Non è affatto facile districarsi nell’afastellamento di norme che si susseguono in lassi di tempo brevissimi: il DPCM varato appena due giorni fa è già anacronistico, superato dalla celerità con cui i nuovi contagi da Covid19 si sviluppano e, soprattutto, dal numero di attualmente positivi che è poi il vero indicatore dell’allargarsi della pandemia in quella che oramai un po’ tutti definiscono come “la seconda ondata“.
Le regole possono anche contraddirsi, implementarsi o depennarsi a vicenda; per questo andrebbe apprezzato lo spirito civico che uniforma i comportamenti dei cittadini spinti certamente in larga parte dall’osservanza delle norme, ma soprattutto dalla ratio che le ha generate e che oggi è visibile pur essendo invisibile, poiché il giustificato timore di essere contagiati dal coronavirus disegna i contorni precisi dello spettro che si aggira per il mondo e che ci sta accanto.
Lo tratteggiano le parole dei virologi, lo descrivono quelle dei commentatori e dei giornalisti, lo enfatizzano o lo minimizzano – a seconda del senso di responsabilità e delle convenienze elettoralistico-politiche – i rappresentanti dei partiti e dei movimenti tanto di governo quanto di opposizione.
Di per sé il decreto del Presidente del Consiglio ha valore legale, su tutto il territorio della Repubblica; è la legge emergenziale e tale rimane. Ma quando la norma diventa di difficile comprensione o di difficile applicazione, visto che non esiste una correlazione tra tempi dell’emanazione dei divieti e dei comportamenti da tenere per limitare l’espandersi del virus e i tempi stessi del patogeno che si diffonde molto più rapidamente, allora ecco che l’autogestione personale diviene preziosa se si uniforma alle regole create per il benessere comune.
Ancora di più, i comportamenti virtuosi dei cittadini divengono una ricchezza sociale se tutto parte dalla presa di consapevolezza libera e cosciente dell’individuo che sa, comportandosi in tal modo, di contribuire ad un rafforzamento dell’esempio che serve a dimostrare come non vi sia poi bisogno di molte leggi per indurre al buon senso. Occorre il buon senso stesso, semplice, netto, diretto e tutto d’un pezzo.
Se i DPCM possono essere considerati una sorta di termometro socio-politico dell’espandersi della pandemia, i singoli comportamenti dei cittadini hanno un valore enorme se improntati tanto alla tutela personale quanto a quella collettiva. Inutile nasconderci che senza una buona dose di paura, attribuibile esclusivamente al Covid-19, tanti virtuosismi non si riscontrerebbero nel consesso civile quotidiano. Ma è sempre preferibile che si arrivi al reciproco rispetto da fenomeni extra legem piuttosto che da imposizioni da parte dello Stato.
Non credo sia una questione rubricabile alla voce “autodisciplina“: suona male, perché la disciplina è il “dominio di sé stessi“, è il reprimersi piuttosto che il volere mettere in pratica un comportamento utile tanto a sé medesimi quanto agli altri che ci sono limitrofi ogni giorno. Ed è per questo che, nonostante tutti i guai che ci procura, la pandemia mette alla prova la nostra capacità di responsabilizzazione, di riscoperta del bene comune supremo – la salute – che non è svincolabile dal contesto largo rappresentato dalla massa popolare e nemmeno da ambiti più ristretti come quelli familiari.
Il richiamo alla autogestione dei comportamenti che abbiamo dovuto modificare in questo 2020 è una maturazione dello status di cittadino da un individualismo esasperato dalla logica del mercato, dal rampantismo antisociale e dall’arrivismo a tutti i costi verso una nuova concezione sociale della persona, dell’essere umano, prima di tutto.
Disgraziatamente tocca affermare che, senza questa sopravvivenza sul filo della paura giornaliera di essere infettati dal Covid-19, è molto probabile che tornerebbe a far presa il caustico menefreghismo italico figlio del “si salvi chi può” nell’era del liberismo sfrenato che costringe ad un sovradimensionamento di quella intrinseca forma di egoismo che reprimiamo in relazione all’andamento della curva non del virus ma della sopravvivenza cui si è condannati da contratti precari, neo-schiavistici, mentre il nemico è sempre riscontrato nell’orizzontalità sociale e mai nella verticalità di classe.
L’indossare correttamente la mascherina, calzandola per bene su naso e bocca; il lavarsi accuratamente le mani ogni volta che è necessario, nonché il tenere le opportune distanze, sono ormai parte di una vita che si è modificata per sempre. Nulla tornerà più come prima e non è detto che sia un male. L’effetto apotropaico, un po’ da pensiero magico, che indirettamente hanno tutti questi riti scientificamente provati, serve a sostenerci pure psicologicamente: mente e corpo non sono divisibili, è quindi giusto curare il secondo senza trascurare la prima.
Ma la “mens sana in corpore sano” è guastata dal succedersi senza sosta di normative che rischiano di creare più danno del bene che possono fare al Paese: vero è che è quasi impossibile commistionare una buona gestione della pandemia mentre la pandemia ci precede sempre e ci spinge a rincorrerla.
Vero è altresì che tutta la fase del periodo estivo è stata utilizzata per acquietare gli animi dei proprietari dei bagni marini, delle grandi catene di ristorazioni e delle discoteche: queste ultime aperte fino al ferragosto incluso, poi chiuse in tutta fretta. Un ossequio al primato dell’economia su quello della salute. Il ricatto occupazionale al tempo del coronavirus inizia anche da qui: se non ci permettete di “far muovere l’economia” (è la frase magica che viene sempre presa a prestito in questi frangenti) dovremo licenziare.
Sarebbe interessante verificare se, una volta scomparsa la pandemia, i gestori delle discoteche o di grandi impianti balneari e catene di ristoranti e fast-food assumeranno i lavoratori con tutte quelle garanzie di stabilità che oggi dicono di non poter mettere in pratica visto il permanere dell’emergenza sanitaria. Siccome la risposta di Confindustria già la si conosce e ispira la filosofia del libero licenziamento legato alle fluttuazioni del mercato, mentre si ricercano sempre risorse pubbliche per coprire gli ammanchi derivati da gestioni private prive di qualunque scrupolo, non è difficile immaginare quale sarebbe l’altra risposta: quella delle piccole e medie imprese.
In un contesto così difficile, di ridefinizione generale della vita di ognuno e di tutti, mentre la celebrazione della tutela dei privilegi di classe rimane tutta quanta ai padroni, il fatto che gran parte della popolazione, soprattutto quella più fragile, debole, preda delle discrepanze tra diritti sociali sanciti e diritti sociali creati, provi a darsi una regola comune mentre le regole sono in fase di continua riscrittura e si autogestisca mediante la presa di coscienza dell’appartenenza ad una comunità piuttosto che come monadi di una realtà già ampiamente atomizzata in ogni momento della vita, è qualificante.
E’ la sconfitta del negazionismo e del riduzionismo della pericolosità del virus in quanto tale; è la debacle delle tentazione autoritaria ricercata attraverso l’esasperazione delle paure che vengono invece incanalate in una coscienza civile che è civica, che è l’essenza della Repubblica intesa come res publica, come qualcosa di veramente comune in quanto pubblico.
Si potrebbe quasi affermare che ci troviamo davanti ad una espressione di religione civile del Paese, che ha pure bisogno delle leggi per disciplinarsi (qui sì, purtroppo, si deve includere anche il concetto di “repressione“, laddove viene violata la legge), ma che prima di tutto fa affidamento sul contegno di ognuno di noi e sulla condotta che ne consegue.
Non credo che, se non al di fuori del sistema capitalistico, oltre il regime delle merci, del profitto e dell’egoismo proprietario, possa verificarsi una progressiva evoluzione in questo senso. Ma sapere che in potenza tutto ciò esiste, permette di non perdere del tutto le speranze nel riscatto dell’umanità dalla schiavitù del lavoro salariato.
MARCO SFERINI
17 ottobre 2020
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