Hegel sostiene che la realtà è “spirito” nella sua espletazione in atto pratico. Siccome stiamo parlando dell'”idealista” per eccellenza nella storia della filosofia moderna, si tratta di una affermazione che mette, ovviamente, l’idea al centro dell’essenza umana, della formazione degli eventi, di una progressiva e continua razionalità della Storia, perché nell’assunzione di coscienza da parte dell’idea, che si invera in questo processo di autoformazione e inveramento, viene ad agire una determinazione finalistica.
Non c’è nessun momento nella vita e nell’esistenza di ogni essere umano che sia scindibile tanto dagli accadimenti contemporanei quanto dal passato e dal futuro che è in divenire. Nulla di ciò che è reale, del resto, è separabile dalla razionalità e viceversa. E’ la grande massima hegeliana che viene fatta studiare fin dai banchi di scuola liceali e che, spesso, diviene una delle tante stucchevoli etichettature per un filosofo che ha, a suo modo, rivoluzionato l’intendere stesso della filosofia e del suo approccio con la metafisica, con la realtà oggettiva, con il Tutto.
La guerra, se letta attraverso le lenti che Hegel ci fornisce, quelle di una spiritualità collettiva, popolare, quelle di una edificazione delle comunità attraverso una sorta di missione inconscia ma, comunque, determinata dalle caratteristiche che le nazioni (intese come simbiosi tra territorio, istituzioni e genti), fa parte di quel Tutto con la ti maiuscola. Rientra in una dinamicità degli eventi, delle cause e degli effetti che sono, in un certo qual modo, inseparabili fra loro e che, pertanto, sarebbe illusorio poter pensare di eliminare dal corso della Storia.
Se proviamo ad interpretare la dialettica dei rapporti di forza politici, economici e sociali mediante la filosofia dello spirito, ci andiamo inevitabilmente a schiantare contro un muro di contraddizioni che non potranno essere risolte nemmeno dalla critica della sinistra hegeliana che, tuttavia, riproporrà la razionalità degli Stati come una eventualità da mettere in campo e non come una diretta conseguenza dell’ambivalenza perfetta tra ragione e natura, tra logica e dato di fatto.
Se dovessimo ragionare in questi termini, dovremmo convenire con il filosofo che sancì una sorta di “morte della filosofia” sul fatto che la guerra è indispensabile all’umanità perché ottiene dall’hegelismo il ruolo di regolatrice degli avvenimenti e di riempimento di pagine della Storia che, altrimenti, sarebbero destinate a non essere scritte, a rimanere tristemente bianche. Si tratta di una rappresentazione dell’esistenza affidata ad un cronico bisogno di interruzione di una monotonia che la pace affiderebbe ad una umanità incapace di pensarsi senza un nemico.
L’insignificatezza dell’esistenza, il vuoto cosmico, la continua ricerca della verità, di una risoluzione del grande enigma dell’Universo e della sua presenza, con noi al suo interno, vengono in questo modo lasciate indietro, superate dalla necessità di guardare alla microcosmicità di una vita che ha un significato soltanto se calata nei rapporti tra gli esseri umani e tra questi e il pianeta in cui abitano insieme a molte altre specie animali.
Se di “teoria del Tutto” si può anche vagamente fare cenno per Hegel, non si può fare a meno di rilevare come la contraddizione della necessità della guerra faccia parte di un filone non certo corto nel corso dei secoli che ha suggerito ai pensatori delle varie epoche di fare della bellicosità una caratteristica quasi primordiale dell’essere umano, incancellabile da un tradizionalismo che affonda nel primitivismo e dal quale è impossibile astrarsi completamente.
Eppure, Hegel afferma senza troppi giri di parole che la razionalità del mondo è tale perché a noi il mondo stesso ci appare così. Ragionevole, interpretabile secondo i nostri schemi mentali, secondo le nostre capacità sensoriali. Nulla ci è estraneo, incomprensibile sulla Terra. Al di fuori di essa molte cose, se non tutte, divengono sfuggevoli e vaghiamo nel mistero, nell’ipotesi come regola dell’indimostrabilità, nell’illazione come nella superstizione. L’altezza del cielo ci eleva magari fino all’ipotesi di Dio, ma ci precipita anche nella finitezza umana, nella pochezza delle nostre esistenze.
La guerra, quindi, come fenomeno tipicamente umano, nel grande regno dell’animalità, dovrebbe essere spiegata dalla filosofia. Perché secondo Hegel proprio la filosofia ha questo compito: spiegare tutto e non essere il mezzo attraverso cui settorializzare una discussione, uno studio, un approfondimento delle idee pure in un processo di dialettica continua e, per questo, stimolante. Ma la guerra resterebbe un enigma della Storia, se non fosse che, oltre l’idealismo che si idealizza da sé medesimo, le viene data una giustificazione praticamente aprioristica: c’è perché ci deve essere.
Inaccettabile sul piano della mera moralità, di un eticità che evolve e si risolve continuamente nella dinamica dei rapporti sociali, civili, chiaramente frutto della strutturazione economica e delle interazioni tra i popoli. Coerente con una staticità della Natura che ha le sue leggi determinate ed autoregolanti. Se la guerra fa parte di questo contesto “naturale”, ecco che allora è assolutamente impensabile poterne fare a meno.
Non cadiamo nel fraintendimento: Hegel non è un filosofo bellicista, nonostante nel corso della sua vita sia stato ligio alle legislazioni ed al ruolo dello Stato (nello specifico quello prussiano in cui ha vissuto) e abbia dato la falsa impressione di essere un ammiratore dell’ordine, della preservazione quasi conservatrice di una tranquillità sociale affidata al potere. La diatriba sul suo rapporto con le istituzioni e con il loro ruolo è ancora oggi molto aperta, visto che esistono interpretazioni dicotomiche in merito.
Ma, quello che è certo, è che in lui prevale – ovviamente! – l'”idea dello Stato” che, di volta in volta, assume la forma che prendono le organizzazioni del potere in determinati contesti, territori, in particolari contingenze storiche. Tuttavia, pur non essendo un filosofo della guerra, fa della stessa una sorta di “anima” della Storia e del cammino umano, il cui “spirito” diventa assoluto, diviene quello del mondo intero. Questa complicata tessitura di un insieme che si realizza in una unità attraverso la compenetrazione di tante singole esperienze, molto diverse fra loro, dà luogo ad una preminente funzione dei popoli. Ma solo dentro la cornice statale (non necessariamente statalista per come la vediamo noi oggi…).
Ecco che la guerra è, quindi, un elemento essenziale, fondamentale e irrinunciabile per una umanità che voglia essere protagonista della realizzazione di sé stessa in un Tutto in cui la razionalità non è disgiungibile dalla naturalità oggettiva delle cose, dall’esistente in senso stretto. Unico e molteplice si alternano non nella concretezza fisica e materiale della vita, visto che fanno parte entrambi di un solo Assoluto (con la a maiuscola qui…); semmai si confrontano nella reciprocità delle idee, nel loro confronto che non ha soluzione di continuità.
La guerra, il conflitto, la tenzone che Hegel vede dentro il processo storico a tutto tondo, altrimenti non è se non la prevalenza del fare contro l’inattività, del pensare contro il contemplare, dell’azione contro l’ozio, della pagina scritta contro quella bianca. Nella Storia dell’umanità fa capolino quindi una sorta di predestinazione quasi ancestrale, affidata alla forza, alla virulenza, alla capacità di ergersi sopra la volontà di altri popoli. Ma, inevitabilmente, l’idealismo hegeliano getta il suo pregiudizio anche in questo frangente: perché la guerra è guerra di idee.
E così tutta la plurimillenaria epopea di una umanità umiliatasi nell’autodistruzione consapevole, per il potere nel potere, per la gloria fine a sé stessa, per la sopravvivenza a scapito di tanti milioni di esseri viventi considerati deboli perché sconfitti, si riduce a ciò che forse veramente non è mai stata, se si tralascia il piccolo particolare della struttura economica che Marx scoprirà di lì a poco tempo: un susseguirsi di vicende che obbediscono a prìncipi e a princìpi (attenzione agli accenti!): una guerra di idee, fatta attraverso le idee, fatta per le idee, per le credenze politiche, religiose, per le convenzioni stabilite.
Paradossalmente, lo “Spirito del mondo” di Hegel si pone come fine la libertà che, oggettivamente, è difficile pensare possa venire dalla guerra finché questa rimane concettualmente intrinseca al modo di raffrontarsi dei popoli per risolvere le questioni controverse che sorgono di volta in volta. Proprio la Natura ci impone delle scelte, oggi più che mai e ci sollecita a fare presto per preservare tanto sé stessa quanto noi come specie che ne siamo ingloriosamente parte.
La libertà – sostiene il Nostro – si acquisisce mediante la lotta. E’ questo, forse, il primo punto su cui si può concordare pienamente in questo piccolo viaggio nel rapporto tra hegelismo e guerra, tra idealismo e spietata realtà dei tanti passati umani e del presente in cui i conflitti prendono fuoco e si materializzano con una velocità veramente impressionante. In assenza di lotta, ecco le famose “pagine bianche” di una Storia umana priva di significato, di mordente, di senso, perché aliena alle passioni, alle competizioni, alla specularità di comportamenti in cui l’individuo ed anche i popoli si riconoscono a volte, si scontrano tante altre.
Dunque, Hegel e la guerra non vanno d’accordo come si potrebbe sinteticamente, ed erroneamente, ridurre il pensiero del principe dell’idealismo tedesco (e non solo). Perché alla fine di queste asperità, di questa tensione sociale, politica, in una visione antropologica che ha tratti epistemologici in cui si inseriscono tutte le pieghe dei chiaroscuri delle contraddizioni umane, c’è comunque sempre e soltanto la razionalità dell’esistente. La Ragione, insomma. E vogliamo dire che la Ragione sia votata al conflitto per il conflitto?
Forse no. Ma forse l’abbiamo sopravvalutata durante tutti questi secoli e millenni. Forse non siamo poi così intelligenti come ci riteniamo.
MARCO SFERINI
8 ottobre 2023
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