Parlare all’Italia povera, rancorosa e piena di pregiudizi

Non si può dare oggettivamente torto a buona parte del popolo italiano che è visceralmente nauseato dal livello della politica nel Bel Paese. Perché questo livello è sempre più...

Non si può dare oggettivamente torto a buona parte del popolo italiano che è visceralmente nauseato dal livello della politica nel Bel Paese. Perché questo livello è sempre più desolatamente basso. Soprattutto dalle parti di una destra che ce la mette tutta, nel farsi concorrenza partitica nel sistema proporzionale di voto per le europee, con slogan, manifesti, stacchetti musicali e appelli al voto oltre il limite del ridicolo.

C’è chi taglia le torte imitando volutamente la ics a mo’ di “decima” per simboleggiare e richiamare quindi la trasformazione della flottiglia in battaglioni della vita e della morte fascisti; c’è chi fa video con tanto di balletto musicale a cui la metrica delle frasi sta stretta tanto quanto il buon gusto e la decenza del rispetto dell’intelligenza altrui. E c’è chi parla, da quasi ex critico d’arte, in piazze vuote, e c’è chi in televisione ripete gli slogan parossistici: “Meno Europa, più Italia“, mentre scorrono le immagini di tappi di bottiglie, Gesù degeneratamente incinti, insetti da mangiare e altre amenità.

Se ne può anche sorridere, ma il livello – si diceva – è talmente basso che spazio per i contenuti ne esiste davvero molto poco. Chi ha provato a discutere di pace, di terra, di dignità per i popoli tutti, compreso il nostro che – nonostante l’avanzare della crisi economica, ambientale e istituzionale – vive in una condizione di relativo privilegio (perché non gli piovono bombe in testa e non muore di fame e sete come a Gaza…) è stato ovviamente bistrattato, relegato a presenze generose offerte da La7, mentre la televisione pubblica non ha passato nei telegiornali una volta che fosse una opinioni alternative a quelle dei partiti cosiddetti “principali“.

Essersi abituati a considerare logico tutto questo è un altro sintomo conclamato di deriva antidemocratica tanto delle istituzioni, quanto del rapporto che esse hanno con la popolazione, della connessione che manca sempre di più tra società e politica, tra rappresentanti e rappresentati. La campagna elettorale viene buttata in caciara sui social, gli scambi di accuse sono all’ordine del giorno, i gesti eclatanti per attirare l’attenzione di un elettorato – in larga parte – mentalmente alienato, derelitto, privo di qualunque spunto ideale, pure.

La partita delle Europee si gioca peggio di come potremmo giocare un campionato di calcio, che tra poco ci vedrà tutti più felici sventolare il Tricolore e amare la Patria nell’era meloniana in cui la stessa viene svenduta al Patto Atlantico come non mai, piegata all’europeismo liberista di Ursula von der Leyen, ammiccante all’orbanismo per quanto concerne la trasformazione della Repubblica da parlamentare a premieristica.

Spaventa la povertà dei contenuti che è, inevitabilmente, figlia di un pauperismo ideologico, culturale, sociale e pure morale. Perché metà del Paese che va a votare è sedotto da un semplificazionismo banalizzante, da un superficialismo che agguanta i concetti basici e si nutre più che altro di immaginazioni, di mistificazioni, di pregiudizi e allarmismi, di tentazioni ancora complottiste di carattere internazionale che evocano la minaccia contro le pseudo radici giudaico-cristiane dell’Europa.

I post-fascisti di casa nostra, che mimano la ics della Decima MAS al posto di quella di Sant’Andrea o di quella greca, sono forse peggiori di chi tiene i busti di Mussolini in casa e ricopre alte cariche dello Stato? Sono forse migliori quelli che, da posizioni davvero apicali, rivendicano la presenza della fiamma tricolore nel simbolo del loro partito e sono affiancati da altri che parlavano (e non hanno mai smesso di parlare) di “sostituzione etnica” in merito alle politiche migratorie?

Non possiamo fare finta che il problema sia solamente politico. Se lo è, e infatti lo è, antitutto proviene da una inedia culturale che si è venuta cumulando nel corso dell’epoca ventennale del berlusconismo, della teorizzazione del concreto come unico ideale possibile: meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecore. Meglio avere oggi qualcosa che domani forse niente. L’egocentrismo che si è preso gioco delle classi più disagiate e popolari, illuse da una massificazione dei consumi che hanno esacerbato la voglia di possedere, più che di vivere, ha prevalso sui valori sociali.

Esiste un’altra metà della popolazione che non si fa irretire da concezioni conservatrici spacciate per moderniste, da diritti civili scambiati con quelli sociali o da negazionismi in materia di catastrofi ambientali e rivoluzioni antiecologiche in atto. A questa parte di popolo viene più spontaneo rivolgersi per accreditare le proprie ragioni in favore della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà e della pace. I valori della Costituzione resistente, antifascista, laica e parlamentare.

Ma compito di noi gente e popolo di sinistra, di un progressismo che vuole innovarsi senza dimenticare di essere qui per lottare contro il liberismo, contro il capitalismo, per una società che spinga verso l’alternativa a centottanta gradi a tutto quello che oggi ci fa penare, soffrire, mentre a godersela sono pochi, pochissimi ricchi e ricchissimi, è e deve essere prima di ogni altra cosa rivolgerci con parole semplici a quell’altra metà di popolo.

Quella che ci è più ostile, che ci disprezza, che ci insulta anche. Spesso indotta da un atteggiamento da “branco” che non dissimula ma, anzi, rivendica, la sua origine prevaricatrice tipica dell’arroganza della forze esibita muscolarmente e mascellarmente dai neofascisti e da tutti coloro che preferiscono l’azione squadristica al ragionamento democratico e civile. Quella meno capace di schermarsi dai facili richiami alla guerra tra i poveri, nel nome della purezza etnica, dell’amore di una Patria invocata troppo spesso ed altrettante volte tradita.

Quella parte di popolo che è sottoproleariamente il moderno angolo delle periferie in cui il governo fa il suo spot elettorale, finge un interesse per i meno tutelati per poi, appena svoltato l’angolo, approvare misure che difendono i grandi interessi di aziende che incitano la politica delle destre ad essere la quintessenza delle privatizzazioni o, comunque, del collaborazionismo peloso tra istituzioni e imprese.

I casi di corruzione e di malaffare che si registrano, un po’ trasversalmente, sul terreno della geopolitica italica, ne sono la conferma impietosa. E non fanno ben sperare, se si pensa soprattutto di potersi appellare al governo per un ridimensionamento di fenomeni di cui una parte della sua cosiddetta impropriamente “classe dirigente” si nutre ed è parte integrante e ri-costituente un regime di potere tossico, anti-civico (ed anti-civile). Oltre ad un restringimento dei margini di esercizio delle libertà singole e collettive, le destre procedono nel mutamento antropologico-culturale del Paese.

L’occupazione dei principali canali di comunicazione televisivi pubblici ha segnato, con l’era meloniana, un salto di qualità negativa dalla sopportazione della lottizzazione all’accettazione (anche qui rassegnata da parte dall’opposizione) della spartizione senza rispetto alcuno per un diritto di tribuna delle minoranze. La totalizzazione del potere governivativo la si evince soprattutto da come tratta il dissenso: lo reprime a suon di manganellate nelle piazze; ridicolizza gli avversari in campagna elettorale; bullizza uomini di cultura, spettacolo, giornalisti.

Evita accuratamente di andare là dove le domande sarebbero scomode perché proprio tipiche del giornalismo di inchiesta, che incalza l’interlocutore e che deve avere un quantitativo necessario di provocazione per far emergere le contraddizioni. Il problema della comunicazione, dunque, è al centro di una più grande questione che riguarda la democrazia sociale e civile dell’Italia del 2024. Parlare al mondo del disagio e della povertà più nera, quello che più è lontano da qualunque ragionamento politico, deve essere il compito della sinistra.

Deve essere anche il compito di un partito della pace e del disarmo che non può non individuare nella decostruzione delle relazioni sociali il primo passo per una impostazione di guerra permanente tra i cittadini, tra gli esseri umani, tra tutti coloro che, facendo fatica ad arrivare a metà mese, si arrangiano con lavoretti che non permettono quella tranquillità economica che consenta di abbandonarsi anche al ragionamento politico.

Marx ce lo ha spiegato molto bene. L’essere umano, prima di occuparsi di questioni culturali, sociali, civili e morali, quindi anche di politica, deve prima di tutto soddisfare i suoi bisogni primari: bere, mangiare, dormire, avere un tetto sulla testa, avere ciò che serve per poter continuare ad esistere. Il minimissimo sindacale che oggi a Gaza non c’è. Perché c’è una guerra abominevole che devasta tutto e tutti. Noi, qui, siamo – seppure possiamo fare fatica a comprenderlo – fortunati. Abbiamo, nella povertà che dilaga, la possibilità di riconoscere un privilegio che altre parti del mondo non hanno.

Ma, di contro, se siamo costretti a considerare la precarietà dell’esistenza un privilegio, significa che siamo già andati oltre un punto di non ritorno in materia di diritti sociali, di dignità della persona, di rispetto del ruolo pubblico delle istituzioni, pervertite da un privatismo a tutto tondo che ha distrutto il concetto di socialità e di condivisione dei “beni comuni“.

A chi ci fa spallucce e ci dice che siamo tutto uguali, noi che ci interessiamo di politica e che, oltretutto, siamo di sinistra, dobbiamo rispondere non soltanto che non è vero, ma che se non ci siamo più nei telegionarli, nelle trasmissioni tv, se siamo costretti alla marginalizzazione è anche per i nostri errori tattico-strategici, ma in particolare perché la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi. Per ora.

E la continuano a vincere ogni volta che il crumiraggio politico di certa sinistra moderata tenta la mediazione tra interesse pubblico e privato. E la continuano sempre a vincere ogni volta che si cede al ricatto tra lavoro e ambiente, tra uguaglianza e sicurezza, tra scuola e lavoro, come se non queste fondamenta della socialità e dell’individualità non potessero andare di pari passo e compenetrarsi.

Può darsi che le elezioni europee non siano così determinanti per le sorti dell’Europa come si potrebbe pensare. O forse sì. E nel secondo caso, sarebbe bene non stare a guardare. In particolare se si è così arrabbiati e sfiduciati da detestare tutte e tutti del mondo politico-istituzionale. C’è sempre una opzione a cui guardare per fare sì che il voto non sia sprecato. L’unico voto sprecato è quello non dato. Può essere una scelta, certo. Ma se dura troppo a lungo la domanda da porsi è: che cosa posso fare anche io per contribuire a creare le condizioni affinché ci sia di nuovo un soggetto politico a cui dare la preferenza?

Un soggetto che difenda i diritti dei più deboli. Oggi quel soggetto è la voce del pacifismo, dell’antimilitarismo, del disarmo, del dialogo fra le parti, della fine di una politica ipocrita che viene dai millenni passati, quella dell’eco lontana del «Si vis pacem, para bellum». Se dalla pace può ricominciare una speranza per le classi più sfruttate e disagiate, diamo forza alla voce della pace.

Non a chi si proclama pacifico o pacifista che sia e poi dal parlamento italiano a quello europeo è pronto a votare nuove risoluzioni per l’invio di armi tanto in Ucraina quanto in Israele… Se riuscissimo a parlare ad una parte di questo popolo nostro che ci sembra sempre meno simile a noi, avremmo dato una piccola ma significativa speranza tanto al partito della pace quanto a quello del lavoro.

Pace, terra, pane, diceva Lenin. Pace Terra Dignità, diciamo oggi.

MARCO SFERINI

4 giugno 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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