Non sempre una forza politica entra in crisi a seguito di una scissione, se per crisi si intende, quanto meno, un profondo ripensamento di sé stessa davanti ad una inadeguatezza manifesta, una idiosincrasia non cercata nei confronti dei rapporti di forza sociali, economici e politici in cui si trova ad operare. Può accadere, un po’ leninisticamente parlando, che da una epurazione, da una scrematura dei suoi vertici (nonché della sua base), un partito ne esca addirittura rafforzato.
Ma questo generalmente avviene se l’allontanamento di alcuni suoi membri, oppure la divisione che lo anticipa o ne è conseguenza, è una scelta consapevole e meditata di quella forza politica. Se è, in pratica, non subita bensì voluta. Diversamente si è quasi sempre davanti ad aggiustamenti strutturali di linee politiche divenute più che altro il pretesto per vincere delle lotte di potere interne piuttosto che per far affermare realmente la sostanza e il merito delle posizioni che appaiono la ragione del dissidio e della divisione.
Sia come sia, ciò che sta avvenendo nel Movimento 5 Stelle, al di là dei toni grotteschi che assume la vicenda politica di uno dei più esemplari fenomeni di trasformismo italico, è emblematico: il crollo del consenso elettorale è speculare a quello della partecipazione sui territori.
Le partecipazioni al governo logorano soprattutto chi il potere lo scopre come alternativa alle presunzioni rivoluzionarie che si fermavano alla contestazione del mero ceto politico e non hanno mai sposato cause sociali, critiche anticapitaliste, ma hanno fatto dell’interclassismo, dell’indistinzione anti-ideologica una pietra angolare della propria bislacca cassetta degli attrezzi.
Il M5S giunge alla sua crisi forse definitiva, nello scontro aspro tra Conte e Di Maio, proprio quando cessa di rappresentare il ceto medio, la congiunzione tra diverse classi sociali.
Praticamente, il venir meno di una eterogenesi dei fini che non ha portato ad una sintesi compiuta e definita nell’azione di governo, perché proprio in questa azione il movimento pentastellato ha visto prima venire meno il paradigma della “diversità“, rispetto a tutte le altre forze politiche, con la nascita del governo giallo-verde, poi consolidare la sua capacità di resilienza trasformistica con la formazione del Conte II e la scelta di quello che, molto impropriamente, viene definito il “campo progressista“.
Infine, nonostante l’interclassismo anti-ideologico del M5S potesse far sembrare quella della “maggioranza di unità nazionale” draghiana la scelta più confacente al suo spirito proteiforme e amorfo, la condivisione delle responsabilità di governo, con tutti i compromessi che si devono accettare, subire e anche proporre per rimanere agilmente a galla, ha dato il colpo di grazia quanto meno al progetto originario di Grillo e Casaleggio che, oramai, è consegnato alla Storia della politica italiana e che, nonostante i richiami di Conte ad una riorganizzazione su quei princìpi, guardando a quelle visioni conformiste e tutt’altro che rivoluzionarie, è impossibile riproporre.
Eppure le occasioni per affermarsi come elemento scardinante il vecchio sistema di potere, il Movimento 5 Stelle le ha avute: a cominciare dal consenso elettorale e dalla enorme rappresentanza parlamentare che, seppure ridimensionata da tante espulsioni e da altrettante scissioni, avrebbe potuto essere gestita differentemente e funzionare da ago della bilancia nel disordinato odeon del nostro imprescindibile regime parlamentare.
Come mai un movimento che ha saputo radunare intorno a sé decine di milioni di italiani in poco tempo, promettendo un capovolgimento dei rapporti di forza politici e cambiamenti radicali sul piano economico-sociale, non è riuscito a capitalizzare questa crescente simpatia, questo consenso che ha prosciugato le fila della sinistra di alternativa e, in parte, anche di certi settori di centro e di destra, parendo vincere – almeno in un primo tempo – la lotta contro le ramificazioni del potere nel quotidiano?
Una risposta potrebbe essere riduttiva, perché evidentemente una combinazione di fattori – come sempre avviene nella storia – ha determinato il declino e la caduta di un progetto politico certamente ambizioso ma, questa una delle sue debolezze, non tanto da schierarsi contro il mercato, contro la ragione vera del disagio sociale: l’economia liberista e, quindi, il capitalismo.
La multiformità necessaria ai Cinquestelle, il loro essere più fluidi che solidi, per diventare alla fine gassosi ed eterei, in una strategia di lungo termine non ha pagato: essere considerati amici un po’ da tutti, tanto dai lavoratori più sfruttati e meno fiduciosi nella rappresentanza istituzionale, quanto dagli imprenditori che cercavano uno svecchiamento politico, una innovazione che regalasse una nuova stagione di pace sociale alle imprese, ha finito con l’essere non un punto di forza ma, in tutta evidenza, di debolezza.
Non si possono, del resto, servire allo stesso tempo due padroni e, al di là della saggezza evangelica, nel momento in cui ti trovi al governo scopri per certo quali padroni ti tocca servire.
La crisi irreversibile del M5S oggi arriva ad un punto di non ritorno, ad un duello personale che ha bisogno di circostanziazione politica per essere supportato quanto meno mediaticamente e non sembrare quello che in realtà è: il tentativo di Di Maio e Conte, in vista delle politiche del 2023, di radunarsi attorno ciò che resta del movimento per lanciare un progetto politico nel “campo largo” lettiano oppure sviluppare una differente forma di autonomia organizzativa che si incanali in un percorso filogovernativo, che non abbandoni quindi quella che si potrebbe appunto definire la “linea governista” di una parte dei pentastellati.
Mentre il contismo pretende di essere la linea di lotta e di governo, quella di Di Maio è solo rivolta, in questa precisa fase, a mettere tutti gli sforzi nell’applicazione dei dettami draghiani e non ha spazio per altro.
Il pretesto per buttare giù dalla torre uno dei due è presto trovato: sia come sia andata, la risoluzione sullo stop o meno all’invio di armi a Kiev ha prodotto il suo effetto. Ha offerto ai contendenti l’arma con cui fronteggiarsi, sapendo bene che la posta in gioco del duello non è il voto di fiducia che l’esecutivo chiederà alle Camere martedì sul dispositivo preparato dalla maggioranza, per continuare a sostenere l’armamento degli ucraini, ma quello che avverrà un minuto dopo qul voto stesso.
Se Di Maio accusa Conte di voler “disallineare” l’Italia dalla NATO e dall’Europa in merito alla conduzione della guerra per procura, l’ex Presidente del Consiglio, mostrando ancora una volta la perfetta internità anche di questo nuovo movimento alla conformità delle relazioni internazionali stabilite dal patto nord-atlantico, lo smentisce a stretto giro di posta. Non esiste nessuna questione pacifista e nemmeno lontanamente “pacificatrice” nel M5S: ogni argomentazione fatta propria dai contendenti è un proscenio surrettiziamente allestito per dare una dignità alla separazione che si sta per compiere.
Forse il disegno visionario di Casaleggio poteva anche essere risultato affascinante per coloro che condividevano una democrazia telematica al posto di quella parlamentare. Forse poteva anche aver inebriato quelli che scorgevano una prassi rivoluzionaria nel distacco dall’omologazione istituzionalizzante di un potere che, almeno ab origine, il movimento era riluttante ad accettare come forma stessa di conduzione della propria politica. La preferenza per l’assemblearismo internettiano governato dall’alto e gestito secondo un criterio oligarchico ha rappresentato una pericolosa alternativa politica nel decennio di sviluppo del populismo pentastellato.
La gestione del potere è più seducente del potere stesso che, molto spesso, rimane una immagine impalpabile, una idea da rincorrere quando si è messi davanti alla perversa scelta se sia meglio continuare a rapportarsi con le masse per cambiare il corso degli eventi o se sia invece più politicamente corroborante sedere nelle stanze dove si decidono le cifre da destinare a questo o quel comparto, dove si regolano gli accordi tra le parti sociali e dove si danno le disposizioni che regolano la vita nazionale.
Non sono soltanto stati i Cinquestelle a trovarsi davanti al bivio della seduzione tra ragioni popolari e ragion di Stato: in passato anche le forze di sinistra hanno fatto scelte simili, optando per un governismo che ha finito con il sostituire quasi completamente i programmi di cambiamento sociale che erano il fondamento e la ragione d’essere di tutta una vita politica.
Ma, almeno in quel caso, il peso delle pretestuosità e degli arrivismi personali era nettamente inferiore ai capovolgimenti storici che si affermavano nel mondo: la mutazione genetica del PCI, per quanto fosse anche portata dalla spinta egocentrica di una nuova classe dirigente di giovani rampanti, avvenne principalmente – e non meno colpevolmente – per un adeguamento opportunistico alle ragioni generali di un mondo che assorbiva, nemmeno tanto lentamente, gli effetti del liberismo appena nato dal fragore degli anni ’70.
Sarebbe davvero paradossale paragonare quello che accadde ai comunisti tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del successivo ultimo decennio del Novecento alle scaramucce di basso tatticismo del M5S di oggi dentro la contesa istituzionale di una politica enormemente ruffiana nei confronti del potere economico continentale.
Ad ogni tragedia la sua farsa. Quella messa in scena ora a Roma da Conte a da Di Maio è uno spettacolo della pochezza di una mai veramente rinnovata classe dirigente: il movimento pentastellato non solo non ha mai rivoluzionato nulla in Italia ma, al contrario, ha regalato al ceto medio e al mondo borghese e imprenditoriale nuovi motivi e nuovi espedienti per fermare il rinnovamento sociale, per sostenere il centrismo del cosiddetto “centrosinistra“.
Conte e Di Maio possono scomunicarsi a vicenda, separarsi in casa o dividersi senza troppi rancori, ma nulla cambierà la storia politica dei Cinquestelle: erano, sono e (forse) saranno un caso politico soltanto per aver lasciato immaginare a tanti milioni di italiani di rappresentare quel cambiamento radicale che invece era un luogo comune, un effetto propagandistico gattopardesco.
Il cambiamento che si pretendeva di raggiungere stava, sempre e comunque, dentro la cornice del capitale, escludendo qualunque sintonia con le posizioni sindacali, anche quelle più moderate, e guardando al mondo del lavoro come ad una variabile dipendente da una ricchezza nazionale espressione soltanto delle imprese e del padronato.
La parabola ingloriosa del grillismo si avvia alla conclusione, ma non è detto che per questo ciò che rischia di venirle appresso sia migliore di ciò che l’ha preceduto. Esserne consapevoli non guasterebbe. Lavorare per limitarne la forza penetrativa nelle fasce più deboli della popolazione non sarebbe affatto sconveniente.
MARCO SFERINI
19 giugno 2022
Foto di Charlotte May