«Per il bene del Paese», «Nell’interesse esclusivo del Paese», «Noi non guardiamo al nostro partito ma solamente al bene e all’interesse esclusivo del Paese». Somiglierebbe ad un sillogismo aristotelico, con tante scuse al grande filosofo ellenico, ed invece è una serie di tre frasi che vorrebbero non essere di circostanza ma che finiscono con l’esserlo. Usate, abusate in ogni intervista giornalistica televisiva, cartacea e internettiana.
Del resto che cosa ci si attende davanti alle tante domande retoriche che vengono poste ai segretari di partito, a deputati e senatori: «Voi per cosa lavorate?». Volete forse che rispondano la verità?, «Per trovare il modo di far sembrare utile al Paese un interesse di parte, oltre che di partito, adattabile a questa o quella situazione. Ciò che conta è avere voce in capitolo nella suddivisione dei fondi del Recovery Fund, accreditarsi presso le grandi centrali del potere economico come forze credibili a rappresentare i nuovi assetti economici che si creeranno dopo la pandemia.».
Questa risposta, quella vera, non la potranno mai confessare apertamente. Mai come nelle crisi di governo, quando le carte vengono sparigliate e tutto si rimette in gioco, l’ipocrisia politica sovrasta la politica stessa, quella che dovrebbe invece essere strumento per la soluzione concreta dei problemi reali della società e che soggiace al gioco dell’unanimità delle voci nel nome del patriottismo, della necessaria unità per fronteggiare il pericolo che corre la nazione.
Alcuni scelgono di essere camaleontici, altri invece tentano una prima linea di resistenza agli eventi cercando di far passare il messaggio che, in fondo, nulla può cambiarli veramente. Solitamente i camaleontici sono i più arrivisti ma anche i più sinceri. Involontariamente, si intende, perché almeno si mostrano da subito per ciò che sono: dei trasformisti, artisti dell’adattabilità a qualunque costo, cercando un credito politico e magari anche un posto al sole nella nuova stagione governativa che pare aprirsi con una pletora sempre più ampia di corifei multistrati, multicolori, dai perimetri ideologici e programmatici semoventi.
Ma del resto, da chi un tempo era comunista ed ora si trova, dopo anni di lavacri purificatori, a dichiarare che, coerente col principio della partecipazione alla costruzione del «bene del Paese», è pronto a sedere al governo con Berlusconi e Salvini, dopo aver stretto un patto con i grillini, ci si può aspettare un qualche riferimento ad una linearità ideal-ideologica?
Stesso discorso vale per chi era secessionista ed è diventato il più patriota dei patrioti, il sovranista dei sovranisti e viaggia a vele spiegate verso un ritorno al governo che gli consentirebbe di mostrare una qual certa compatibilità con la famiglia europeista, pur mantenendo – ovviamente per coerenza! – i paletti rigoristici contro tassazioni patrimoniali, per le grandissime opere che devasterebbero altre porzioni di paesaggio, natura e ambiente della povera Italia e non deviare dalla battaglia delle battaglie: sbarrare la strada ai migranti nel nome pure dell’emergenza sanitaria.
Nessuno è esentato dal trasformismo italico, nemmeno quelli che sono nati con l’irriverente primo vagito del «Vaffanculo», urlato per dimostrare che anche a partire dal linguaggio vi era la volontà di stravolgere il sistema dei partiti, aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno (vedete che è meglio essere vegetariani…!), per accettare compromissioni eclatanti, passando dallo splendido isolazionismo purista dei primi tempi ai contratti con la Lega prima e alle alleanze con Renzi e Zingaretti poi.
Tutto questo balletto di convulsi cambi di partner, di giri di valzer impazziti, trova una spiegazione razionale se si osserva la politica italiana per quello che è: esclusivamente politica istituzionalizzata, astratta dal rapporto con le classi popolari, con il mondo del lavoro e dello sfruttamento, con il substrato dilagante di una crescente indigenza, di una povertà che non emancipa nessuno ma accresce il disagio nei confronti soprattutto delle giovani generazioni.
La stragrande maggioranza della popolazione si è affidata nel recente passato a voti di protesta, a repentini cambi di schieramento politico, oppure ha smesso categoricamente di recarsi alle urne per manifestare un disagio che tutti hanno detto di aver compreso ma per il quale non è stata trovata nessuna cura efficace. La pandemia ha ulteriormente aggravato le condizioni economiche di milioni e milioni di famiglie, di persone sole, di giovani e anziani, di un ceto medio che è sempre a metà strada tra il ritorno al piano inclinato della sopravvivenza o l’emancipazione verso il gradino più alto, il salto di qualità che, spesso, si trova oltre frontiera, al di là di quei confini che si pensa siano minacciati non tanto dal liberismo condiviso da Monti, Fornero, Draghi, dal PD e dalle forze di destra, quanto dai migranti.
Non esistono ricette magiche per salvare l’Italia e metterne in sicurezza sociale tutte e tutti coloro che vivono del proprio precario, parcellizzato lavoro. Ma esistono necessità di classe che devono diventare proposte politiche, iniziando da una analisi della crisi economica che prende il via dal 2008 con una esplosione delle bolle speculative, con l’implosione interna dei mercati finanziari e la fine di grandi protettori delle accumulazioni indebite di capitali a tutto scapito dei popoli.
Per pagare i danni di queste speculazioni, ovviamente si è fatto ricorso a capitali pubblici: tanto nelle Americhe quanto nell’Europa della BCE di Draghi. Così l’indebitamento da privato è divenuto pubblico, si è accresciuto a tal punto che alcuni Stati, come la Spagna e soprattutto la Grecia, hanno rischiato la bancarotta totale. In questo complicato corto circuito finanziario né i governi nazionali, né Mario Draghi hanno pensato di intervenire fino a quando i parlamenti dei paesi con l’acqua alla gola non si sono messi al collo il cappio del “Fiscal compact“; finché cioè non sono stati costretti a legarsi mani e piedi a condizioni veramente da capestro per salvare le proprie economie nazionali.
Se incorniciata nel contesto dell’austerità europea, approvata da tutte le forze politiche (sovranisti vecchi e nuovi compresi), la politica italiana che ricorre a Mario Draghi per “salvare la Patria” ottiene la sua giusta contestualizzazione ma nessuna giustificazione possibile perché quegli interventi della BCE nei cosiddetti “salvataggi” delle economie nazionali, nella tutela dell’Euro da una sua svalutazione verticale, nella riduzione del differenziale tra i titoli di Stato (spread), non sono stati messi in essere da una logica di salvaguardia delle tutele dei più deboli, dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati o dei pensionati.
Tutt’altro. Sono stati concepiti come regole comprimenti ciò che rimaneva dei già residuali pezzi di stato-sociale: l’Italia con le controriforme del governo Monti ha agito di conseguenza, ma nella assoluta convinzione che solo una piena adesione alla visione liberista della BCE avrebbe sanato i conti di uno Stato vicino alle sorti della Grecia e che, in questo modo, il capitalismo italiano avrebbe perso molto meno di quanto gli sarebbe costato rimediando mediante il ricorso alle proprie cumulazioni di profitti.
Per far ingoiare tutti questi rospi alla povera gente, si è raccontato da parte dei governi che si sono succeduti – e non solo da Monti in poi – che la causa del debito pubblico italiano era la spesa pubblica e che, quindi, non tanto gli imprenditori dovevano fare i sacrifici, quanto il popolo intero. Oggi, per esaltare la figura di Draghi si prende a prestito il suo mentore Ciampi, già governatore della Banca d’Italia e poi Presidente della Repubblica. Fu proprio allora, nei primi anni ’90 che facendo di Bankitalia un istituto autonomo si obbligò lo Stato italiano a finanziare il proprio debito pubblico ricorrendo ai mercati finanziari.
La privatizzazione del credito e non la spesa per le tutele sociali ha prodotto l’aumento del debito pubblico, visto che lo Stato si è trovato davanti a saldi di interessi esorbitanti che, in definitiva, hanno duplicato la percentuale del passivo nazionale, facendolo ricadere sulla già ben misera vita di milioni e milioni di italiani che hanno così pagato le colpe dei tracolli di banchieri, speculatori finanziari e avventuristi del liberismo moderno.
La strategia di Ciampi allora, se è stata di “insegnamento” per Mario Draghi, fa presagire un ritorno a politiche che vesseranno la quantità di cittadini e non pescheranno invece dalla qualità dei cumuli di capitali. Poco (si fa per dire…) da tanti è meglio – nella logica del banchiere – di molto da pochi: questi ultimi sono i grandi possidenti, coloro che possono portare i capitali all’estero, successivamente farseli proteggere con scudi fiscali se intendono farli rientrare in Italia, e che non pagano quindi un euro di tasse in patria; i primi, invece, sono quelli che al fisco non possono sfuggire, per via delle trattenute in buste paga o perché le partite IVA non glielo permettono e sono costretti ad essere ciò che tutti dovrebbero essere: onesti.
Siccome all’origine del disastro economico italiano è stata messa la spesa pubblica, come elemento cardine di crescita del debito dello Stato, questa è da trent’anni che viene tagliata. Eppure il debito non cala così verticalmente, mentre a precipitare nella povertà assoluta sono sempre più i cittadini comuni. Non certo i grandi banchieri e i grandi industriali. La ricetta del probabile futuro governo di Draghi seguirà queste impostazioni: interventi non di certo sui grandi patrimoni, ma principalmente tutela delle imprese, ossia tutela dei grandi capitali da qualunque tentativo di risoluzione della crisi economica facendo ricorso a prelievi patrimoniali o ad una fiscalità fortemente progressiva.
I soldi del Recovery Fund saranno indirizzati in tal senso, così come vuole Bonomi, così come reclamano dall’Unione Europea i commissari economici e la presidente von der Leyen.
Per questo dire NO al governo di Draghi non è una pregiudiziale ideologica, ma è semmai il preciso risultato di una analisi economico-politica di una fase dove il capitalismo intende profittare della pandemia per recedere il meno possibile e conquistare nuove fette di mercato entro le quali speculare alla grande. Il tutto a spese dei moderni proletari, della povera gente che sbarca il lunario con grande fatica.
In estrema sintesi, se si chiede da che parte stiamo, ebbene stiamo dalla parte di quel rider di cinquant’anni, con moglie e figlia, che andando troppo veloce per le vie di Milano è caduto ed è morto investito da un’automobile. Ma la colpa non è dell’automobile e nemmeno del rider. Non è nemmeno di chi ha ordinato la cena quella sera. Eppure qualche banchiere, economista e partigiano del liberismo cercherà di convincervi che non c’è colpa nel sistema che ha costretto quell’uomo a salire su una bicicletta e a lavorare alla giornata. La colpa è una evanescenza, sta nell’aere, perché il “datore di lavoro“, visto che “dà il lavoro“, che colpe mai può avere…
MARCO SFERINI
5 febbraio 2021
foto: screnshot