere, e anzi il suo spettro, che emana il volto sfigurato di una potenza in decadenza, incrementa le chances di successo dei nemici. È il peggio che possa capitare per un leader.
La conseguenza della sua nuova scalata alla guida del Pd sarebbe l’esplosione inevitabile del suo partito, entro il quale proprio il suo comando assoluto costituisce il principale elemento divisivo e l’ostacolo insuperabile ad ogni ipotesi di alleanza. Che i notabili del suo giro non ne tengano conto, e fingano di essere ancora sedotti dalla promessa di un simulacro di ordine bipolare, è anch’essa una manifestazione di propensione al tragico.
L’abbandono renziano, con la nostalgia dell’immediato ritorno, coltiva il vizio assurdo di esorcizzare un sistema tripolare con l’energia, con la stabilizzazione di una conquista del centro mediante un regime personale da consolidare attraverso la ripresa economica. Orfano del bipolarismo violato dal popolo, Renzi può mantenerne in vita una caricatura, con il progetto evaporato del partito della nazione, che assorbe i residui del berlusconismo e si erge a paladino del sistema della legittimazione che combatte e isola le forze antisistema (la Lega e il M5S).
Rientrano nel grottesco le gesta di un leader che dal buen retiro di Rignano minaccia di tornare presto al palazzo brandendo un’ipotesi già sconfitta: il bileaderismo. Renzi? È un problema in astratto risolto che però resiste complicando così le trame di un sistema che non può dedicarsi alle nuove questioni perché deviato dalle velleità di ritorno in sella di un leader del passato. Eppure l’accantonamento di Renzi è la condizione, non sufficiente e però indispensabile, per rispondere ai segnali sempre più preoccupanti di involuzione del sistema.
MICHELE PROSPERO
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