Pakhshan Azizi, nel nome della libertà dei popoli

Cecilia Sala è riuscita ad uscire dall’inferno della prigione di Evin ed è sana e salva in terra democratica (almeno formalmente ancora tale nonostante il governo che, pure, in...

Cecilia Sala è riuscita ad uscire dall’inferno della prigione di Evin ed è sana e salva in terra democratica (almeno formalmente ancora tale nonostante il governo che, pure, in questa emergenza, si è distinto per solerzia e alacrità). Lei stessa, al suo ritorno in Italia, ha ricordato quante siano le donne ancora detenute nelle carceri del regime degli ayatollah.

Quante lo siano senza aver violato nessuna legge universale ma, semplicemente (e si fa per dire…), per aver trasgredito, anche involontariamente, alle ferree leggi di una teocrazia brutale, di un regime che pone la femminilità in subordinazione ad una presunta volontà divina che, altrimenti, niente altro è se non la spietata affermazione del patriarcalismo.

Un nome fa da eco oggi alle tante anonime presenze ad Evin e in altri malsanissimi bagni penali della Repubblica islamica: Pakhshan Azizi, quarant’anni, nata a Mahabad, città del Kurdistan iraniano, a poche decine di chilometri dal confine con l’Iraq, è una attivista per i diritti umani, arrestata il 4 agosto 2023 e gettata nel reparto 209 del carcere di Evin, in completo isolamento.

Dopo essere stata picchiata, torturata e privata dell’assistenza legale, è stata trasferita nel reparto femminile della famigerata prigione. Secondo il Ministero dell’Intelligence di Teheran sarebbe legata a gruppi di opposizione curda e, quindi, imputabile di “ribellione armata contro lo Stato“. Dopo una serie di processi farsa, degni di un regime autoritario, Pakhshan è stata condannata a morte.

Amnesty International ritiene l’iter giudiziario profondamente iniquo, garante delle minime garanzie processuali per l’imputata: in pratica una parodia della giustizia, dove l’accusa deve per forza avere ragione e la difesa si vede negare qualunque strumento per poter dimostrare l’innocenza della propria assistita.

Ora Paskhshan si è vista respingere i ricorsi presentati alla Corte suprema e ha innanzi a sé la sentenza definitiva della propria condanna a morte. Il tutto appare sempre più come una ritorsione e un monito per le rivolte scoppiate nel settembre del 2022, quando, dopo la morte di Mahsa Amini, il mondo poté rendersi conto che il malcontento verso il regime di Khamenei stava provando a fare un salto di qualità.

La paura non era più un deterrente sufficiente per fermare le ribellioni che sfidavano il governo in ogni città e che duravano e si rinforzavano di giorno in giorno. È probabile che allora gli ayatollah abbiano temuto che la rivolta potesse saldarsi con un interesse geopolitico esterno e che, in una certa eterogenesi dei fini, il loro potere fosse a quel punto davvero traballante e in pericolo.

In quella fase di turbolenze ingestibili, l’atteggiamento dei Guardiani della Rivoluzione e dei più intransigenti custori del khomeinismo e della sacralità islamica della repubblica fu l’evitamento di una repressione che, invece, avremmo potuto immaginare come ferocissima ritorsione. Gli animi vennero fatti calmare senza dare adito ad altri motivi perché si esacerbassero.

La protesta si sgonfiò, seppure non così velocemente, e tutto parve tornare più o meno sotto controllo. Ma questi regimi temono sempre gli esempi lungimiranti, quelli che lasciano il segno perché dimostrano, anche e soprattutto con azioni semplici e, quindi, profondamente umane, che una società differente è possibile e che le minoranze non sono un fastidioso accidente da reprimere, a cui togliere tutti i diritti e lasciar morire in una inedia di sopravvivenza esistenziale che non è poi molto distante dalla vera e propria tortura.

L’Iran è un paese in cui la pena di morte viene comminata per reati contro lo Stato, così come per possesso di droga o per rapporti giudicati contrari alle leggi coraniche: omosessualità in primis.

Si legge nel codice penale: «Sono puniti con la pena di morte coloro che, raggiunta l’età adulta, compiono atti “sodomitici” per la quarta volta consecutiva». Non va meglio nemmeno agli eterosessuali che, colti in flagranza di adulterio, sono passibili pure loro della forca. Ma c’è una differenziazione non di poco conto per le persone LGBTQIA+: se nell’atto omosessuale eserciti il ruolo passivo, ti tocca soltanto la morte; se invece sei attivo puoi “cavartela” con un centinaio di frustate…

Dunque, se tu aiuti i curdi a fare una vita meno grama, sei punito con la pena capitale perché ritengono che tu stia attentato alla sicurezza della Repubblica; se ti baci, abbracci e fai l’amore con un uomo e sei un uomo in casa tua o sua, pur non essendo un pericolo per il regime, sei comunque degno di pendere da un cappio penzolante da un braccio di una gru issato in una piazza piena di gente, riunita lì come monito.

Pakhshan Azizi, al pari e, naturalmente, con motivazioni molto diverse (ammesso che si possa parlare di reali motivazioni…), di sei prigionieri politici appartenenti ai Mojahedin del Popolo iraniano (una organizzazione socialista e nazionalista araba, dunque anti-teocratica), ha davanti a sé soltanto il patibolo.

Il punto è questo: non c’è in Iran nessuna autorità di garanzia che valuti indipendentemente dal potere politico i casi che sono sottoposti al vaglio della magistratura che, ovviamente, è politicizzata e dipendente dall’esecutivo e dalla Guida Suprema Alì Khamenei.

Pakhshan e i sei compagni socialisti moriranno perché hanno, con metodi differenti, cercato una alternativa a politiche che mortificano la gente comune, che reprimono le minoranze, che non tollerano nessun’altra idea o credo religioso se non quello islamico e piegano il Corano ad una lettura auto-teocratica schematizzando, banalizzando e generalizzando al punto da far apparire l’Islam una religione molto più intollerante di altre.

Connaturato all’assolutismo del credere fideisticamente, quindi del non ammettere altra verità se non quella proclamata dal culto cui si aderisce (o si è indotti ad aderire), è il potere in quanto tale. Gli ayatollah utilizzano ancora più oggi l’elemento religioso per fare presa su una popolazione del cui consenso hanno urgente bisogno per fronteggiare la flessione importante dell’asse di un impero neo-persiano dalle lande limitrofe ai limiti del mondo conosciuto dal grande Alessandro fino alle sponde già fenicie ed ittite del Mediterraneo.

La guerra di Gaza e del Libano, la rivolta siriana e la prevalenza di forze opposte a quelle tutelate e protette dalla Repubblica islamica di Khamenei (Hamas, Hezbollah, Pasdaran impegnati direttamente in Siria e in Iraq), hanno messo in straordinaria evidenza la debolezza anzitutto militare di un regime che non può, comunque la si possa vedere, rappresentare una alternativa all’imperialismo tanto nordatlantico quanto israeliano.

La sfera di influenza iraniana, che comprende l’Afghanistan dei Taliban e una parte del ginepraio iracheno, è internamente minacciata da una serie di separatismi definiti “latenti” dai più acuti analisti delle questioni mediorientali: questo perché la repressione khameinista è un discrimine potente, fondato su un apparato militare non di poco conto e, nemmeno a dirlo, fedelissimo tanto al governo quanto all’ispirazione teocratica che lo uniforma a sé stesso.

Vite come quella di Pakhshan e di tanti altri operatori umanitari, molto lontani nella loro azione critica nei confronti di Teheran rispetto a quelli che potremmo definire i “classici oppositori politici“, non sono nemmeno più appese ad un filo della speranza perché l’impermeabilità delle istituzioni iraniane è qualcosa di veramente oltre il pesante fardello del sacro disumano che viene applicato là dove Dio serve per giustificare qualunque azione di preservazione di privilegi: di casta, di governo, di presunzione perfino teologica. Quantunque la teologia sia, di per sé, indotta in questa direzione.

Cosa possiamo fare noi per aiutare le donne e gli uomini iraniani condannati a morte, reclusi nelle carceri come Evin, gettati nel fondo mefiticamente nero degli angoli più reconditi della disumanità nel nome, ufficialmente, della Legge di Dio? Molto poco.

Possiamo aderire ad appelli, promuovere campagne e far vivere i loro nomi oltre la loro morte, affinché ci si ricordi di come la vita valga così poco per questi falsi uomini di fede che terrorizzano un popolo, che spendono milioni di dollari per il raggiungimento del progetto nucleare ma che non sono, pur facendo parte dei BRICS, una alternativa credibile al regime imperialista e iperliberista che sta dall’altra parte.

E che, se si dà uno sguardo alla cieca fede in Dio di Trump, Musk e compagnia cantando, non è poi così differente nel confermare che i peggiori regimi autoritari, soprattutto nel nome delle loro intrinseche libertà, tradizioni e costumi, non fanno altro se non vincolare la propria sopravvivenza al potere al dualismo economico-istituzionale, lì dove lo Stato viene messo al servizio esplicito del capitale nella Repubblica a stelle e strisce e dove, invece, viene messo al servizio dei potentati teocratici in Iran che, non di meno, rappresentano l’élite finanziaria che li sorregge.

La lotta per la detronizzazione tanto dei Khamenei quanto dei Trump, dei Putin e degli alfieri della NATO in ogni dove, Zelens’kyj compreso, passa per una alternativa drastica a tutto questo: struttura economica e sovrastrutture anche ideali e religiose non possono essere disgiunte; per questo l’anticapitalismo moderno deve mettere prima di tutto sotto gli occhi dei miliardi di sfruttate e sfruttati l’emergenza climatica, ambientale come rapida conseguenza delle azioni dei governi e delle classi dirigenti.

Un discorso che possiamo fare qui, a margine e al termine di queste righe, ma che naturalmente è lontano dall’urgenza di intervento in un Iran in cui i diritti umani fondamentali e più elementari (che poi sono sempre quelli più importanti) sono completamente ignorati, vilipesi e rimandati al mittente di un Occidente che appare per quello che è: non una alternativa alle dittature e ai regimi teocratici, ma la conferma di una diversa declinazione dell’autoritarismo stesso, sotto l’egida della finta libertà del capitale e dell’altrettanto finto benessere (anti)sociale.

Le vite di Pakhshan sarebbero molto più difendibili se, in questa parte di mondo in cui noi viviamo, davvero noi fossimo una vera alterità rispetto alla saldatura tra capitalismo e oligarchie da un lato, mercato ed auto-teocrazie dall’altro. L’Iran di Khamenei teme tanto i sogni unipolari a stelle e strisce quanto la libertà dei popoli. Ed è per questo che non può essere un esempio di anti-imperialismo per nessuna sinistra, per nessun anticapitalismo degno di questo nome.

MARCO SFERINI

14 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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