Nell’interessante excursus storico-politico con cui stamane il professor Odifreddi su “La Stampa” sostiene le ragioni del NO al referendum, criticando una riforma più che slegata dal contesto politico e sociale del suo tempo, c’è un passaggio che merita di essere riletto, sottolineato e anche stigmatizzato.
Giustamente il noto matematico parte dai numeri con cui la riforma voluta dei Cinquestelle è stata approvata in doppia lettura, ad esempio, alla Camera dei Deputati: una maggioranza assoluta di 553 favorevoli, soltanto 14 contrari e 2 astenuti. Che se ne deduce universalmente? Che se il Parlamento davvero riflettesse simultaneamente la volontà popolare, ciò vorrebbe in qualche maniera significare che la stragrande maggioranza dei 51 milioni di italiani che andranno (o che dovrebbero andare) al voto è già automaticamente schierata per il SI’.
Invece non soltanto non è così, visto che l’attuale maggioranza parlamentare e pure la minoranza sono divenute rispettivamente tali dopo la caduta del governo Conte primo nell’estate del 2019, di fatto capovolgendo gli equilibri tra le forze presenti sugli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama; ma, ulteriormente si può benissimo affermare che il meccanicismo tra la pressochè quasi unanime accoglienza del provvedimenti di riforma costituzionale e il comune sentire della popolazione è squilibrato, ancora prima che da un raffronto pratico tra umore del Palazzo e umore della piazza, dagli stessi che hanno assentito col voto nelle due Camere.
Al centro della questione stanno per l’appunto i partiti, con cui Odifreddi se la prende oltremodo senza una ragione apparentemente valida. Tra citazioni di Thomas Jefferson e della Rivoluzione americana o capatine nell’architrave costituzionale immaginato e scritto dai rivoluzionari francesi al tempo dell’Assemblea legislativa (e del successivo passaggio alla Convenzione nazionale), ad un certo punto, rientrando nel presente della politica italiana, il matematico afferma:
«…da noi infatti esiste una netta separazione tra legislativo ed esecutivo e vengono anche considerati una devianza i governi tecnici i cui membri non sono eletti. […] Inoltre l’articolo 138 della Costituzione permette che sia il Parlamento a modificarla senza richiedere che si passi da una assemblea costituente secondo la logica democratica».
Se da un lato Odifreddi ricerca un rapporto immacolato, puro e direttissimo tra delegante e delegato, tra cittadino-elettore-sovrano e deputato-eletto che si deve fare interprete di questa sovranità demandata dal corpo popolare, dall’altro si lamenta del fatto che la Costituzione non preveda ciò per quanto concerne la modifica della stessa, dell’assetto dello Stato, di un suo ciclico ammodernamento (come avevano invece previsto i francesi ponendo nella loro carta fondamentale dell’anno I, erede della prima Costituzione del 1791, la convocazione di una Costituente ogni venti anni per rinnovare l’architrave istituzionale della Repubblica).
Secondo Odifreddi, l’assemblea costituente dovrebbe essere elettta a suffragio universale, diretto e proporzionale: un metodo che giustemente richiama tutta la “logica democratica” di una “matematica del diritto costituzionale e dei diritti” civili tanto dell’essere umano quanto del cittadino.
Fino a qui il dissenso può riguardare, al massimo, il meccanismo di autoriforma della Costituzione previsto dai Padri della Repubblica nel 1947/48, nell’anno e mezzo di redazione della medesima, attraverso appunto l’Assemblea Costituente: per Odifreddi è desueto, vista anche la citazione di un discorso di Jefferson sul rinnovamento istituzionale: «i morti non fanno politica e non decidono».
Contrariamente a questo ragionamento, si può invece ritenere quello previsto dall’articolo 138 un procedimento non anacronistico ma bensì con i piedi ben piantati per terra, perché protegge la Costituzione da stravolgimenti globali, addirittura da possibili riscritture della medesima o dalla redazione di una Costituzione ex novo.
Una assemblea costituente, infatti, a quello serve: a scrivere una Costituzione e non a correggerne soltanto alcune parti. Per questo l’articolo 138 garantisce tanto la Costituzione quanto l’integrità stessa del procedimento di revisione che non può intervenire se non nello specifico e non “ripensare” la Costituzione medesima e che, pertanto, non può trasformarsi in una sorta di legittimazione di una assemblea costituente indirettamente convocata sommando riforma a riforma, cercando di decostruire le fondamenta dei princìpi su cui è stata eretta la Repubblica Italiana.
Ed è anche per questo che gli articoli 138 e 139 sono stati spesso considerati dai costituzionalisti come “super-costituzionali” o “sovra-costituzionali“: perché in teoria si può, mediante la procedura prevista dal 138 revisionare l’articolo in questione, ma, come hanno bene osservato studiosi come Stefano Colloca (docente di filosofia del diritto all’Università di Pavia), ciò potrebbe avvenire solamente rispettando il carattere “rigido” della nostra Costituzione, elaborato ampiamente nei lavori della Costituente per aprire la strada a tutta una serie di garanzie e compensazioni tra i poteri dello Stato tali da impedire la ricaduta in tentazioni autoritarie o oligarchiche.
Se sull’articolo 138 esistono delle interpretazioni in merito, non ne ammette invece alcuna il 139 che è nettissimo: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». In sostanza, si può cambiare tutto ma non si può abolire la Repubblica. Qui siamo, in tutta evidenza, in presenza di una determinazione che va oltre il 138 e che, quindi, non è oggetto di discussione parlamentare in tema di riforma o adeguamento della forma dello Stato tanto a mutamenti sociali, civili o economici di sorta.
Nell’ordinamento costituzionale italiano non è prevista nessuna democrazia costituente che si intermezzi a quella definita dalla Carta del 1948, poiché si presume che la vita del Paese possa essere regolata dalla sua Costituzione che può essere riformata e rinnovata mantenendone intatta la struttura portante e intervenendo laddove si rende in tutta evidenza necessario il cambiamento del diritto in seguito a precedenti cambiamenti sociali divenuti strutturali.
Riflettendovi a fondo, è questo il significato della convocazione di qualunque assemblea costituente: da quella del 1849 nella Roma del Triumvirato di Mazzini, Saffi e Armellini fino ad un altro passaggio epocale da una forma ad un altra dello Stato.
Invocare una Costituente per delle semplici modifiche, pure importanti, della Costituzione è estendere un po’ troppo il principio tanto di “riforma” delle leggi fondamentali di una nazione quanto il binomio stesso di “assemblea costituente” che perde la sua fisionomia secolare e anche moderna di luogo non di legiferazione ma di rifondazione di uno Stato su sé stesso o di cambiamento radicale e totale. E’ un voltare pagina che non ammette ritorno al passato: mentre la Costituzione e il Parlamento contemplano in sé tanto il passato quanto il presente e si rivolgono, naturalmente, al futuro, la Costituente è prigioniera di un determinismo temporale che le assegna il compito per cui è prevista e da cui non può fuoriuscire.
Fatte queste osservazioni critiche sulle parole di Odifreddi, ritornando alla citazione del suo editoriale, c’è una precisazione ulteriore che inquieta o, quanto meno, deve far riflettere. Si tratta della frase seguente che chiude il ragionamento precendentemente citato: «Assemblea [Costituente, ndr] che dovrebbe essere eletta in maniera strettamente proporzionale ed individuale in particolare senza l’intermediazione dei partiti che sono, in realtà, una aberrazione della democrazia, perché introducono un filtro tra elettori ed eletti».
I partiti politici, previsti dalla nostra Costituzione, quindi nella nostra democrazia come elemento chiave della stessa e del funzionamento plurale delle istituzioni e della Repubblica fin ai suoi massimi livelli, dovrebbero farsi da parte perché sarebbero un impedimento (“filtro“) tra la esplicita volontà dell’elettore e la rappresentanza raccolta dagli eletti. Odifreddi li definisce “una aberrazione“.
Se sfogliamo il Dizionario Treccani e proviamo a cercarne sinonimi, vediamo che si può altrimenti definire il ruolo dei partiti, così considerato, come l’azione di chi vuole traviare le decisioni altrui, farle deviare, pervertirle e quindi far scemare quella democrazia che, invece, a detta di Odifreddi sarebbe pura e immacolata se si facesse come negli Stati Uniti dei primordi, quando ancora non esistevano le “fazioni” nel Congresso, ossia democratici e repubblicani.
Stupisce questa interpretazione tanto del ruolo dell’assemblea costituente genericamente intesa e, soprattutto, calata nel contesto italiano di oggi se si pensa che sta in un editoriale che vuole difendere la democrazia repubblicana, i valori tanto individuali quanto quelli collettivi di un vivere civile fondato sul benessere comune e sulla difesa dei diritti fondamentali di una umanità che rischia sempre più di sprofondare in nuovi esperimenti autoritari. In Europa se ne vedono parecche di queste involuzioni: dalla Polonia all’Ungheria dove si riducono sempre più gli spazi del parlamentarismo, delle opposizioni nel seno delle assemblee elettive e del dissenso pubblicamente espresso su giornali, Internet e nelle piazze.
Col difendere la democrazia a tutto tondo, pensandola come esclusiva emanazione popolare, si rischia di decontestualizzarla e di farne un mito irraggiungibile, cedendo inevitabilmente a forme di populismo e di qualunquismo che, invece, si afferma – e io credo del tutto sinceramente – di voler contrastare in tutto e per tutto.
Senza forme di aggregazione delle idee e delle volontà nei partiti o in movimenti politici che esprimono le diverse visioni di miglioramento della vita dei cittadini, di tutti, senza alcuna distinzione come scritto nell’articolo 3 sempre della nostra Costituzione, non si può immaginare una Repubblica pienamente democratica. Nemmeno si può pensare ad una forma di comunitarismo che non potrebbe reggere alla prova del confronto in Parlamento senza chiare distinzioni delle opinioni e dei programmi che si portano nelle Camere.
Nessuno può essere deputato o senatore di sé stesso, ma deve poterlo essere di una idea, di un profilo di cambiamento evolutivo e accrescitivo dei diritti sociali, civili e morali che parta dalla condivisione di tante espressioni singole: il cui apporto è fondamentale ma che mai deve prevalere su altre singolarità. La politica senza colore partitico è una zona che finisce per colorarsi di grigio e per riportarci, seppur incosapevolmente o incolpevolmente, verso approdi davvero poco felici…
MARCO SFERINI
3 settembre 2020
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