Nei vecchi atlanti storici, dove la cura per le carte era davvero certosina, i confini settentrionali ed orientale dell’Italia sono stati colorati ed evidenziati in modo tale da dare la percezione, nello scorrere del tempo e, quindi, delle tavole che riproducevano i mutamenti politici intervenuti nella Penisola, che la barriera naturale delle Alpi fosse l’unico, vero limite della Nazione.
Ducato di Savoia prima e Regno di Sardegna poi, Ducato di Milano e Serenissima Repubblica di Venezia prima e Regno Lombardo-Veneto poi, si sono avvicinati a quei confini naturali e, in alcuni casi, come per le contee di Nizza e Savoia, li hanno addirittura oltrepassati.
La storia risorgimentale italiana ha, passo dopo passo, messo le cose a posto e ha fatto coincidere la corona montuosa alpestre con i desiderata politici e nazionali di un Paese che solo agli inizi del ‘900 iniziava a riconoscersi in quanto tale, dopo una unità raggiunta con oltre mezzo secolo di lotte, rivoluzioni e conquiste avventurose di repubbliche e regni.
Mentre, però, il confine nord-occidentale del Paese si andava stabilizzando e, solo dopo la Seconda guerra mondiale, subiva piccoli ritocchi a favore della Francia come gesti riparatori per l’aggressione subita durante il conflitto e le arbitrarie annessioni operate dal fascismo, il confine orientale ho avuto un destino molto differente
Espansioni territoriali e contrazioni delle stesse si sono susseguite dal 1866 fino al 1957, se si tiene conto degli ultimi aggiustamenti riguardanti la striscia triestina. L’importanza di questo destino a fisarmonica non è secondaria nella vicenda che riguarda la tragedia delle foibe che sono una particolarità socio-politico-storica tutta giuliano-istriana.
La centralità del dilemma confinario è perpendicolare rispetto al tema della stanzialità delle comunità che, per secoli e secoli, si sono incrociate in una terra di incontro tra popoli molto diversi fra loro: italiani, sloveni, tedeschi, serbi, croati e bosniaci, perfino ungheresi e slovacchi sono transitati per quel grande approdo sull’Adriatico che era Trieste, il principale porto dell’Impero asburgico.
Per oltre mille anni gli unici scontri, per così dire “etnici“, si sono avuti a causa della rivalità commerciale sui mari e a causa della voglia espansionista tanto degli Asburgo quanto dei sultani ottomani, ammantata da un lato dalla benedizione neocrociata del potere temporale dei papi, dall’altro dalla sacra difesa dell’Islam dagli infedeli cristiani.
Impero d’Austria e Sublime Porta ereditano il multnietnicismo di altre grandi aggregazioni politico-statali che hanno troneggiato sull’Europa e sul Medio Oriente: tutte quante più o meno capaci di ispirarsi all’amministrazione imperiale romana che aveva saputo tenere insieme popoli tra i più disparati: dal Vallo di Adriano all’Impero partico, dalla Germania ribelle alle terre dove stavano i leoni e, quindi, si evitava accuratamente di avventurarsi.
La disgregazione dei grandi imperi ha trascinato con sé anche quell’idea di convivenza che, seppure imposta piuttosto che proposta, in un certo qual modo aveva anestetizzato le tensioni interetniche e rallentato la, comunque inevitabile, crescita dei nazionalismi un po’ in tutta Europa e, non da ultimo, anche nelle regioni dove un tempo fiorivano i giardini pensili babilonesi.
Claudia Cernigoi, nell’affrontare il problema storico, politico e sociologico delle foibe, svela la semplicità che, a volte, è difficile a vedersi in periodi del passato, ma soprattutto del presente, quando si viene distratti da una propaganda revisionista che altera i fatti, li relega in secondo piano e crea appunto un conflitto permanente tra storia e mito.
Il suo “Operazione ‘Foibe’” non potrebbe essere altrimenti illuminante riguardo un corso degli eventi che devono essere distinti per l’appunto dalla propaganda se vogliono poter venire esaminati nella loro essenzialità, partendo dalla genesi del problema interetnico giuliano-dalmata che prende il via nel momento in cui i nazionalismi sovrastano le tante contraddizioni di poteri centralisti e di sempre più anacronistiche dinastie travolte inevitabilmente (come avrebbe ben notato Gramsci) dalla guerra.
Il 10 febbraio di ogni anno si celebra la “Giornata del Ricordo” che, a differenza di quella “della Memoria“, seguendo l’intento del tutto strumentalmente politico con cui è stata creata, si riferisce esclusivamente alle vittime delle foibe e che, più che biasimare le atrocità della guerra e contestualizzare il tutto dentro questo grande, terribile passaggio storico, finisce con l’essere un atto di accusa unidirezionale verso i partigiani comunisti jugoslavi e, di riflesso, verso quelli italiani che hanno operato nella zona del Carso, della Venezia Giulia e dell’Istria dal 1943 in poi.
Nella “Giornata del Ricordo“, è curioso, tutto si ricorda tranne il contesto storico, politico e sociale in cui gli odi e gli asti iniziarono a sedimentarsi nelle terre cosiddette “irredente” per parte italiana ben prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale e quel confine orientale diventasse un campo di battaglia dove riconoscere il proprio nemico era difficile quanto riconoscere il proprio amico.
Non solo la linea del confine mutava a seconda delle conquiste nazionaliste, fuoriuscite completamente nel corso della storia con l’inizio della Grande guerra, ma la distribuzione della popolazione era continuamente sottoposta a cambiamenti che imponevano ora una lingua parlata e scritta piuttosto che un’altra, ora una cultura religiosa a dispetto di un’altra ancora.
Il tutto, si intende, secondo un principio di maggioranza irrispettoso delle minoranze. Per cui si potrebbe tranquillamente parlare di imperialismo politico (ed economico) e di una vera e propria “aggressione culturale” che, eccellenza negativa tra le altre, il fascismo impose alle popolazioni slave ritrovatesi in terra italiana dopo il Trattato di Rapallo.
Capire la tragedia delle foibe è necessario, ma per farlo occorre contestualizzarla e quindi andare indietro nel tempo, calarsi nell’assurdità di quel presente in cui morirono migliaia di persone (la battaglia delle cifre è un’altra cinica operazione revisionista che non smette mai di artigliare la verità storica) e scoprire così, certe volte, la semplificazione e la sintesi sono ingannevoli, soprattutto se vengono utilizzate per capovolgere quei fatti che hanno la testa così dura da non poter essere ribaltati.
I nazionalismi – ci invita a riflettere Claudia Cernigoi – furono il brodo di coltura di violenze e guerre, di invenzioni razziste, di derive xenofobe che furono trasversali, che interessarono tutte le parti: al di qua e al di là del confine orientale italo-sloveno-croato.
La ricerca storico-giornalistica che è alla base di “Operazione ‘Foibe’ tra storia e mito’” è un lavoro puntiglioso e provocante, seducente al punto tale da volerne sapere sempre di più. Parlano i testimoni, parlano le fonti, parlano i documenti degli archivi di Stato di Trieste, di Roma. Parla una storia di cui si è tentato lo svilimento nella reductio ad unum, umiliandola in un riduzionismo che è stato smascherato perché ha preteso di sostituirsi interamente alla fattualità e alla verità oggettiva di quel che avvenne nell’Istria della guerra e del dopoguerra.
Gli ultimi tentativi di revisionismo hanno riguardato non solamente singoli episodi, luoghi (come Basovizza, la foiba “Plutone“…) ma storie personali divenute persino film della peggiore propaganda neonazionalista di nuova generazione. Il tutto per dimostrare che i “rossi“, i partigiani del maresciallo Tito, non avevano delle semplici mire di liberazione delle terre jugoslave dal nazifascismo, ma un preciso intento razziale nell’epurazione delle popolazioni istriano-dalmate di lingua italiana.
La mitizzazione è servita. Ed è servita così bene che, nei racconti revisionisti, pare quasi dimenticarsi che tutto attorno là, proprio in quelle terre italianizzate a forza dal fascismo e divenute nell’ultima fase della guerra la “Operationszone Adriatisches Küstenland” (“Zona di operazioni del litorale adriatico“, annessa al Reich della Grande Germania insieme al Trentino Alto Adige e alla provincia di Belluno), lo scontro bellico ha coinvolto le singole comunità, persino le famiglie, con faide che si sono consumate a seguito di vendette che sono seguite ad altre vendette.
Per decenni gli slavi sono stati depersonalizzati, obbligati a non esprimersi nella loro lingua madre, a dover usare quella di una nazione che gli era completamente estranea anche per usi e costumi. Dal più che formale rispetto asburgico per le minoranze nazionali si è passati, dopo il primo conflitto mondiale, ad una colonizzazione brutale, impregnata di revanchismi, di violenza costante, di imposizioni e repressioni.
Eppure le vittime delle foibe, nonostante tutto questo, non sono state soltanto l’ultimo tragico epilogo ci un odio ancestrale proveniente da molto tempo prima della liberazione partigiana della Jugoslavia. Quelle vittime sono quasi tutte state causate, direttamente o indirettamente, dal totalitarismo fascista. Senza l’occupazione italiana della Slovenia e di una parte della Croazia, è probabile che le vendette sarebbero state molte meno.
Ma purtroppo (o per fortuna) la Storia non si fa con i condizionali e nemmeno con i se e con i ma. Così, possiamo sapere la verità su quanto accadde, per evitare che tragedie simili, dentro il grande olocausto della guerra, siano evitate e, proprio laddove i confini si incontrano e tendono a scontrarsi i popoli, si possa trovare quel punto di incontro che abbatta le barriere e che permetta a chi parla lingue diverse di comprendersi con l’universale linguaggio della condivisione dei bisogni, delle libertà e dello sviluppo sociale. Di tutte e di tutti.
OPERAZIONE FOIBE TRA STORIA E MITO
CLAUDIA CERNIGOI
KAPPA VU EDIZIONI
€ 18,00
MARCO SFERINI
2 febbraio 2022