Prima della manovra, il «Piano strutturale di bilancio di medio termine». Nel giorno in cui ufficialmente rinuncia ad essere commissario europeo, Giancarlo Giorgetti inizia il suo lungo e difficile lavoro di custode italiano del nuovo Patto di stabilità che riporta l’austerità in tutta Europa dopo la breve parentesi del Covid.

Inviso a buona parte della maggioranza – in primis la sua Lega – il documento che dovrà spiegare come rientrare nei parametri per deficit e debito deve essere inviato a Bruxelles entro il 20 settembre. Ieri in Consiglio dei ministri Giorgetti ha fatto un piccolo esame di riparazione ai colleghi spiegando come il piano di rientro abbia una durata di 4 anni, estendibile fino a 7 anni «nel rispetto di particolari criteri».

La nuova espressione che ci abitueremo a sentire al centro dell’attenzione è l’«aggregato della spesa netta», «ovvero la spesa non finanziata da nuove entrate o risorse europee, senza contare gli interessi passivi sul debito e gli effetti ciclici di particolari tipologie di spesa».

Si tratta del grimaldello per poter accedere all’estensione da 4 a 7 anni per il rientro dai deficit eccessivi pari comunque a una correzione annua sul deficit dello 0,5-0,6%, corrispondente a circa 12 miliardi l’anno.

In più Come Bruxelles continua a chiedere le mitiche «riforme»: il Piano dovrà inoltre prevedere un insieme di riforme e investimenti tali da rispondere alle difficoltà strutturali del paese e alle raccomandazioni specifiche rivolte dal Consiglio», ha ricordato Giorgetti, come da comunicato del Mef.

Se in questo Piano basteranno le promesse, il nuovo Patto di stabilità non modifica la necessità di inviare a Bruxelles il Documento programmatico di bilancio (Dpb), che dovrà essere presentato all’Europa entro il 15 ottobre: qui vanno inseriti gli ultimi aggiornamenti delle previsioni macroeconomiche e i principali ambiti di intervento della manovra di bilancio.
Logico dunque che Giorgetti abbia invitato i colleghi a moderare le richieste, come già fatto da Meloni nella riunione mattutina con Salvini e Tajani.

Come da tre anni a questa parte, la voce principale della manovra è l’ormai mitico taglio del cuneo fiscale, evocato già da Romano Prodi nel suo primo governo dello scorso millennio.

La grande farsa riguarda il fatto che tutti i governi promettono di renderlo strutturale ma nessuno ci riesce e così ogni anno vanno trovate le risorse per confermarlo. Una zavorra di 10 miliardi – quelli che servono per il taglio del cuneo per i redditi fino a 35 mila euro annui – che come l’anno scorso e l’anno prima con Draghi rende impossibile fare altro nella manovra.

Dunque niente pensioni, pochissimo spazio per il taglio delle tasse al ceto medio e la necessità di tagliare su tutto il resto, dalla sanità al welfare.

La polemica sul taglio all’assegno unico – l’unica misura di welfare che ha un peso reale sulle buste paga dei lavoratori dipendenti con figli – deriva anche da questo. Meloni già da mesi sbraitava contro le imposizioni europee che intimano al governo italiano di riconoscere l’assegno anche ai residenti non italiani.

La sua crociata per non riconoscere l’assegno unico ai figli dei migranti («Folle darlo a chi è del Bagnledesh», disse già a maggio) nonostante il richiamo della Corte Ue va di pari passo alla necessità di risparmiare.

Ecco quindi come ieri Giorgetti abbia dovuto ribadire il mantra dell’austerità: «in questa legge di bilancio non ci saranno soldi da buttare dal finestrino». Una sollecitazione, quella di Giorgetti ai ministri, per far capire che le richieste di spesa vanno assolutamente limitate e che è necessario concentrarsi sulle priorità fissate da Meloni: riduzione delle tasse, famiglie con figli, le imprese che assumono.

Come al solito, Giorgetti ha proseguito nel gioco delle tre carte, lasciando la porta aperta a ipotetici tesoretti dovuti, manco a dirlo, alla moderazione tenuta fin qua dallo stesso ministro: «l’andamento delle entrate, sostenuto dalle ritenute sul lavoro, lascerebbe ben sperare per l’anno in corso e anche per il prossimo, trattandosi di gettito in buona parte strutturale», promette Giorgetti.

Bloccato il mostro superbonus, la spesa è tornata sotto controllo. Nello schema bastone e carota, è il «nuovo patto di stabilità a non permettere più di approvare misure senza adeguata copertura».

Se alla fine Giorgetti se l’è cavata con la solita accusa ai giornali di dare voce a misure «per il 90% inventate», per lui resta tutto il problema di trovare 20 miliardi. E l’unico modo sarà tagliare ancora di più la spesa sociale. Alla faccia dei proclami di Meloni.

MASSIMO FRANCHI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria