Finito il meeting di Comunione e liberazione, nei prossimi giorni le discussioni sulla manovra per il 2018 ritorneranno da Rimini a Roma. Ma intanto il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, domenica, davanti alla platea dell’associazione cattolica, ha tracciato un primo identikit delle mosse che il governo intende intraprendere: in continuità con il Jobs Act di Renzi, ha detto chiaramente, e torneranno gli sgravi per le assunzioni. Ma saranno modulati in modo diverso: probabilmente cambierà la platea interessata (i più giovani) e la durata (una parte dello sconto sui contributi potrebbe diventare strutturale).
Intanto, seppure le news siano per il momento solo parziali – siamo ben lontani dall’avere un testo dettagliato – intorno all’esecutivo si muovono le differenti reazioni, dalle imprese ai sindacati, fino all’opposizione e a parte della stessa maggioranza. Mdp-Articolo 1, in particolare, punta i piedi e chiede «discontinuità» soprattutto rispetto all’epoca Renzi, dovendo preparare una stagione elettorale in cui sarà importante distinguersi dal Pd.
La situazione è particolarmente delicata al Senato, come è noto, e già il 30 settembre servirà una maggioranza per la Nota di aggiornamento al Def. Un documento che sarà certamente più roseo di quello di primavera – visti i migliori dati sulla crescita – ma che non potrà mai essere alieno da tensioni. Soprattutto per quanto riguarda le ricette: la coperta resta corta e il dove investire segnerà comunque una scelta.
Roberto Speranza ha piantato i paletti di Mdp: «Vogliamo una totale discontinuità – ha detto – Basta bonus fiscali con l’occhio alle elezioni, basta spot. Servono investimenti, investimenti, investimenti».
Ma quali sarebbero gli ingredienti di questo nuovo intervento a favore dell’occupazione? Al momento si prevede una nuova tornata di sgravi contributivi (dopo quelli del triennio 2015-2017) che diventerebbero però permanenti. Si tratterebbe di un taglio del 50% dei contributi per le assunzioni a tempo indeterminato o con contratto di apprendistato degli under 29 o degli under 35. Una soluzione di mediazione vedrebbe l’asticella dell’età fermarsi a 32 anni.
La nuova decontribuzione potrebbe durare per i primi 2 o 3 anni dall’assunzione e sarebbe «portabile», cioè rimarrebbe in capo al lavoratore anche in caso di cambio del posto di lavoro. Questa misura avrebbe un costo di circa 900 milioni, che raddoppierebbe salendo a circa 2 miliardi dal secondo anno. Accanto a questa primo intervento, il governo vorrebbe però fare un passo ulteriore tagliando, dal terzo anno, di 3 o anche 4 punti l’aliquota contributiva standard che passerebbe così dal 30-33% al 26-29% nel caso di riduzione di 4 punti.
Solo ipotesi, come detto, ma che già fanno comprendere l’indirizzo verso cui verrebbero spedite le (poche) risorse in ballo. Il cuneo verrebbe tagliato – è questa l’ulteriore novità – non solo a favore delle aziende, ma anche con un beneficio per le buste paga, in modo da fondere idealmente i due bonus dell’era renziana, gli 80 euro e gli incentivi ai contratti a tutele crescenti del 2015.
Confindustria, da tempo sostenitrice delle politiche di Renzi, ha ribadito che si va nella giusta direzione, ma ha spinto a non demordere, e anzi ad adottare soluzioni shock: «Suggeriamo di adottare una misura shock a favore dei giovani assunti stabilmente nelle imprese, cioè l’azzeramento del cuneo fiscale per i primi tre anni», ha detto il presidente degli industriali Vincenzo Boccia.
La Cgil non fa mistero di preferire una politica di investimenti ai bonus, mentre la Cisl – con il segretario Fim Marco Bentivogli – chiede che gli incentivi vadano solo «alle aziende che danno lavoro stabile». Carmelo Barbagallo della Uil sollecita il contratto per gli statali.
Enrico Zanetti (Scelta civica) chiede di «escludere dai nuovi sgravi i datori di lavoro che, parallelamente alle nuove assunzioni agevolate, procedessero a cessazioni di contratti già in essere con altri lavoratori assunti con le vecchie agevolazioni che terminano quest’anno». Evitare le furbate, insomma.
ANTONIO SCIOTTO
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