Nei giorni scorsi, secondo i grandi mass-media internazionali, il governo statunitense ha allentato il blocco economico contro Cuba. Il presidente Barack Obama ha infatti emesso una Direttiva presidenziale per rendere “irreversibile” l’apertura verso l’isola. Una Direttiva grazie alla quale “consolida” i cambiamenti adottati dal suo governo, nel quadro di una normalizzazione bilaterale che cerca di promuovere un “maggiore impegno” tra i due Paesi.
Secondo la vulgata dominante, la nuova politica vuole migliorare i rapporti tra i due governi, l’espansione del commercio bilaterale ed alleviare le restrizioni sulle rimesse tra le due nazioni, decisione che risponde a necessità umanitarie, di viaggio e di studio. Insieme alla Direttiva presidenziale, il Dipartimento del Tesoro e quello del Commercio hanno annunciato altre misure di flessibilizzazione al blocco, destinate a facilitare la collaborazione scientifica, l’aiuto umanitario ed a rafforzare il commercio bilaterale, compreso quello di sigari e rum, prodotti emblematici di Cuba. Secondo il portale “Usa Today”, i Cubani potranno comprare via internet prodotti statunitensi.
Le misure sono entrate in vigore lo scorso 17 ottobre.
Ma una lettura più attenta del documento, oltre alle luci, ne segnala le ombre.
Per cominciare la direttiva chiarisce che “fino a che si manterrà il blocco, la nostra funzione sarà di applicare le politiche che permetteranno l’interazione del settore privato degli Stati Uniti con il settore privato emergente di Cuba e con imprese statali che offrono beni e servizi alla popolazione cubana”. In altre parole, nonostante il blocco rappresenti l’ostacolo principale per la normalizzazione dei rapporti economici, è palese la priorità data al settore privato a scapito di quello pubblico (maggioritario a Cuba), con l’obiettivo politico di condizionare e dividere il Paese.
Le misure mantengono la proibizione degli investimenti degli Stati Uniti a Cuba, eccetto che nel settore delle telecomunicazioni, già approvati agli inizi del 2015.
Ad oggi non si è materializzata l’annunciata autorizzazione dell’uso del dollaro nelle transazioni internazionali di Cuba, né la possibilità che le banche statunitensi concedano credito a importatori cubani di prodotti statunitensi autorizzati.
Secondo Josefina Vidal, “Direttrice Generale Stati Uniti” del Ministero degli Esteri cubano, la direttiva Obama è “un passo significativo del processo verso la fine del blocco e verso il miglioramento delle relazioni tra i due Paesi” . Ma secondo la stessa Vidal, le nuove misure del governo statunitense “in generale favoriscono più gli Stati Uniti che il popolo cubano…e la Casa Bianca non rinuncia a strumenti ostili come le trasmissioni illegali e la divulgazione di programmi sovversivi contro la più grande delle Antille”.
Se la Direttiva Obama recita che “non cercheremo un cambio di regime a Cuba” nel capitolo sulla “promozione dei diritti umani”, dal canto suo il governo cubano l’ha accolta con riserva, dato che “non nasconde l’intenzione di continuare con programmi di ingerenza”.
Come è noto, quella di Washington è una ingerenza di una potenza imperialista abituata a comandare su scala planetaria, con le buone o con le cattive. Ma oggi Washington è obbligata a modernizzare il suo arsenale contro l’isola, dopo aver pagato un alto prezzo per sovvertirne il governo e non avere portato a casa nessun risultato significativo.
L’anatra zoppa fa dribbling
Con la Direttiva Presidenziale, Obama, “anatra zoppa” (che non conta con la maggioranza parlamentare) con un dribbling si smarca da due avversari.
Da una parte evita il Congresso, dominato dai falchi anti-cubani, che ha approvato la legislazione che promuove e inasprisce il blocco (tuttora intatta) e che è l’unico organismo che potrebbe rimuoverlo.
Durante la sua visita a Cuba, nel marzo 2016, Barack Obama, aveva di nuovo affermato che la politica del blocco nei confronti dell’isola è obsoleta. Dopo avere detto che “fa solo danni al popolo cubano, invece di aiutarlo”, aveva chiesto nuovamente al Congresso di mettervi fine. Ma ancora pochi giorni fa, il Presidente della Camera dei Deputati, il repubblicano Paul Ryan, ha accusato Obama di voler appoggiare il governo di Cuba, aggiungendo che le sue azioni danneggiano le compagnie statunitensi. Ryan ha ribadito di voler mantenere il blocco dopo la fine del mandato di Obama.
Dall’altra, Obama si mette al sicuro anche dalla politica estera dell’oggi favorita Hillary Clinton, sua compagna di partito non troppo affidabile. Nel 2008, la Clinton era stata sconfitta nelle primarie democratiche proprio da Obama, che però la chiamò nel suo governo a capo del Dipartimento di Stato, dove si distinse per una politica estera a dir poco bellicosa (Libia docet).
La direttiva presidenziale cerca quindi di “blindare” i risultati degli ultimi due anni dai possibili interventi dei governi post-Obama. Una sorta di protezione delle politiche di normalizzazione dei rapporti cubano-statunitensi dall’andirivieni della leadership repubblicana e democratica. È appena il caso di ricordare che Donald Trump ha reiterato la sua contrarietà al processo di avvicinamento in corso, minacciando di romperlo in caso di sua vittoria.
Guantanamo inamovibile
Sulla chiusura del carcere di Guantanamo, siamo ancora in alto mare. Nel passato, a proposito delle flagranti violazioni dei diritti umani, lo stesso Obama si era spinto a dichiarare di voler “continuare a usare la mia autorità come Presidente per garantire che mai più ricorreremo a questi metodi”.
Ma a parte la riduzione del numero dei prigionieri (da 779 prigionieri a 91), la verità è che non è successo nulla di significativo. L’ennesima prova che una cosa è arrivare al governo e un’altra è avere il potere, sufficiente a piegare la volontà dei comandi militari che sono coloro che prendono molte decisioni chiave in un Paese governato saldamente da un’élite poderosa. Dopo che a febbraio il governo aveva presentato un piano per la sua chiusura al Pentagono con l’aperta ostilità del Congresso, la decisione è rimandata al prossimo governo a stelle e a strisce.
Men che meno si avanza sulla base navale di Washington a Guantanamo. Nel testo si legge che “Il governo degli Stati Uniti non ha intenzione di modificare il trattato d’affitto vigente e altre disposizioni relazionate con la Base Navale di Guantanamo, che permette agli Stati Uniti di migliorare e preservare la sicurezza nazionale”. Più chiaro di così impossibile: il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Un atto di guerra e di genocidio
Il bloqueo va avanti dal 1960, brutale ed anacronistico, e nessun Paese ne ha sofferto per così lungo tempo e con danni così ingenti che, secondo i calcoli dell’isola, ammontano (in base a calcoli conservatori) a più di 125mila 823 milioni di dollari a prezzi correnti.
Si tratta di una violazione, flagrante e sistematica, dei diritti umani del popolo cubano: un atto di genocidio secondo la Convenzione di Ginevra per la Prevenzione e Sanzione del delitto di Genocidio del 1948 ed un atto di guerra d’accordo alla Convenzione di Londra del 1905.
Un blocco che si accanisce contro i rapporti economici cubani con Paesi terzi, e che ne evidenzia il carattere extra-territoriale. Ciò si riflette nelle multe milionarie contro banche, istituzioni finanziarie ed imprese per le loro relazioni con Cuba e nella restrizione alle operazioni finanziarie internazionali cubane.
Sono tiepide quindi le reazioni del governo cubano, secondo il quale le misure esecutive approvate da Obama sono insufficienti, limitate e non significano l’abbandono totale e definitivo del blocco.
Il Presidente degli USA possiede ampie facoltà esecutive che gli permetterebbero smantellarlo in modo sostantivo, anche se la sua eliminazione totale dipende dal Congresso. Ma non sono bastate a convincerlo neanche le 24 risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU, dove la schiacciante maggioranza degli Stati membri hanno chiesto di porre fine a questa politica, di rispettare il Diritto internazionale e la Carta dei Principi della stessa ONU.
I passi avanti
Nonostante i problemi e le palesi contraddizioni, non bisogna dimenticare i passi avanti storici degli ultimi 22 mesi. Un elenco non esaustivo include innanzitutto la ripresa dei rapporti diplomatici con la riapertura delle ambasciate nei rispettivi Paesi. Prima di Obama, dal 1928 un Presidente statunitense non metteva piede sull’isola. Sei ministri statunitensi hanno visitato Cuba e quattro ministri cubani hanno viaggiato negli Stati Uniti e si è creata una commissione bilaterale per discutere i temi prioritari.
Insieme alla firma di accordi in quanto a protezione ambientale, santuari marini, salute e ricerca biomedica, agricoltura, lotta contro il narco traffico, servizio postale e idrografia, si sono avviati dialoghi per quanto riguarda regolamenti economici e la spinosa questione dei reclami ed indennizzi.
Sono solo alcuni degli elementi positivi tra due Paesi che fino a due anni fa non avevano neanche un elementare vincolo diplomatico. Ma la strada è ancora lunga per normalizzare davvero i rapporti tra i due vicini, separati da 90 miglia di mare, e da una lunga e burrascosa storia di conflitto negli ultimi due secoli.
E che oggi sono protagonisti anche di una battaglia culturale e simbolica tra socialismo e capitalismo, decisiva nella Cuba di oggi.
MARCO CONSOLO
responsabile America Latina del Partito della Rifondazione Comunista
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