Correva l’anno 1994 quando la Food and Drug Administration autorizzò il commercio del pomodoro «Flavr Savr», il primo Ogm agricolo della storia arrivato sui banchi dei fruttivendoli. Il pomodoro invecchiava più lentamente grazie alla biotecnologia ma alla prova del supermercato il Flavr Savr si rivelò un fallimento e nel 1997 era già sparito dalla circolazione.

Nel frattempo, l’agricoltura assistita dall’ingegneria genetica era diventata una realtà capace di scatenare interrogativi bioetici, ambientali e politici che perdurano e dividono ancora. Tre decenni non sono bastati per capire se insegnare alle piante a tollerare gli erbicidi o a difendersi dagli insetti – questi gli obiettivi delle modifiche oggi in uso – sia stata una buona idea dal punto di vista ambientale.

Lo conferma un saggio pubblicato sul numero di ieri della rivista «Science» da un team internazionale guidato dall’economista ambientale Frederick Noack dell’università della British Columbia (Canada). In gergo è definito una «review» che non porta risultati originali ma esamina la letteratura scientifica su un certo argomento per trarne valutazioni per quanto possibile affidabili e equanimi: un tentativo lodevole in un campo polarizzatissimo tra apocalittici e integrati.

Tuttavia, nemmeno i 130 studi messi a confronto da Noack & Co. conducono a una promozione o a una bocciatura definitiva degli Ogm. Solo su pochi aspetti si è raggiunto un consenso scientifico a volte sorprendente. Per esempio, la temutissima diffusione nell’ecosistema dei geni modificati oggi non è più considerata così pericolosa. Inoltre, gli scienziati concordano che mangiare Ogm non comporti rischi sanitari mentre l’uso smodato del glifosato che essi favoriscono sì. Per tutto il resto o quasi, dipende.

Come sostengono i fautori dell’ingegneria genetica, il rendimento degli Ogm è superiore. Gli insetti però hanno iniziato a sviluppare resistenza contro la tossina prodotta dalle piante modificate e quel vantaggio, senza tecniche agricole mirate alla sostenibilità, potrebbe ridursi nel tempo. Anche sulla deforestazione gli studi sono contraddittori e contro-intuitivi. Una varietà Ogm più redditizia richiede minore superficie coltivata e potrebbe favorire la riforestazione. Succede però anche l’inverso, spiega lo studio su «Science»: l’agricoltura più profittevole induce a abbattere alberi per far spazio a nuove piantagioni e mette fuori mercato i contadini che non usano gli Ogm.

Risultato: le foreste riguadagnano terreno, ma nei Paesi in cui l’ingegneria genetica non si usa.
Dal punto di vista del clima, sebbene gli ottimisti parlino di un potenziale risparmio di emissioni di gas serra del 7,5%, al momento mancano dati conclusivi. Per la biodiversità, infine, non è chiaro se i benefici derivanti dal minore uso di pesticidi prevalgano sui danni prodotti dall’aumento degli erbicidi e dell’abbandono delle tecniche tradizionali di controllo delle piante infestanti.

Ma è impossibile – sottolineano i ricercatori – dare un giudizio su una tecnologia controllata a livello mondiale da un pugno di società chiamate Monsanto, Syngenta, Corteva e Basf: «la produzione attuale è dominata da poche applicazioni selezionate sulla base degli interessi delle grandi aziende, della (mancata) accettazione da parte dell’opinione pubblica e di un sistema regolatorio assai costoso» che esclude dal mercato realtà diverse dalle multinazionali.

E concludono: «Ogm alternativi, sviluppati con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e combinati con misure stringenti per la gestione delle resistenze – concludono – potrebbero invece rivelarsi benefici per l’ambiente». Un’altra biotecnologia è possibile.

ANDREA CAPOCCI

da il manifesto.it

Foto di FRANK MERIÑO