Parigi e Roma litigano sui migranti, eppure sono così simili…

Il ministro dell’interno francese Darmanin scontenta un po’ tutti: la destra di governo e la molto moderata sinistra di opposizione in una Italia che ritrova un po’ di patriottismo...
Il ministro degli interni francese, Gérald Darmanin, e la presidente del consiglio Giorgia Meloni

Il ministro dell’interno francese Darmanin scontenta un po’ tutti: la destra di governo e la molto moderata sinistra di opposizione in una Italia che ritrova un po’ di patriottismo quando le critiche piovono dall’estero, sebbene dentro il contesto dell’Unione europea.

Ma, in fondo, ha detto la verità: l’esecutivo di Giorgia Meloni non solo non è in grado di risolvere gli aspetti più disumani del fenomeno migratorio che si riversa dalla Tunisia e dalla Libia (ma pure dalle rotte mediorientali e balcaniche) sul Bel Paese, fa di peggio: fa la guerra alle ONG, toglie risorse al sistema di (dis)accoglienza e peggiora ogni norma che possa condurre ad una più facile integrazione o flusso verso altri Stati della UE dei tanti disperati che si riversano sulle coste italiane.

Ogni misura presa in questi primi sette mesi di era meloniana ha contribuito ad una regressione nell’ambito dell’economia, dell’assistenza, del sostentamento delle strutture pubbliche e dell’interazione con tutti quei canali e quelle reti sociali e solidali che si adoperano ogni giorno per distendere le tensioni, dare adito a condizioni più inclusive e meno escludenti in ogni ambito della vita quotidiana tanto degli italiani quanto dei migranti.

Tajani annulla la visita che aveva in programma a Parigi, con la sua omologa francese, e si indigna al pari di un arco parlamentare quasi coralmente unito nello stigmatizzare le parole di Darmanin.

E’ vero, est modus in rebus, e la ruggine tra Francia e Italia in materia di politica interna (che poi significa anche politica estera in questi casi…) non è certo ascrivibile alle parole poco misurate del ministro dell’interno transalpino, ma ad un raffronto tra politiche migratorie molto simili, per cui risulta difficile – indubbiamente – ascoltare (anche dai settori progressisti) la morale politica del Quai d’Orsay.

Solamente in queste ultime settimane, Parigi ha ordinato il rafforzamento numerico della gendarmerie nationale al confine con Ventimiglia, nell’intento di controllare sempre di più i passaggi frontalieri, respingendo i migranti, rimandandoli indietro, sapendo che comunque, in questo modo, non si contribuisce ad una soluzione condivisa delle problematiche sociali, politiche ed anche economiche che grandi migrazioni portano da sempre con sé nel corso della Storia.

La contradditorietà delle politiche nazionali in questo senso è veramente eclatante: la Germania, che sta sviluppando una economia che si dota delle nuove generazioni integrate nel tessuto sociale e che, proprio per questo, assiste ad un rinverdimento di posizioni socio-politiche di estrema destra, di chiaro sapore nazionalsocialista, al momento contenute e oggetto di severe critiche da parte della stragrande maggioranza dell’opionione pubblica, ha accolto negli ultimi dieci anni quasi due milioni e mezzo di migranti.

La Francia, storicamente inserita in un contesto mondiale, coloniale e con molti territori d’oltremare, quindi improntata culturalmente ad assorbire meglio i flussi di migranti, ne ha accolti, nello stesso lasso di tempo, circa un milione.

L’Italia segue a ruota con circa seicentomila, anche se – oggettivamente – per conformazione e posizione geografica al centro del Mediterraneo è il naturale grande porto di approdo di chi riesce a salvarsi dalla ferocia delle onde in tempesta, dal freddo, dalla fame, dalle percosse e dalle violenze di ogni tipo prima e durante le traversate.

Di questo l’Europa dovrebbe tenere conto, e così anche la Francia, quando si parla di gestione continentale di un fenomeno veramente globale che non è possibile ignorare e tanto meno gestire con mere misure di polizia e di repressione o con accordi internazionali, bi o trilaterali in cui si dà mano libera alle milizie dei paesi africani nella corresponsabilità del cinico rendimento economico delle tratte di veri e propri schiavi e deportati, in cambio del petriolio, del gas e di altre prebende.

I dati della Caritas sono praticamente uguali a quelli del governo di allora: l’esecutivo di unità nazionale di Mario Draghi. I dati ci riferiscono che la maggior parte dei migranti che sbarcano nel nostro Paese ne varcano nuovamente i confini per andare nei paesi nordici, ad iniziare proprio dalla Mitteleuropa, espandendo il flusso anche verso est, nonostante la guerra alle porte della UE.

Quando Gérald Darmanin accusa Giorgia Meloni di essere praticamente incapace di assolvere al proprio compito di governo nel merito delle politiche migratorie, non sbaglia una virgola.

Dovrebbe rivolgere all’esecutivo italiano una critica molto più circostanziata senza fermarsi al semplice – eppure importante – paragone tra il lepenismo xenofobo e omofobo e il conservatorismo post-fascista e fintamente nazionalista di una destra che, non appena a Palazzo Chigi, ha tenuto sul piano semplicemente ideale la sua durezza nei confronti del contenitore europeo, dell’alta finanza e dell’usuraismo delle grandi centrali del potere economico continentale.

Tra marzo e aprile c’è poca differenza, si dice. E così ve ne è molto poca tra Roma e Parigi se si guarda per un attimo all’impostazione antisociale di entrambi i governi, al trattamento che riservano tanto verso i migranti quanto verso i propri popoli costretti a subire gli effetti della crisi multipolare mentre i grandi gruppi imprenditoriali si arricchiscono e consolidano profitti fatti anche durante la pandemia, sfruttando qualunque condizionamento di massa dettato dalle necessità del momento.

Mentre Darmanin rimbrotta malamente il governo di Roma e offre alle destre di casa nostra un elemento di critica in più nei confronti di quel macronismo che è la quinta essenza del liberismo europeo in Francia, facendolo apparire grottesco e difforme dalla patinata aura istituzionale di forza democratica e sociale che pretenderebbe di avere solo per il fatto di governare l’Esagono, Palazzo Chigi appronta le misure che tagliano il reddito di cittadinanza, lo rende praticamente impossibile per decine di migliaia di fruitori che ne avrebbero veramente bisogno.

Che differenza c’è, dunque, tra la politica di Macron e quella di Meloni sul terreno della controffensiva liberista nei confronti del mondo del lavoro e delle pensioni?

Che differenza davvero passa in politica estera nel totale, incondizionato sostegno alla NATO, nel rifornimento di armi costante a Kiev, nel sostenere la necessità di una vittoria dell’Ucraina sulla Russia, nel promuovere una Europa sempre più accondiscendente al gigante statunitense? Sono tutti elementi di congiunzione tra i governi francese e italiano.

La differenza passa solamente per la negazione della visione europea, e quindi di una ricerca condivisa delle soluzioni, di contesti e grandi questioni sociali ed umane che si affacciano su un continente davvero vecchio, privo di una capacità di sintesi tanto in politica estera quanto nelle questioni prettamente interne agli Stati dell’Unione.

Certo: Macron e Meloni non si somigliano se si pensa al loro passato, alla loro provenienza, al loro approccio differente in materia di interpretazione dei conflitti di classe, delle dinamiche sociali, dei rapporti di forza.

Il primo stringe la mano senza esitazione a Washington, non disdegna di parlare con Putin per cercare di tenere aperto un canale di comunicazione che invece la Commissione europea esclude, mentre Meloni è di una scuola postfascista che strizza l’occhio ad Orbàn, che nei paesi di Visegrad ha il suo primo referente ma che, nel nome del compromesso da realpolitik, deve mettere in secondo piano se vuole governare col favore di chi davvero conta.

Si potrebbe convenire che il macronismo è sfacciatamente liberista, pur vantando una vicinanza delle proprie politiche classiste ad un popolo che lo combatte da tantissime settimane e che sciopera contro una riforma dell’età pensionabile che è il puntello di una più generale offensiva nei confronti dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati; si potrebbe, quindi, nel paragone, convenire altresì che il melonismo invece è introversamente liberista, non tanto per convinzione quanto per opportunità.

Ma, se davvero fosse così, dovremmo riflettere su un carattere sociale delle destre italiane che, in realtà, proprio non traspare dalla storia politica tanto di Alleanza Nazionale quanto del PDL o dell’alleanza di centrodestra berlusconiana prima, salviniana poi e, infine, a trazione fratellitaiana.

Nel corso degli ultimi tre decenni almeno, con qualche timido distinguo, tanto il centrosinistra quanto il suo principale competitor hanno aderito alla formula dogmatica del valore dell’impresa prima di quello del lavoro. Il resto è venuto di conseguenza: da struttura a sovrastruttura, con un processo di condizionamento inevitabile, scritto nelle leggi del mercato e del capitalismo moderno.

Compreso il piano di Minniti proprio sulle migrazioni e sulla loro regolamentazione in flussi preordinati, per scongiurare – a detta dell’ex ministro dell’interno – quell’inficiamento della “tenuta democratica” di una Italia scarnificata nei suoi bisogni fondamentali, largamente impoverita da quelle politiche che l’hanno ridotta ad essere piegata al dettame del privato, a privilegiare l’interesse particolare rispetto a quello generale e ai beni comuni.

E’ impossibile rimediari ai danni strutturalmente fatti cercando di modificare gli effetti che hanno avuto, su scala molto più che nazionale, sul piano sovrastrutturale. Tocca interpretare davvero marxianamente questi fenomeni, perché l’interdipendenza degli stessi con l’economia e gli interessi finanziari garantiti dai governi nazionali: privilegi contro diritti umani, sociali e civili.

Qui si ritrovano le contraddizioni massime che, al confronto dei rimbrottamenti di Darmanin nei confronti di Meloni, sono il vero cuore del problema dei problemi. Che si vuole evitare, che non si vuole mostrare in tutta la sua sgargiante e tremenda evidenza.

MARCO SFERINI

5 maggio 2023

foto: elaborazione propria

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