Il gigante di cemento e di calcestruzzo si pianta da oltre sessant’anni contro le case, vi si stampiglia, le integra quasi nella sua struttura possente eppure tanto debole. Universitari di tanti atenei e ricercatori ormai ottuagenari, attenti e scrupolosi, avevano segnalato che i tiranti, fin dai primi anni ’90, erano logori, dopo attente ispezioni endoscopiche in quel calcestruzzo ritenuto, oltretutto, un materiale poco idoneo per sorreggere insieme agli “stralli” un ponte di quelle dimensioni: corrosione del cosiddetto “aerosol marino” e agenti chimici delle fabbriche vicine avrebbero contribuito al depotenziamento di una grande opera, simbolo di una rinascente Italia, battezzata sotto la presidenza di Giuseppe Saragat. Il ponte Morandi dell’autostrada A10 Genova – Ventimiglia praticamente esiste per due quarti, ma per il restante è un vuoto che è immagine plastica nella mente di tutti, simbolo di una frattura corale, di una separazione visiva che è, per l’appunto, emblema di un ennesimo fallimento moderno (o “post-moderno”) che contrasta con l’avanzamento degli studi del settore. Intorno a Genova, in moltissime parti d’Italia, persino d’Europa esistono ponti che risalgono al periodo augusteo, quando le legioni romani venivano spinte dall’imperatore verso i confini di un nascente dominio che aveva bisogno di rafforzare le vie di comunicazione per controllare meglio i confini. Quei ponti, di varia grandezza, sono ancora lì e sono carrabili. E’ un paragone delle ovvietà, abbastanza facile rendersene conto, ma tant’è, forse la rabbia, sollecita il paragone: come mai quei sassi messi ad arco, uniti da palta pestata da schiavi e messa insieme con tecniche non certo supportate da moderne ispezioni sulla qualità dei materiali, sono passati indenni nei tempi, sollecitati da centinaia di migliaia di transiti di mezzi dei più disparati, compresi i nostri moderni tir e camion, mentre i ponti dell’era civilissima, moderna e industrializzatissima crollano come corpo morto cade? La risposta non è unica, anzi, è un insieme di fattori che vanno dalla storia delle costruzioni d’un tempo a quella delle edificazioni dell’oggi: l’ingegneria civile avrà di che approfondire in merito alla frattura del ponte Morandi, di quel segno di unione tra Liguria di Levante e di Ponente, tra Italia costiera e Italia del Nord che ora non esiste più e che pone la politica di governo alla ricerca di un colpevole prima ancora che lo faccia la magistratura. E’ francamente inquietante l’atteggiamento degli esponenti di governo che si sono avvicendati nell’accusare, nell’ipotizzare responsabilità e nel gestire un evento di questa terribile e triste portata non con il silenzio che imporrebbe la circostanza ma facendo a gara sull’impostazione di una vis polemica sempre più accesa che contravviene all’interpretazione costituzionale di un ruolo che dovrebbe essere di mediazione tra tante parti: sociali, politiche e anche istituzionali. Invece il governo sembra essere avvampato da una furia cieca che fa dichiarare ai ministri: “Non possiamo aspettare la giustizia”. Una frase, anche se rabbiosamente rivolta alla Società Autostrade, non è concepibile in uno Stato di diritto, è fuori dal contesto repubblicano, getta benzina sul fuoco e non aiuta a comprendere quali realmente siano state le colpe del controllo istituzionale in merito. “Non possiamo aspettare la giustizia”, “ricostruzione in cinque mesi”. Non sono frasi serie. Non possono essere date in pasto alle fragili menti di un popolo già duramente provato dalle promesse di campagna elettorale che ora si contorcono sotto le spinte di un pragmatismo dei fatti e dei compromessi di palazzo che impongono un bagno di rigenerante realismo. Spetta alla Magistratura l’indagine complessa in merito a ciò che è accaduto, non certo al governo. Ci sono tantissimi modi per scavalcare la Costituzione, per modificarla facendola apparire come forma piuttosto che come sostanza. Uno di questi è pronunciare una frase come questa: “Non possiamo aspettare la giustizia”. Inquietante, sottolineiamolo abbondantemente, è dire poco, è un eufemismo di larghissime proporzioni. Poi però arriva il bagno di realismo: le penali altissime da pagare qualora lo Stato decidesse di revocare la concessione della gestione autostradale alla catena di comando imprenditoriale privato che la gestisce oggi. E allora si fa marcia indietro, si parla di una trattativa con Autostrade per l’Italia, si rimette in moto il balletto delle controversie interne alla coalizione giallo-verde e tutto torna disordinatamente a posto. Sembra proprio che si cerchi un capro espiatorio e che ci si allontani invece da un principio sacrosanto: la gestione pubblica delle infrastrutture del Paese. Ritornare ad una gestione di Stato, che consenta un diretto controllo degli enti preposti unitamente agli studi universitari, alla collaborazione fattiva tra i tanti dipartimenti tecnici che invece di mirare al profitto privato dovrebbero gestire il pubblico interesse, quindi anche la sicurezza della transitabilità su tutte le strade e le autostrade senza avere il timore di passare un cavalcavia, un viadotto facendo mille scongiuri ed affidandosi ad una illusoria quanto improbabile ritualità scaramantica. Fatevi pure il segno della croce, ma per favore non ditelo a certi ministri: potrebbero interpretarlo male e pensare che state, anche in questo caso, cercando le radici cristiane dell’occidentalissima civiltà europea. Oltre il ponte non comincia l’amore, come scriveva Italo Calvino, neppure la vita. Oltre il ponte ci sono maceria morali, materiali e una desertica capacità politica di interpretare la repubblica, la “cosa pubblica”, come sostegno anche immediato al dolore delle famiglie: manca una comunità istituzionale che si unisca a quella di popolo. Oltre il ponte c’è solo un piatto, indistinguibile orizzonte in cui chi governa il Paese naviga paurosamente a vista.
MARCO SFERINI 17 agosto 2018 foto: screenshot
17 Agosto 2018
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