Trovo un certo conforto in una intervista oggi ad un eminente sociologo che individua anche nella crisi economica una parte di origine della crisi delle coscienze, dell’avanzata impetuosa di sentimenti di respingimento e di aperto odio verso ogni cosa o persona che minacci questo instabile ordine costituito dalla miseria dilagante.
L’esimio professore mette in campo tre fattori alla base della violenza che si diffonde nel Paese e che prende di mira sempre più lo “straniero” propriamente detto: il primo fattore è il venir meno di un rapporto tra valori e giovani generazioni, quindi investe direttamente il sistema scolastico e la trasmissione dei princìpi di uguaglianza che derivano dal sistema democratico e costituzionale; il secondo fattore è lo sfilacciamento dei rapporti sociali dettati dalla mancanza di lavoro: ciò alimenta quel vuoto fatto di noia, di rassegnazione e di invisibilità del futuro che è terreno fertilissimo per la crescita di una paura che è madre di qualunque tipologia di odio; terzo ed ultimo (ma ultimo davvero?) fattore è il contesto familiare.
Su questo terzo punto sono leggermente meno in accordo con l’eccellentissimo professore: penso di più all'”essere sociale” di marxiana memoria in quanto ad individuo che, condizionato dal suo stato economico (quindi, appunto, “sociale”) diviene esso stesso vuoto e banale e la banalità viene sempre riempita da ciò che è male mai da sentimenti di altruismo, di benevolenza.
E’ una sorta di schermatura preventiva, uno stare “in difesa”, quasi in trincea: attendere il nemico al varco, perché un nemico esiste sempre quando lo si vuole creare ed individuare agevolmente per sopperire alle sventure che ci circondano. Capri espiatori se ne trovano a bizzeffe: c’è solo l’imbarazzo della scelta.
E tutto ciò porta a dimenticare che, ad esempio, un reato è comunque un reato, chiunque sia a compierlo e che, chissà per quale processo meccanicistico, diventa estendibile a tutti i migranti se è un migrante a compierlo; questa operazione non scatta nelle nostre menti se a farlo è un nostro conterraneo, un italiano.
Trasmissioni televisive quotidiane si accingono ogni sera a mostrare (per dimostrare) equivalenze impossibili, negate dai numeri ma tuttavia riproposte sempre in un circuito mediatico-cerebrale che riesce a trasformare in verità ciò che è per davvero il contrario: basta mettere in una frase le parole “italiano” e “migrante” per far scattare un razzismo magari latente da anni anche nella più sincera coscienza democratica o progressista.
Tutti conserviamo in noi dei pregiudizi: ciò che importa è esserne consapevoli e magari provare un certo imbarazzo per questo. E’ un antidoto ancora efficace per non abbandonarci a facili prese di posizioni, a giudizi sommari o liquidazionismi classici della più becera propaganda fascista e neofascista.
Sempre in una trasmissione televisiva di qualche giorno fa ho sentito questa frase: “I fascisti, in fondo, hanno soltanto espresso le loro opinioni, il diritto di parola e di critica.”.
Il diritto? I fascisti non hanno nessun diritto. I diritti li hanno i cittadini e le cittadine della Repubblica. I cittadini o le cittadine che sono fascisti questi diritti li dovrebbero perdere immediatamente perché non vi è cittadinanza per i fascisti nella Repubblica italiana.
Ma, a quanto pare, una ondata di incultura di destra ha investito il Paese dopo un sapiente lavoro di decenni di preparazione del tutto e ora siamo noi comunisti su posizioni anche di difesa culturale. Siamo noi, figli e nipoti di una generazione costituente post-bellica, che dobbiamo giustificare la necessità dell’egualitarismo sociale davanti alle differenze che ci minacciano.
Siamo noi a dover giustificare comprensione, accoglienza, solidarietà davanti all’ipocrisia della tanto osannata “tolleranza”: concetto sempre spacciato per “buonista” e che ha invece nascosto dietro di sé ciò che non poteva non nascondere, ossia la “sopportazione”. E la sopportazione è cumulatrice di ansie, di frustrazioni nascoste che, associate ad una palese informazione distorta, ad un analfabetismo sociale e politico di ritorno, nonché ad un ritiro su molti fronti di quella educazione civica che un tempo era materia di studio anche scolastico, diventano oggi il miglior fertilizzante per le malepiante del razzismo democratico, di quello che può – alcuni sostengono – essere controllato, rimodulato nei confini addirittura del costituzionalismo italiano.
Sono bestemmie laiche queste, discorsi che non avrebbero mai avuto possibilità di essere fatti ed esternati solo trent’anni or sono. Ma il berlusconismo da un lato, l’utilizzo del bene comune per interessi privati dall’altro, la fame di ordine creata dal disordine voluto e cercato con una instabilità sociale necessaria al sistema per regolare le proprie falle nella crisi economica, hanno determinato uno scenario complessivo invivibile e, pertanto, gestibile con parole d’ordine rivolte al securitarismo piuttosto che al “socialismo”.
Si parla, quindi, di sicurezza ma di socialità molto poco. Del resto l’una esclude l’altra: dove esiste socialità e condivisione della vita non esistono problemi di presunta sicurezza.
Il declino generazionale italiano è appena cominciato.
MARCO SFERINI
1° settembre 2017
foto tratta da Pixabay