Solitamente le lettrici e i lettori di due categorie (o presunte tali) saltano le prefazioni dei libri e passano direttamente alla lettura del testo: i pigri e gli smaniosi.
I primi rischiano di inciampare nel loro peccato capitale anticulturale già al primo voltare di pagina, per cui la prefazione diventa la quinta essenza di una nemica da aggirare presto e subito; i secondi, invece, sono coloro che non vedono l’ora di assaporare il contenuto del libro e, generalmente, leggono la prefazione tra un capitolo e l’altro, oppure quando hanno sono arrivati alla fine e ciò che era un prologo diventa così un improvvisato epilogo.
Diciamocelo: spesso le prefazioni sono noiose, petulantemente saccenti, esegetiche oltre ogni limite di sopportazione e, nel peggiore dei casi, come si direbbe oggi, ti fanno pure “spoiler“. Motivo in più per deprecarle, odiarle e disprezzarle. Questa parrebbe la regola. L’eccezione la si ritrova ogni tanto, per l’appunto… altrimenti che eccezione sarebbe. Ed anche qui c’è una specie di regola, per poterla trovare e per non essere successivamente disillusi. La buona prefazione, l’ottima introduzione è quella che lo stesso autore fa al suo libro. Karl Marx e Friedrich Engels sono degli specialisti in merito.
Tanti altri scrittori, filosofi e scienziati hanno preferito descrivere, più o meno brevemente, ciò cui il lettore andava incontro nelle pagine successive e hanno ottenuto il risultato di essere sufficientemente modesti per non scadere nella pedanteria e nell’autocelebrazione, instillando in chi avrebbe avuto il testo tra le mani quella punta di curiosità per continuare, per affrontare anche la lettura più corposa di pagine, più complicata negli argomenti.
E’ il caso anche di Giorgio Bocca, la cui penna magistrale, il cui stile fluido e ricco di similitudini e metafore, che fanno innamorare della scrittura e della lettura, gli ha consentito di mettere nero su bianco una prefazione tanto piacevole quanto necessaria per un libro ripubblicato da Feltrinelli sessant’anni dopo l’anno in cui venne per la prima volta dato alle stampe. “Partigiani della montagna” uscì infatti nel 1945, a ridosso dell’appena conclusa lotta di Liberazione contro il nazifascismo, fresca cronaca e storia al tempo stesso di un’esperienza resistenziale nelle valli del Cuneese.
Nel 2005, in piena tempesta berlusconiana, il giovane partigiano piemontese diventato redattore del foglio di “Giustizia e Libertà” prima e giornalista e scrittore di fama internazionale poi, decide di riconsegnare alla memoria dei lettori un libro che descrive, annota, sostiene e critica pure quella grande esperienza, quasi unica in Europa per pluralismo di composizione sociale, culturale e politica, che fu la Resistenza antifascista.
La prefazione diventa un mezzo utile e necessario per aiutare il lettore a collocare nel suo tempo un racconto che, nelle terminologie vibranti, prive tuttavia di una ridondante enfasi, opportunamente evitata da Bocca e in cui chiunque avrebbe rischiato di cadere, può sembrare più che altro un diario di guerra, una notazione meticolosa di una geopolitica partigiana che dipinge con splendida precisione i paesaggi, le vallate delle Repubbliche libere, le organizzazioni delle brigate, le tante strade che dalla pianura fascista portano ai monti della nuova Italia che sta per nascere.
La prefazione di Bocca è un libro nel libro: fotografa le motivazioni della riproposizione di una memoria che deve farsi largo nel revisionismo storico che, grazie ai governi della destra berlusconiana, rialza la testa. A leggere tutto ciò quasi vent’anni dopo, sembra davvero che ben poco sia cambiato: l’arroganza dei sovranisti di oggi non è poi così dissimile dalla sfacciataggine dei peones del Cavaliere nero di Arcore d’un tempo.
Persino uno dei papabili per il Quirinale, il senatore Marcello Pera, all’epoca Presidente della Camera Alta della Repubblica, è appellato come “revisionista” da un Giorgio Bocca che non fa sconti ai tanti, troppi tentativi di minimizzare la lotta partigiana, di spostare l’asse culturale, civile e morale del Paese dall’antifascismo alla “memoria condivisa“.
Quando si vuole tentare l’operazione revisionista, prima di tutto si distorce il tempo degli eventi, si alterano le esistenze singole, gli episodi e i fatti continuativi che diventano delle variabili dipendenti dal punto di vista di una flessione ideologizzata della Storia che si controverte e si perverte. Si mettono sullo stesso piano posizioni tanto differenti, dicotomiche e imparagonabili per giocare proprio sul crinale del confronto impossibile. Per renderlo almeno probabile e, quindi, sostanziabile, dandogli la forma che si preferisce e che è più accattivante e performante nella stretta attualità dei propri tempi.
Bocca denuncia queste operazioni che sovvertono tanto il passato quanto il presente di una Italia in preda ad una trasformazione egocentrica del cittadino in self made man all’ennesima potenza. E’ il berlusconismo onnivoro che fagocita qualunque retaggio politico della cosiddetta “prima repubblica” e promette di dare una nuova vita ad esistenze spente dalle indagini giudiziarie o dai trascorsi di un decadimento dei grandi partiti di massa.
Uno dei fronti aperti dalle destre era, è e rimane proprio quello della riscrittura di una Storia d’Italia data per scontata, perché poggiante sulla solidità dell’eredità della morale e civile della Resistenza, vividamente presente nelle pagine della Costituzione. L’attacco all’antifascismo, quale impianto fondante la Repubblica italiana, è pertanto attacco alla democrazia, a tutti i corpi intermedi tra istituzioni e popolo che, nel corso dei decenni, sono divenuti presìdi importantissimi per contenere le spinte eversive provenienti dalle coalizzazioni neofasciste e sovraniste di ultimo modello.
Il racconto della lotta partigiana a fianco di Duccio Galimberti, dai primi passi della Resistenza in quel di Boves fino all’organizzazione di oltre 45.000 uomini (e donne) in larga parte dell’Alta Italia, è fresco dell’esperienza appena vissuta: lo si avverte nitidamente nella lucidità mnemonica dell’autore, in ogni passo in cui sembra di camminare fianco a fianco dei patrioti. Bocca ci costringe ad inerpicarci sulle colline e sulle montagne, «….dove, salendo verso l’alto l’aria diviene più pulita» e sembra davvero di sentirsela sulla faccia, pungente e sferzante.
Se Bocca avesse scritto “Partigiani della montagna” oggi, questo libro rientrerebbe nella categoria dei “fact checking“, di quelli redatti per confutare proprio le tante falsità di autori che hanno fatto del revisionismo storico il loro trampolino di lancio per un successo immediato, cavalcando l’onda di un tatticismo politico di breve durata che, però, risponde ad un disegno strategico molto più articolato e insidioso.
Ne parleremo più avanti, non mancherà occasione.
Ma adesso è bene chiudere questa recensione con le parole stesse di Giorgio Bocca:
«“Attaccare! Attaccare! Attaccare!” si ripete. Tutti sono in piedi e stanno attorno alla macchina da scrivere. I comandanti di divisione dettano a turno gli ordini ai loro reparti, gli stessi già concordati da tempo col Comando zona. Entrano intanto le staffette che porteranno gli ordini. Cammineranno nella notte, attraversando le valli, per giungere alle lontane grange dove i comandi di brigata attendono. Devono assolutamente giungere. Domani a mezzogiorno incomincerà l’attacco. Ci salutiamo e ci abbracciamo. Ognuno di noi deve ritornare ai posti di combattimento, ci rivedremo presto in Cuneo liberata».
PARTIGIANI DELLA MONTAGNA
GIORGIO BOCCA
1945 / FELTRINELLI 2005
€ 7,50
MARCO SFERINI
26 gennaio 2022