Seguiamo il Lollobrigida pensiero. Secondo il ministro dell’agricoltura un povero a volte mangia meglio di un ricco perché compera direttamente dal produttore a basso costo ed ottiene una qualità superiore.
Dunque, ricapitolando: il povero, che essendo tale non ha molti soldi, va dal produttore di una merce, di un bene messo sul mercato, avrebbe questo ad un prezzo, non si sa come, vantaggioso nel rapporto con la qualità e, pertanto, alla fine mangerebbe una, dieci, cento volte meglio di un ricco.
E’ davvero difficile stare dietro a questo contorto ragionamento del ministro. Perché, semplicemente stando alle leggi dell’economia, se uno è povero non potrà mai permettersi delle merci la cui qualità è alta. Il motivo è abbastanza facile da intuire: se un prodotto è stato creato per avere una qualità elitaria, per essere destinato ad un certo tipo di clientela, è evidente che questa qualità la si paga e anche profumatamente.
Esistono le boutique non solo per i capi di abbigliamento, ma pure per i vini, per i formaggi, per i prodotti a chilometro zero.
Mentre, per la stragrande maggioranza della popolazione, quella che non manda a fare la spesa la propria colf o i propri maggiordomi o, addirittura i propri cuochi, esiste la grande distribuzione: in alcuni supermercati si può trovare roba veramente dozzinale e di scarsissima qualità, ed è qui che si spende davvero poco; in altri invece si mantiene un livello medio e si possono trovare alternativamente sia prodotti d’eccellenza sia merci che sono raggiungibili un po’ da tutti i portafogli.
La frase del ministro Lollobrigida non è campata in aria, anche se il titolare del dicastero dell’agricoltura ci ha abituato, come molti altri colleghi dell’esecutivo Meloni, ad ascoltare tutta una serie di castronerie che meriterebbero un ripasso dei fondamentali di economia e di rapporti tra le istituzioni. Così la pensano al governo. La povertà è qualcosa di strutturale e di gestibile soltanto con ritocchi che non vadano ad incidere copiosamente sulla stabilità dei profitti e dei privilegi di classe.
La povertà non è un dramma sociale connaturato al capitalismo, è invece un dato endemico e irrisolvibile completamente. E’ una ancestralismo della Storia dell’umanità, una caratteristica imperitura dei rapporti sociali e, quindi, al massimo la si può delimitare ma non eliminare.
Combatterla prelevando ai ricchi, tassandoli magari con una patrimoniale, finanziando così una spesa che riguardi tutti i settori in cui si esprime la compiutezza dei diritti fondamentali dell’essere umano e del cittadino, dalla scuola pubblica alla sanità altrettanto tale, dalle pensioni ai salari, dalla lotta alla precarietà a quella alla disoccupazione massiva, è andare contro la natura politica ed istituzionale delle destre.
Questa destra che siede a Palazzo Chigi non ha nessuno di quei presunti e presuntuosi tratti pseudo-sociali di cui pretendeva di fregiarsi il vecchio Movimento Sociale Italiano.
I neofascisti che volevano ispirarsi alle origini del movimento mussoliniano e richiamare una qualche ragione popolare alle fondamenta del loro nazionalismo becero, spavaldo, contorto e sanguinario, non hanno mai sviluppato una politica di difesa delle masse lavoratrici che, al contrario, hanno tentato di strumentalizzare per i loro fini esclusivamente politici ed eversivi.
Il governo Meloni, al cui interno stanno esponenti di una forza politica postfascista che i conti con l’antifascismo costituzionale e repubblicano proprio non riescono a farli, non ha la benché minima intenzione di mostrarsi erede di una incultura antisociale spacciata per empatia nei confronti dei ceti popolari, del moderno proletariato ingrossato dalle schiere dei precari e dei disoccupati, degli inoccupati di lungo o medio corso.
Il governo di Giorgia Meloni è quanto di più interclassista possa trovarsi sulla miseranda piazza della politica italiana: unisce gli interessi di un ceto medio dal piglio smaccatamente egoistico che fa impresa da sé stesso e per sé stesso, senza alcuna pretesa di arricchimento cooperativistico o sociale, con una idea tutta liberista del mercato del lavoro, per cui l’impresa è al centro della produzione della ricchezza nazionale ed i salariati ne sono la indiscutibile variabile dipendente.
Poco meno di un anno fa, ai primi di dicembre del 2022, quindi appena insediatosi il suo esecutivo, la Presidente del Consiglio affermava: «Il lavoro ti può portare ovunque, mentre il reddito di cittadinanza ti lascia dove sei. E noi abbiamo scelto di credere nell’Italia e negli italiani».
Il lavoro ti può portare ovunque se lo Stato lo sostiene. Ma se, invece per “lavoro” si intende non uno sviluppo che parta da una riorganizzazione del mondo salariato, bensì una ridefinizione dei compiti indiscriminati delle imprese per ottenere maggiori profitti a sempre minori costi, allora il lavoro è quella leva dello sfruttamento cui non si vuole mettere un freno.
L’abolizione del Reddito di cittadinanza, l’unica vera misura sociale di questi ultimi decenni di spietato liberismo portato avanti dai governi con la solerzia dei bravi guardiani dei privilegi tanto della classe padronale quanto di quella dei finanzieri e dei grandi speculatori bancari, è la cartina di tornasole della concezione statalista di una economia del tutto privata e per niente rivolta al potenziamento del pubblico.
Mentre scriviamo queste righe, già da quello che si preannuncia per la manovra finanziaria del prossimo autunno, le spese militari verranno incrementate ulteriormente (toccano picchi già di 26,5 miliardi di euro annui, circa 800 milioni di euro in più rispetto al rapporto 2021-2022), mentre per il comparto sanitario non vi saranno variazioni positive di rilievo.
Quando Giorgia Meloni e i suoi ministri sostengono di voler risolvere i problemi sociali dell’Italia intera con interventi riformatori che compensino il divario tra classi agiate e classi povere e poverissime, non hanno in mente nessuna politica strutturale da mettere in campo insieme alla parte sindacale, alle organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Il loro punto di riferimento è, sempre e soltanto, la stabilità delle imprese e non quella del salario.
Le dichiarazioni di guerra al salario minimo, del resto, sono – al pari dell’abolizione del Reddito di cittadinanza – la ulteriore dimostrazione dell’antisocialità di un esecutivo che ha una impronta nazionalista che, come si conviene a questa tradizione fintamente protezionista degli interessi di tutto un popolo, si adegua facilmente alle compatibilità internazionali ed è pronta a riversare sull’Italia tutte le conseguenze dei dettami economico-finanziari della BCE e del FMI.
Se il governo Draghi aveva creato delle premesse per una espansione economica in cui, come era ovvio, non trovavano posto i salari e le pensioni, ma si era ben guardato dall’intervenire su misure come il Reddito di cittadinanza per evitare delle sollevazioni davvero di classe (molto poco coscienti di esserlo), Meloni, Lollobrigida e Giorgetti sembrano non avere dubbi: la nuova manovra di bilancio dovrà essere improntata all’insegna dell’austerità.
Le parole del ministro dell’agricoltura sono il contorno delirante di una impietosa antianalisi sulla condizione sociale del Paese. Verrebbe da sorridere per davvero se non si trattasse di un tema che ci riguarda tutti quanti, a parte quei ricchi che Lollobrigida cita di striscio e che riduce a dei poveri sciagurati che non sanno nemmeno scegliersi bene il cibo da consumare.
La questione, al di là delle battute che possono venire in mente per celiare un po’, è di una gravità inaudita. La leggerezza con cui il governo si appresta ad affrontare il tutto lo è ancora di più. Non è possibile pensare di legare la tenuta del sistema pensionistico al quadro di progressiva denatalità del Paese. Ci si può giustamente preoccupare che si facciano sempre meno figli, ma ci si deve interrogare sul perché questo avviene.
E se la risposta è che bisogna «sostenere la crescita», partendo quindi dal solo punto di vista dell’impresa, allora è già una risposta sbagliata di per sé. Perché non parte dalla radice del problema, ma dal più alto dei rami che viene visto come lo splendore di una pianta alla cui base sta solamente tanta, troppa debolezza.
In Italia lo 0,13% della popolazione detiene una ricchezza pari a quella del 60% più povero dell’intera nazione. Questa piccolissima, infinitesima percentuale di persone ha dei redditi da capogiro che non vengono tassati secondo una progressività fiscale adeguata, mentre il lavoro salariato è – in paragone – ultra vessato dal fisco.
A sostenere lo sforzo pensionistico generale basterebbero le tasse sui grandi, enormi capitali che queste famiglie di imprenditori mantengono senza dovere al Paese più di tanto.
Sono loro, secondo il governo Meloni, il fulcro, il perno forte attorno a cui ruota tutta la ricchezza dello Stivale. Peccato che se la tengano ben stretta e che Palazzo Chigi gli permetta di non sborsare all’erario più di tanto, mentre per lavoratori, precari, disoccupati, studenti, casalinghe e pensionati arrivare a metà del mese è già una gran fatica.
Un chilo di pasta non ha lo stesso valore per un ricchissimo e per un poverissimo. E non pesa nemmeno allo stesso modo. Perché il ricco può permettersi anche di sprecarlo quel cibo. Chi a fatica mette in tavola pranzo e cena ogni giorno, non può proprio farlo.
Ha idea il ministro Lollobrigida di quanto costino gli articoli, le derrate, i manufatti che si acquistano direttamente dalle aziende, dalle ditte o dalle famiglie che li producono?
Non costano meno di quelli che si trovano nella grande distribuzione. Proprio perché saltano una filiera che tende a svilirne la qualità, ciò che si compera all’origine della produzione, che è genuino e non sofisticato, costa sempre un po’ di più di quello che artigianale non è e che, invece, proviene dal processo di commercializzazione si vasta scala.
L’impressione che se ne ha è di un totale scollamento tra la visione (anti)sociale del governo e la società stessa in cui dovrebbe operare. Di una non consapevolezza di quello che accade, di come si vive nelle famiglie e nei nuclei sociali dove il disagio è maggiore.
La povertà cresce, aumenta allo stesso modo in cui, diminuiscono i servizi sociali, le garanzie e le tutele. Che non sono privilegi, ma diritti che ogni giorno diventano sempre meno supportati da capitoli di spesa delle finanziarie dei governi che dirottano i soldi sull’industria delle armi, sulle grandi opere che impattano contro la già precaria insostenibilità ambientale da Nord a Sud.
Il disastro sociale è figlio della spontanea propensione delle destre oggi, dei governi tecnici ed anche di centrosinistra ieri, ad essere la longa manus (per niente invisibile) del mercato nelle nostre vite, fin dentro i meandri più reconditi, fino a toccare le corde essenziali per la sopravvivenza, per una essenzialità che viene resa ininfluente nel contesto globale.
Panem et circenses. Questo si aspettano da noi. Che guardiano il grande spettacolo e ci accontentiamo della pagnotta piena di fiele e di molta poca fantasia.
MARCO SFERINI
25 agosto 2023
foto: screenshot ed elaborazione propria