Le somiglianze che la storiografia ha riscontrato tra quella che viene chiamata “prima rivoluzione inglese” (o anche “guerra civile“, “grande ribellione“) e la “Rivoluzione francese” (per la quale non esistono altri composti sinonimi che danno adito a diverse interpretazioni) sono, almeno in apparenza, tutte rintracciabili nell’incipit del processo di trasformazione tanto della società quanto della politica del regno ereditato da Giacomo I Stuart dopo la morte della grande Elisabetta.
Che il decennio di lotte (1642 – 1651) si fosse aperto a causa di un contrasto tra assolutismo monarchico e nascente borghesia delle campagne, dopo la crisi economica derivata dalla “piccola glaciazione” (uno dei mutamenti climatici più evidenti che interessò l’Europa di allora) e dopo che la potenza olandese aveva sfidato quella inglese sui mari, nei commerci tanto vicini quanto lontani nelle nuove terre asiatiche, per la vastità degli oceani, è una verità parziale a sostegno dei motivi che scatenarono il conflitto.
In uno dei pochi testi disponibili in italiano sulla vita di “Oliver Cromwell” (ed. Claudiana nella “Piccola collana moderna“), Richard Newbury ha messo un accento interessante proprio sulla connessione tra la vita privata del futuro Lord Protettore del Commonwealth di Gran Bretagna e Irlanda e l’uomo di Stato che ne verrà fuori dopo una serie di vicende che riguarderanno qualcosa di più dell’interesse prettamente materiale tanto della benestante famiglia di campagna di Cambridge quanto del ruolo pubblico che avrebbe ricoperto.
Non è facile trovare una letteratura italiana (o quanto meno tradotta nella nostra lingua) su Cromwell. Mentre esistono pregevoli storie politiche, sociali ed anche economiche dell’Inghilterra seicentesca attraverso le quali è possibile farsi una sommaria idea di quello che i puritani calvinisti avevano in mente quanto coniugavano la loro fede religiosa con una idea sociale dell’Inghilterra in cui i cittadini avrebbero dovuto avere libertà di iniziativa personale, direttamente espressa sul terreno della politica attraverso un libero Parlamento da eleggere.
C’è, nel protestantesimo che avversa la Chiesa anglicana di William Laud, ritenuta troppo condiscendente nei confronti del cattolicesimo, tanto nelle forme quanto nelle sostanze, il principio non di una idea sociale della nuova Inghilterra che ci si augura possa nascere dietro la promozione di riforme certamente anche fiscali, ma di una più generale concezione di grandezza nazionale che faccia del leone britannico una nuova potenza cristiana: tanto contro il papato quanto contro gli olandesi e, non di meno, contro quella Spagna “cristianissima” che, non molto tempo prima, aveva tentato l’assalto all’imprendibile isola.
George Macaulay Treveylan nella sua “Storia della società inglese” (pubblicata da Einaudi nel 1948) parte da premesse simili per arrivare alla conclusione che, quella che alcuni storici marxisti chiameranno convintamente “rivoluzione“, pensandola proprio come l’irrompere della nuova borghesia nella scena dell’aristocrazia millenaria, fu anzitutto una lotta quasi legata ad aspetti teologici da un lato che, dall’altro, avevano un riflesso pratico nella gestione del potere politico di una regione in cui tre regni si combattevano da tempo immemore.
Cromwell, se si riesce a separare per un attimo il piano personale da quello politico, militare e di uomo di Stato, è espressamente uomo del suo tempo: non è propriamente un rivoluzionario ma nemmeno, a onore del vero, si può definire come un conservatore. Allo stesso modo, non è un aristocratico, ma non è neppure un popolano. Fa parte di un ceto medio che sogna di espatriare in America proprio perché lì, nella sua Inghilterra, non riesce ad immaginare un futuro dignitoso per una famiglia relativamente agiata.
Da parte paterna, il futuro Lord Protettore vanta una discendenza che si rifà a Thomas Cromwell, addirittura Cancelliere dello scacchiere di re Enrico VIII. I suoi studi sono quelli di un giovane che frequenta il Sydney Sussex College di Cambridge, con un certo profitto ma che non porta a termine. Sembra a causa della morte di suo padre, ma non vi è certezza storica in merito. Diviene un classico gentiluomo di campagna, un rispettabile signore che è immerso in una cultura religiosa ai limiti del misticismo.
Il suo puritanesimo è quello calvinista, scozzese, come scozzese è l’origine di Carlo I Stuart, figlio di quel Giacomo salito sul trono di Londra alla morte di Elisabetta, morta non vergine ma senza eredi comunque. E’ dalla fine di quel grande regno che le lotte intestine si sono moltiplicate e che l’assolutismo monarchico, deciso ad imporsi senza mediazioni alcune, accontentando ora una fazione ne scontenta due e non riesce mai a riunire sotto l’emblema della corona l’unità tra Inghilterra, Scozia e Irlanda.
Le differenze, del resto, sono evidentissime: religiosamente parlando, l’Inghilterra è anglicana, la Scozia calvinista e l’Irlanda cattolica. Gli eserciti reali vengono impegnati proprio in quest’ultima all’epoca dei primi sconquassi istituzionali. I puritani come Cromwell, sottolinea Newbury, sono ispirati da un senso di giustizia singolare che si traduce nel sociale soltanto quando concerne le tassazioni e, pertanto, richiede una ridefinizione dei ruoli istituzionali del Parlamento.
Qui sta, semmai, la similitudine possibile tra la richiesta del Terzo Stato francese di voto per teste e quella dei seguaci di John Pym (“l’altro re“, a capo delle future “Teste rotonde“) per una assemblea finalmente libera di decidere a maggioranza anche sulle disposizioni del re e non semplicemente convocata per approvare ciò che la corona aveva già di per sé stabilito. La richiesta, quindi, è quella di spartizione del potere, di cessazione dell’assolutismo monarchico in nome di una forma democratica e parlamentare di governo.
Una richiesta che tanto Carlo I quanto Luigi XVI respingeranno. Perché quella sì era una vera rivoluzione. Ma pur sempre borghese. Ciò non toglie che l’avvento di Cromwell è per la guerra civile inglese un cambiamento radicale nella conduzione del conflitto che si apre tra il re e il Parlamento. L’organizzazione delle truppe è inefficiente, le Teste rotonde sono per lo più contadini prestati alla causa, pagati malissimo e poco convinti di ciò che stanno facendo. Non mettono in discussione il diritto del re di governare, ma seguono la parte politica che gli sembra meno lontana socialmente.
Culto e potere nell’Inghilterra seicentesca si mescolano non meno che nelle altre nazioni europee. Ma qui il confronto si delinea sempre più aspro entro i confini del protestantesimo: i puritani di Cromwell sono repubblicani, alla fine, perché sono contro un re che ha una moglie cattolica (la figlia del sovrano francese) e che non si fa alcuno scrupolo a chiedere aiuti al papato nel momento in cui la guerra prende una piega infelice per la corona. La battaglia di Marston Moor prima e quella decisiva di Naseby poi, stabiliranno il primato del “New model army“, di un esercito radicalmente nuovo in tutto.
Cromwell stabilisce che i suoi “ironsides” siano l’esempio di una riorganizzazione generale delle forze armate. L’esercito diventerà quindi, d’ora in poi, una delle voci parlanti, dei protagonisti tanto della vita ovviamente militare del paese quanto di quella politica. La vittoria delle armate del Parlamento è il punto di svolta di un’era: finisce in Inghilterra l’assolutismo e si impone la forma di governo democratica, in cui l’elezione dell’assemblea legislativa è affidata ad una sovranità che, quindi, viene spartita con il popolo.
La riluttanza di Carlo I ad essere, seppure sconfitto, ancora il re di una nazione che gli avrebbe permesso di regnare ma non di governare, altro non fa se non provocare la reazione dei puritani che sono determinati, Cromwell in testa, a non scendere più a nessun compromesso con la corona. Quello che Newbury chiama un “oscuro gentiluomo di campagna“, si trova nella posizione più alta della gerarchia rinnovata di un paese che, per la prima volta nella storia dell’umanità, mette a morte un sovrano.
La decapitazione di Carlo I e l’esilio di suo figlio completano la prima parte di questo grande dramma che troverà, molto tempo dopo, pronti autori teatrali per rappresentarne la titanica imponenza sulla scena sia europea sia mondiale. Cromwell è, senza alcun dubbio, il fondatore dell’Inghilterra moderna e, per questo, nonostante la restaurazione monarchica lo abbia condannato all'”esecuzione postuma“, cercando una damnatio memoriae che non prevarrà mai sulla volontà politica susseguente, rimarrà il più grande uomo di Stato che l’Inghilterra abbia avuto.
E’ lui a riunire solidamente per la prima volta tre regni in uno. E’ lui a giganteggiare contro gli Olandesi che spadroneggiano dal canale delle Manica alle Indie orientali. E’ lui a creare un sistema di governo che, seppure costretto nei limiti del fervore religioso puritano e in quelli di una economia in pieno sviluppo, si dimostrerà irreversibile perché sentito dalla popolazione come una nuova identità anche sociale e civile, culturale e morale. L’Inghilterra sarà, da quel momento in avanti, la nazione europea più avanzata in materia tanto di diritto quanto di rispetto dei diritti singoli e collettivi.
Gli Stati Uniti d’America arriveranno a questi livelli un secolo dopo. Il resto d’Europa dovrà attendere, dopo la Rivoluzione francese, molti e molti decenni ancora prima che, con le sollevazioni del 1848, vengano messi in discussione una volta per tutte i domini dei principi e dei re restaurati dopo l’epoca napoleonica. Cromwell è, quindi, un anticipatore di una modernità istituzionale ma è anche un rigido e spietato nemico di chi rappresenti per lui e per i puritani un nemico senza pari: se ne accorgeranno gli irlandesi, a Drogheda.
La repressione del cattolicesimo sarà senza tregua, così come l’abolizione della Camera dei Lord figurerà emblematicamente come l’apogeo di una politica dei Comuni nell’assunzione del “provvidenzialismo” come ispirazione divina delle scelte degli uomini delegati al governo della nazione. Oliver Cromwell, dunque, è una figura storica su cui si possono esprimere le più differenti interpretazioni e, pertanto, rischiano di essere anche diametralmente opposti i giudizi. Soltanto i grandi statisti portano con sé la dicotomia tra bene e male in una declinazione indistinguibile con nettezza tra le due parti sempre in lotta.
Fin troppo facile aprire dei procedimenti storici a carico di personaggi come Cromwell: spietati tiranni che hanno deposto altri tiranni, oppure innovatori e amici della democrazia e del popolo che si sono dovuti piegare alla ragion di Stato? Cattivo storico quello che pensasse di poter risolvere gli enigmi del passato con una draconiana divisione delle responsabilità e delle virtù, tagliando con l’accetta quelle che oggi ci sembrano essere le qualità e quelle che, invece, ci appaiono le colpe.
La contestualizzazione è un rimedio sempre efficace per cercare di capire, al di là dei pregiudizi e delle nostre convinzioni che vanno bel oltre le percezioni. Richard Newbury ha fatto un buon lavoro nel pitturare il quadro della vita di Cromwell riferendosi spesso alla nostra dimensione temporale. Operando similitudini laddove era concretamente e storicamente opportuno; lasciando in secondo piano tutto quello che poteva essere un azzardo del confronto, una puntata di troppo sul tavolo da gioco della Storia che non ammette eccessivi rischi.
La prima lezione che se ne trae è questa: prima di conoscere un personaggio delle proporzioni storiche di Cromwell, va indagata per bene la sua epoca. Da una immedesimazione nel contesto – approssimativa eppure necessaria – si potrà avere quella giusta compensazione tra singolo e collettivo, tra il Lord Protettore e la sua Inghilterra, tra lui e noi.
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27 dicembre 2023
foto: tratta da Wikipedia, “Oliver Cromwell”, particolare del ritratto di Samuel Cooper (1656)
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