La nuova coalizione di governo già traballa prima di cominciare ed è ancora molto difficile immaginare quale sarà il vero risultato del presunto cambiamento di governo in Israele. È anche difficile tradurre in parole il senso di questa fase che ricorda un po’ gli ultimi giorni di Ceausescu in Romania. Non è certo che l’opposizione riesca ad arrivare al giorno del giuramento in Parlamento unita e con i voti necessari.
I lunghi anni di governo di Benjamin Netanyahu hanno registrato un peggioramento da quando l’ufficio del procuratore generale nazionale ha deciso per la necessità di una via giudiziaria di fronte ai casi di corruzione imputati al premier. Per quest’ultimo, man mano che si avvicinavano i giorni del processo e ancora di più quando è iniziato, è diventato chiaro che occorreva fare di tutto per non arrivare alla sentenza: una condizione per evitare il carcere.
Netanyahu ha fatto di tutto per rendere impossibile la pace, così da portare a termine il piano della destra fondamentalista fin dal 1967: annettere tutti i Territori palestinesi occupati grazie alla guerra di quell’anno, continuare la politica di spoliazione dei palestinesi, portare sempre più coloni nei territori occupati celando, sotto le parvenze di una presenza dal volto «liberal», un’operazione brutale favorita dalla compiacenza internazionale.
L’odio verso i palestinesi in Israele e nei territori occupati è diventato sempre più necessario per mobilitare la destra israeliana, il veleno della provocazione permanente ha fatto parte della retorica del premier e dei suoi lacché nel Likud, partito addomesticato e obbediente che non fiata finché il leader al governo assicura benefici.
L’ultima guerra contro i palestinesi a Gaza non è stata altro che un nuovo capitolo della campagna per separare Gaza dalla Cisgiordania, approfondire le divisioni fra i palestinesi e giustificare il fallimento dei negoziati proprio con i palestinesi.
Negli ultimi due anni gli israeliani si sono recati alle urne quattro volte. Due questioni erano fondamentali: Netanyahu aveva scoperto che la chiave poteva essere la distruzione elettorale della Lista araba unita che aveva ottenuto 15 seggi alla Knesset. Attirare gli elementi islamici della lista ha permesso di rompere il tabù: anche i palestinesi in Israele possono partecipare ai negoziati politici, ha detto il premier.
Così il partito è stato diviso e l’insuccesso elettorale è stato grave: i collaborazionisti di Netanyahu hanno ottenuto quattro seggi e la Lista solo sei.
Molti elettori palestinesi, disgustati, si sono astenuti. I quattro voti della lista araba collaborazionista avrebbero assicurato al premier la possibilità di costituire nuovamente una coalizione di destra fondamentalista, ma si sono ribellati i razzisti estremi, i quali grazie all’aiuto dello stesso premier avevano potuto ottenere sei seggi.
La seconda questione aveva a che vedere con la presunta alternativa a Netanyahu: la nuova lista con a capo generali patriottici si è arresa alla presunta necessità di unità nazionale ai tempi del coronavirus, provocando un’enorme delusione tra coloro che sognavano di porre fine all’era Netanyahu.
Aiutato da un suo famiglio, il ministro della polizia, il premier ha iniziato l’escalation sfociata nell’ultima guerra. Un grande «successo»: ancora una volta possiamo vedere edifici distrutti e palestinesi morti, tutto in nome del sacrosanto diritto all’autodifesa. Quando la parola è passata alle bombe, Naftali Bennett, presunto leader dell’alternativa, ha detto che non era il momento di continuare a cercare un sostituto di Netanyahu. Dopo qualche giorno ha cambiato idea e oggi è il candidato premier.
Sarà un gran giorno, quello dell’abbandono della poltrona di primo ministro da parte di Netanyahu. Ma non è certo oggi, nonostante gli appoggi alla nuova coalizione. L’incognita maggiore è legata all’alternativa a Netanyahu. Molti degli elementi centrali della nuova coalizione appartengono alla destra razzista. Alcuni non sono meno nazionalisti e fondamentalisti del premier: Bennett, candidato premier, guidava il Consiglio dei coloni nei Territori. Il candidato a ministro della giustizia sarà Gideon Saar: proviene dal Likud, nel quale è stato sconfitto da Netanyahu che lo vedeva come un rivale interno minaccioso. Liberman, ex ministro della difesa e accusato di diversi casi di corruzione, sarà il titolare del ministero delle finanze.
Gantz, il «moderato» ministro della difesa, rimarrà al suo posto e Yair Lapid, accusato di essere «sinistrorso», fungerà da ala liberale moderata che non si discosta in modo radicale dal nazionalismo imperante. Nell’ala sinistra del governo troveremo rappresentanti di Meretz e del Partito laburista che daranno voce al femminismo e agli attivisti gay-lesbo-trans. Se ne gioverà il turismo europeo giovanile a Tel Aviv.
Tutto questo potrebbe essere un passo necessario per ristabilire alcune regole democratiche dimenticate, potrebbe contenere il razzismo dilagante che viviamo in questo periodo, ma non aprirà un nuovo cammino di negoziato vero con i palestinesi, per stabilire una società egualitaria e cambiare la realtà dei fatti.
ZVI SCHULDINER
foto: screenshot tv