In tutte le musiche che hanno avuto, hanno o avranno anche in un futuro una qualche attinenza con il concetto di «popolo», dunque le musiche «popolari», una cosa è essenziale, e da non confondersi con la banalità della presenza ossessiva mediatica: il concetto di «divulgazione». Saper divulgare non è esser presenti su uno schermo, o non solo. Bisogna saper lasciare segni che diventano patrimonio comune. Un tempo non troppo lontano da noi, si sarebbe detto la «coscienza di classe». Perché, come ha detto Robert Wyatt, angelo comunista inchiodato su una sedia a rotelle, nella vita bisogna avere il coraggio di «stare da una parte sola», e saperlo dire.
Paolo Pietrangeli se n’è andato, a settantasei anni, e con lui se n’è andato uno degli ultimi raffinati intellettuali capaci di stare da una parte sola, di fare «divulgazione» con la musica (e non solo) e di saper stare «in mezzo al popolo». . Che significava un’adesione viscerale, e una scelta «politica» che non ammetteva compromessi, come quella, per dire, di un José Saramago, di un Chomski, di Pepe Mujica. Senza supponenza, senza il ricatto odioso del populismo schematico che invita a trovare nemici indistinti, quasi sempre in chi sta peggio di te.
Era nato a Roma nel 1945, Paolo Pietrangeli, figlio del regista cinematografico Antonio: cresce dunque in una famiglia dove l’occhio cinematografico è tutto, è motivo di discussione appassionata, una casa «aperta» dove passava la Roma culturale che contava: Ennio Flaiano, Federico Zeri che gli insegna il gusto per i calembour linguistici, Pasolini («scorbutico e affascinante»).
E molto dell’ «occhio» cinematografico, inteso come capacità di raccontare storie in immagini che si rafforzano, una sull’altra, fino a diventare un’unica storia rimarrà nelle grandi canzoni di Paolo Pietrangeli, ed avrà uno sbocco naturale nel suo lavoro successivo da regista e da scrittore. Però aveva in tasca anche una laurea in filosofia, e quell’amore per il sapere, unito all’esplosivo reagente chimico ed esistenziale della conoscenza diretta dell’ esperienza del Cantacronache di Michele Straniero, di Margot, di Italo Calvino, è per Pietrangeli un catalizzatore essenziale.
Il motivo per cui scriverà Contessa, per intendersi. Perché Paolo cresce, per usare le sue stesse parole, in un nuovo mondo in cui «prima c’era la canzonetta, ma poi c’erano anche (sconosciute, minoritarie, sepolte dimenticate, reiette sminuite, accusate di non essere culture) le canzoni di lavoro, di ribellione, di protesta , di lotta, antagoniste, subalterne, anarchiche, comuniste, socialiste, religiose…».
Ecco le parole giuste: riscoprire e reinventare, due verbi che hanno significato molto, nella vita splendidamente affollata di Pietrangeli, la scaturigine del Nuovo Canzoniere italiano, nato anche con la collaborazione del futuro premio nobel Dario Fo, e assieme a Ivan Della Mea, Giovanna Marini. Nel ‘66, è proprio a Michele Straniero che un ventunenne Paolo Pietrangeli fa ascoltare la dura poesia di desolazione di Contessa (seconda voce: Giovanna Marini)la sua canzone che diventerà una presenza costante nei cortei dei movimenti, in quello scorcio d’anni cruciali e tumultuosi, pendant ineludibile di Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei.
Contessa racconta la morte di uno studente, Paolo Rossi, avvenuta durante una occupazione all’Università di Roma: chi oggi trova datate quelle parole taglienti provi a riconsiderarla come una cronaca fatta con la telecamera a spalla, mantenendo il sangue freddo mentre intorno tutto ribolle. Dal quel lontano ‘66 ad oggi, è stato (e non poteva essere altrimenti) molte altre persone, ma le identità forti non si sfarinano.
Nel suo caso, significa mettere in conto sedici dischi spesso memorabili, quattro film da autore, moltissimi da aiuto regista, decenni da regista televisivo, e, solo apparente fanalino di coda, documentari che resteranno a testimoniare fette d’Italia da non dimenticare: ad esempio Genova. Per noi, durissima «cronaca di realtà» sulla macelleria cilena della repressione nel 2001, per il G8. Per i suoi settantacinque anni si era (e ci aveva regalato) un disco magnifico, titolo dirompente: Amore, amore, amore, amore un c…: in vinile, tanto per ricordare da dove arrivava. Pura antropologia culturale acrobatica e sarcastica su un’Italia invelenita.
Poi era arrivato, quest’anno, un thriller sagace, Tremagi e il rasoio di Occam. E chissà quante sorprese aveva ancora in serbo, il vulcanico e sempre sorridente Pietrangeli.
GUIDO FESTINESE
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