Cos’è più pericoloso: un semi-presidenzialismo di diritto o di fatto, paventato o realizzato? La domanda vuole essere tutto tranne che retorica, perché il pericolo non è così bizzarramente e frivolamente confinato nel mondo delle ipotesi, ma si sta facendo strada proprio in questa fine di secondo anno della pandemia, con un governo di emergenza nazionale guidato da un ex banchiere internazionale, sostenitore a tutto spiano delle politiche che tutelano anzitutto i grandi patrimoni, l’alta finanza e il diritto di impresa sovraordinato all’interesse comune, al benessere sociale.
Il combinato tra la trasformazione falsamente latente della Repubblica da parlamentare a (semi)presidenziale e il vasto disagio sociale, che cresce con un proporzionalità pari a quella del balzo di un PIL elogiato dall’Europa sostenitrice a tutto tondo di Draghi Presidente del Consiglio e dell’attuazione pedissequa delle direttive imposte e contenute nel PNRR, può aprire scenari tanto imprevisti quanto inquietanti nel prossimo 2022.
Non avendo sfere di cristallo sotto mano e poteri divinatori, tocca affidarsi ad una analisi piena di sensazioni e percezioni; quindi priva di quella sostanzialità dei fatti che ci permetterebbero di avere un quadro un po’ più definito della corsa verso il Quirinale.
Le differenze col recentissimo passato, anche solamente con l’elezione di Sergio Mattarella sette anni fa, sono impressionanti: non era mai accaduto che qualcuno si autocandidasse alla carica di Presidente della Repubblica (Silvio Berlusconi) e nemmeno che tra le ipotesi più concrete e realizzabili vi fosse l’attuale capo del governo. La nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri e l’elezione parlamentare (è bene ricordarlo) del Capo dello Stato non si sono mai avvicinate tanto da condizionarsi reciprocamente.
A qualcuno potrà sembrare un buon esercizio per la dimostrazione di una equipollenza dei poteri, per una verifica della tenuta democratica: in realtà parliamo di un sistema istituzionale molto fragile, nonostante la Costituzione, e, proprio per questo, sotto una costante minaccia di progressiva inedia, di consunzione a tutto vantaggio di involuzioni autoritarie o, quanto meno, oligarchiche, capaci di gestire con meno vincoli quelle politiche a sostegno delle classi dirigenti che sono sottoposte a più vagli, a più verifiche.
C’è chi giura che Draghi non ha affatto in mente tutto questo e che, anzi, proprio quel suo dirsi «…un nonno al servizio delle istituzioni» sia la migliore affermazione per descrivere una volontà invece di preservazione dell’autonomia dei poteri dello Stato. A cominciare dal Parlamento che, per la verità, appare molto frastornato, in balia di eventi incontrollabili (la pandemia su tutti) e di giochetti interpartitici sempre meno opportunistici e sempre più vistosamente patetici.
Scartando per decenza, per tutela della moralità e della legalità, l’ipotesi del Cavaliere nero di Arcore al Colle, attualmente l’unico nome capace di confermare anche in un voto per la Presidenza della Repubblica la compatezza dell’attuale maggioranza, senza escludere che anche l’opposizione meloniana vi si aggiunga, è quello di Mario Draghi. Qualunque altra ipotesi su chi prenderà il posto di Sergio Mattarella è destinata ad avere il via libera dal Parlamento in seduta comune solo dopo il quarto o quinto scrutinio.
Un po’ tutte le forze politiche vogliono al momento evitare un ricorso al voto: forse lo accarezza tenuemente Salvini per cercare uno smarcamento dalla gabbia governativa, dal claustrofobico clima leghista tra presidenti di regione pro-vax e l’ombra di Giorgetti, uno dei ministri più fedeli al Presidente del Consiglio. Forse anche Giorgia Meloni vorrebbe tentare la capitalizzazione dei consensi, ma a rischio di mandare a carte e quarantotto in un colpo solo la partita del Quirinale – rimanendone a quel punto fuori – e la legislatura divenuta emergenziale?
Le ipotesi sugli scenari probabili e su quelli più facilmente possibili sono talmente tante da assottigliarsi a tal punto da essere irrilevanti. Perché le variabili sono altrettante e quindi le composizioni e le scomposizioni tra interessi partitici, equilibri interni ed internazionali e tenuta della maggioranza in rapporto all’elezione presidenziale sono quasi infinite.
La conferenza stampa di fine anno è servita più che altro per sancire quello che stava surrettiziamente ancora tra il detto (fin troppo) e il non detto (altrettanto inflazionato): Draghi non fa il gran rifiuto. Anzi: si mette su piazza: ufficialmente al servizio del Paese, lasciando al Parlamento la piena sovranità in merito, ma dicendo a chiare lettere quell’ “eccomi, ci sono“, che non ha la grossolanità berlusconiana dell’autocandidatura smargiassa, ma la finezza tutta istituzionale che Draghi intende trasferire al Quirinale nel segno della continuità con lo stile mattarelliano.
Una perfetta identità di vedute tra il Quirinale e Palazzo Chigi chiude questo 2021 e si avvia all’anno nuovo in mezzo ad una serie di difficoltà che è difficile pensare siano sottovalutate da un esperto e navigato uomo di “economia – politica” come Mario Draghi. Con le risposte date alla conferenza stampa, ha aperto un mese di campagna quirinalizia, consegnando ai partiti della sua maggioranza la responsabilità davanti al Paese di andare avanti nonostante lui, oltre lui.
Quella che viene letta oggi da alcuni commentatori, sulla falsariga di una disinvolta e disincantata presa di posizione di Draghi, come una imprudenza draghiana, è al contrario una mossa molto abile che permette al Presidente del Consiglio di tenersi aperte tutte le vie di accelerazione e di fuga. Al momento i mercati e le grandi istituzioni europee a difesa del liberismo non possono che commentare positivamente tanto i risultati del governo quanto le ambizioni malcelatamente negate dall’ex presidente della BCE; il tutto mentre l’arco delle forze parlamentari è gettato in piena paranoia prefestiva, guardando a gennaio come al mese cruciale della vita politica italiana degli ultimi anni.
Se gli interessi di piccola bottega di alcuni partiti rimangono tali, molto più importanti sono le pretese (fatte passare come auspici e aspirazioni) della UE su una Italia che preservi le linee direttrici di tutela dei profitti e degli interessi padronali messe in atto dall’esecutivo.
Se diventerà Presidente della Repubblica italiana, Mario Draghi il suo primo discorso al Parlamento lo ha praticamente già fatto: continuare nel solco da lui tracciato senza deviare di un millimetro. Questo non sarà un semi-presidenzialismo di diritto, forse lo sarà di fatto o forse, come qualcuno si affretterà a rimarcare, sarà solamente il principio di una presidenza tutt’altro che simbolica e di transizione. Sarà una nuova stagione liberista per una Italia all’inizio del terzo anno nell’era della pandemia globale.
MARCO SFERINI
23 dicembre 2021
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