Tre euro. Dieci centesimi al giorno. A tanto ammonta l’aumento delle pensioni minime, per quasi due milioni di persone. Ed i precari? Nessuna previsione nemmeno lontana di creazione di un fondo pensionistico che li metta a tutela una volta raggiunta l’età dell’uscita dal (si fa per dire) mondo del lavoro. La magnanima finanziaria del governo, inoltre, non prevede assunzioni e implementazioni di organici per la sanità pubblica e, quindi, le liste di attesa aumenteranno. Loro sì. Tutto il resto no.
Lo scenario impietoso, oltretutto, andrà spalmato su una triennalità che, quindi, almeno per i prossimi sette anni prevede l’applicazione dei parametri europei con una messa a terra del modello di austerità economica di diretta ispirazione francofortiana. Sul fronte della scuola c’è un blocco del cosiddetto “turn over“, mentre cala la mannaia dei tagli anche su insegnanti ed ausiliari.
In Italia, però, il dibattito politico e sociale verte sul trasferimento di una decina e poco più di migranti nei centri di detenzione in Albania. Una pubblicità ingannevole e regressiva, altro che progresso sociale, civile, culturale e morale. Un cinico gioco di specchi riflettenti una realtà che imbarbarisce giorno dopo giorno, sotto il peso di un istituzionalismo che prescinde dalla Costituzione e in cui il governo fa la parte del leone, del re di una foresta in cui le altri componenti dello Stato devono seguire la rotta tracciata da Palazzo Chigi.
Il fatto che a sinistra, nella sinistra di alternativa, non ci si accorga della gravità di questa fase è l’emblema di tutta l’insufficienza analitica degli ultimi anni, nonostante l’impegno e l’abnegazione di tante compagne e di tanti compagni. Per qualche lustro ci siamo un po’ tutto persuasi che non esistesse più distinzione alcuna tra destre e forze che, obiettivamente, abituati alla parabola meteorica del renzismo (durata fin troppo…), era difficile appellare come “progressiste“.
Poi i rapporti politici sono cambiati, perché la crisi economica, la Covid19 e la torsione bellica hanno formato un trittico che ha delineato una differente evo-involuzione sul piano internazionale. In Europa la sinistra di alternativa ha dovuto fare i conti con una sinistra moderata incapace di governare su piattaforme riformiste e, per questo, inefficace sul terreno dell’offerta di una sponda sociale sul piano istituzionale e rappresentativo. Se ne sono giovate le formazioni più conservatrici che hanno rialzato la testa. E non solo quella.
Dal Rassemblement National di Le Pen e Bardella a Vox in Spagna. Dalle destre meloniane e leghiste in Italia all’Alternative für Deutschland, ovviamente in Germania, per non parlare dei paesi ex Visegrad e, nello specifico, del truce e retrivo caso ungherese. Ilaria Salis ne sa qualcosa… Ma, all’interno della sinistra di alternativa in Italia, il dibattito verte ancora sulla purezza ideologica e su una impostazione tattica fidelizzata ad una visione di un così lungo periodo che si perde nell’orizzonte di un futuro irriscontrabile ad occhio nudo.
Nel 2024 c’è ancora chi pensa di categorizzare il movimento comunista, l’anticapitalismo e la lotta al neoliberismo con settorializzazioni culturali prive di qualunque senso se non sul piano della mera differenziazione culturale a cui ognuno di noi può essere intimamente affezionato: ci sono nostalgici del bordighisimo, altri che tentano ancora la contrapposizione tra trotzkjsmo e stalinismo; altri ancora che si vedono come neo-marxisti e neo-comunisti.
Personalmente, se proprio devo darmi una di queste etichette, io ho sempre preferito definirmi “luxemburghiano” e “comunista libertario“. Ma questo dice a me stesso ciò che io penso di sapere di me e non comunica niente altro agli altri. Si tratta di una celebrazione modesta della propria presunta (non credo presuntuosa) cultura accumulata nel corso di decenni e decenni di attività politica, di rapporti, di confronti, di scontri, polemiche ma anche convergenze.
Per prima cosa, se vogliamo attualizzare il comunismo (ripeto: come movimento reale e non come ideologia statica, antidialettica e priva di qualunque mordente veramente “rivoluzionario“, nel senso del movimento fisico e fisiologico che lo ispira dal principio, da oltre due secoli e mezzo), dobbiamo abbandonare le categorie, le etichette ma non lo studio dei classici. Così, però, parimenti dobbiamo studiare la quotidianità e il modo in cui il capitalismo oggi muove i fili di una politica che è pronta a servirlo.
Le destre hanno capito molto acutamente tutto questo e, infatti, compiacciono tanto i ceti modernamente proletari e sottoproletari dell’oggi quanto i confindustriali, il mondo del lavoro e quello delle imprese. L’interclassismo della maggioranza di governo è un dato di fatto e dovrebbe preoccuparci davvero molto. Su questo piano inclinato verso il profitto e il privilegio di classe si muove una rivoluzione sì, ma conservatrice, autoritaria, meschinamente cinica nel prelevare dal pubblico verso il privato, senza alcuno scrupolo.
Quando si parla di “promesse tradite” da parte di Fratelli d’Italia o della Lega, di giravolte e inversioni di marcia dal ruolo di opposizione a quello di governo, si afferma niente altro che questo: la capacità di interpretare resilientemente il volere del vero potere. Quello economico. Per poter rimanere saldamente alla guida di un Paese che, ovviamente, le destre vogliono cambiare seguendo la loro rotta politica e (anti)culturale di un tempo. Dalla centralità del Parlamento a quella del governo. Dalle leggi fatte per tutte e quelle fatte per le minoranze ricche e ricchissime.
E noi discutiamo se sia opportuno o meno non tanto fare alleanze col campo progressista che include PD, Cinquestelle e Alleanza Verdi e Sinistra, ma – si badi bene – se sia utile aprire anche soltanto un dialogo in tal senso. C’è una chiusura preventiva, pregiudiziale, pretestuosa e preconcetta che origina da un atavico odio nei confronti di una sinistra moderata che ne ha combinate più di Carlo in Francia, ma che non ci ha visto sempre spettatori.
Anche noi abbiamo avuto le nostre colpe nel tentare (deve essere detto e scritto molto accuratamente e sottolineato abbondantemente) di mettere insieme l’autonomia della proposta politica in favore del mondo del lavoro e delle classi popolari, di tutti gli sfruttati, con una azione di governo che andasse in parte in quella direzione. Siamo sempre stati consapevoli che eravamo e siamo una minoranza e che, se non era riuscito il vecchio PCI a fare dell’Italia una nazione progressista e di sinistra, non ce l’avrebbe potuta fare la successiva sinistra di alternativa.
Per prima cosa bisogna riconsiderare i rapporti di forza: da quelli sociali a quelli politici. In quanto Partito della Rifondazione Comunista, ci tocca anzitutto questo secondo aspetto, ma nella simbiosi col primo. La parte di compagne e di compagni che si riconosce – per semplificare – nella “linea Ferrero“, sostiene una sostanziale equipollenza tra destra e sinistra moderata, tra Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e PD, Cinquestelle, AVS.
Leggo dal documento congressuale, ancora in forma di bozza, che ho per le mani, pubblicato su rifondazione.it: «Noi riteniamo che il compito di fase del Partito della Rifondazione Comunista sia quello di costruire una opposizione e una alternativa a questa follia guerrafondaia antipopolare ed antidemocratica, al governo ed a tutte le forze politiche che in Italia ed in Europa, al di là degli schieramenti, la sostengono».
Assolutamente d’accordo, se non fosse che da questo principio, che dovrebbe essere alla base della costituzione di una coalizione popolare, si fa discendere un netto rifiuto di dialogo con le forze progressiste. Se ne prescinde e si pensa all’alternativa politica senza provare a costruire momenti di convergenza magari anche sul NO alla guerra: nel PD medesimo, anche alle ultime elezioni europee, non tutti i candidati (penso a Marco Tarquinio…) erano sulle posizioni della dirigenza nazionale.
Ma se escludiamo ogni possibilità di interlocuzione (mandate a mente la parola che non è sinonimo di “coalizione“!) col campo progressista e se, soprattutto, stabiliamo l’equazione totalizzante tra destra e sinistra moderata, allora sorge il dubbio che abbiamo smarrito il metro di valutazione particolare per obbedire ad un massimalismo parolaio che ci fa sentire magari dalla parte della ragione senza se e senza ma, ma che ci preclude una oggettiva, concreta, veritiera capacità critica di analisi.
Il PD sostiene la guerra. Sì. Il PD sostiene l’austerità? Sì. Noi no. Dobbiamo stabilire, anche con il XII Congresso nazionale, se vogliamo costruire un polo dell’alternativa che si renda impermeabile a qualunque possibilità di far cambiare idea alle altre forze politiche progressiste, oppure se decidiamo che i progressisti siamo soltanto noi e che, ad esempio, Fratoianni è uguale a Vannacci o che Salis è praticamente la fotocopia di Santanché.
L’affermarsi delle destre di oggi è, non la conclusione, ma la concretizzazione di un lungo cammino di erosione dei diritti in cui la sinistra moderata e, segnatamente, il centrosinistra hanno avuto un ruolo a dir poco biasimevole nel nome di un governismo che li ha sedotti, inducendoli a preferire le compatibilità del sistema rispetto alle necessità della classe sociale che avrebbe dovuto essere di loro riferimento: quella del lavoro, quella dei più deboli e fragili. Compito dei comunisti del nuovo millennio non può essere la cantilena critica, la geremiade dei danni commessi.
Se riconosciamo un cambio di passo dal renzismo allo schleinismo, non abbiamo forse il dovere di provare a fare la nostra parte per tentare di rimettere in circolazione una cultura del conflitto di classe che pervada anche la sinistra moderata e riformista? Sappiamo che non saremo mai uguali. E nemmeno lo vogliamo. Sappiamo che noi rimarremo per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e loro no.
Ma questo non ci impedisce oggi di affrontare la sfida della cacciata da Palazzo Chigi di una destra che sta facendo del male agli studenti, ai lavoratori, ai pensionati, ai precari, a coloro che nemmeno lo hanno un salario decente e che prendono – come il sottoscritto che fa il rider da un po’ di tempo a questa parte – sette, magari otto euro l’ora. Sotto la pioggia come sotto il sole, così come centinaia di migliaia di altri lavoratori che non hanno un briciolo di speranza.
Se noi comunisti non abbiamo il dovere di migliorare qui ed oggi le condizioni di miserevole precipitazione antisociale della stragrande maggioranza della popolazione, non capisco francamente quale altro obiettivo ci dobbiamo dare. Siamo, restiamo e saremo il partito di chi cerca la trasformazione sociale e la pratica con le lotte, con la congiunzione tra politica e movimenti, con la necessaria rappresentanza istituzionale che, invece, sembra sempre più un accidente per alcune compagne e compagni che vivono le elezioni come un momento superficiale e quasi irrilevante.
La democrazia (un tempo si sarebbe detto “borghese“) non risolve il problema delle contraddizioni del capitalismo: ne è corresponsabile e corifea. Ma se davvero per noi la Costituzione della Repubblica ha un valore, la costruzione delle condizioni sociali per l’alternativa non può prescindere dalle differenze che nella Carta del 1948 sono evidenziate e rimarcate. La cosiddetta “politica delle alleanze“, che tanto ci piace come giochetto di scontro politico, di area o, meschinamente, personale, dipende dalle condizioni sociali e non viceversa.
Quindi, se non capiamo lo stato di disaffezione dalla politica e dalla partecipazione, dettato dallo stato miserevole di buona parte della cittadinanza e del mondo del lavoro e della precarietà, non potremo mai sperare di convincere gli sfruttati moderni a votarci se non diamo loro una anche solo minima parvenza di potergli essere utili praticamente: dalle piazze, certo, fin dentro le Camere e, perché no, anche al tavolo di un governo.
I rivoluzionari di casa nostra, quando biasimano i tentativi di dialogo con le sinistre moderate, si guardano bene dal citare, ad esempio, il PCE, Izquierda unida, Podemos, il PCF o La France Insoumise che fanno accordi anche di frontismo repubblicano per sbarrare la strada alle destre. Se puntiamo alla crescita del consenso nei confronti delle nostre idee, delle nostre posizioni, non possiamo non tenere conto che la mobilitazione sociale necessita di un riscontro politico e viceversa.
Se predichi bene ma poi non riesci a portare la tua predica oltre la piazza, se non le dai una sponda anche parlamentare o nelle istituzioni locali, allora le tue ragioni rischiano – come è evidente da questa lunga traversata nel deserto che pare non avere fine – di risultare irrilevanti ai fini del miglioramento delle condizioni esistenziali. Letteralmente tali: perché troppa gente sopravvive invece di vivere decentemente.
Noi abbiamo rilanciato le parole di Lenin: pace, terra, pane. La drammatica attualità della ricerca della via per la fine di tutti i conflitti è una premessa necessaria per restituire il maltolto ai popoli e aprire il viatico ad un nuovo internazionalismo che segni la rinascita di una competizione su scala globale tra il movimento anticapitalista e i conservatori. Su questo asse di incerto equilibrio ci muoviamo. Ma non possiamo prescindere da tutto il resto e dobbiamo distinguere le lotte dell’oggi (quindi la tattica) con le lotte di domani (quindi la strategia).
Mettere in contrapposizione tattica e strategia o provare a fare del mero tatticismo pensando così di avere una visione di lungo corso, è uno sterile infantilismo politico che fa dell’autoreferenza edonistica un piano di compiacimento onanistico tanto della mente quanto dei corpi.
Non si è rivoluzionari se ci si sente più aderenti possibili ai propri princìpi senza riuscire a fare il benché minimo nulla nella realtà che cambia sotto i nostri occhi, senza che noi si voglia fare uno sforzo per provare ad essere attori di un minimo mutamento. Si è rivoluzionari se ci si muove, anche nel mare melmoso delle contraddizioni e si accettano i rischi perché si vuole davvero provare ad ottenere qualcosa per chi oggi non ce la fa più ed è arrivato al limite di qualunque sopportazione.
MARCO SFERINI
24 ottobre 2024
foto: elaborazione propria