Giorni fa, iniziando a scrivere un articolo, ho sbagliato a digitare sulla tastiera le cifre che compongono l’anno in corso. Invece di 2022 ho premuto un nove al posto di uno zero e così mi sono proiettato, come l’uomo che visse nel futuro, di ben nove secoli avanti. Un refuso molto comune, frequente per chi sta ore e ore con le dita sopra una tastiera. Eppure, questo banalissimo errore, subito corretto, mi ha fatto pensare: se davvero fossimo nove secoli avanti, come sarebbe il mondo?
E’ evidente che nessuno può saperlo, tanto meno maghi, astrologi e ciarlatani vari che si arrogano poteri inesistenti e percezioni altrettanto funambolesche sulla corda mal tesa dell’irrazionalità umana, dell’incertezza come luogo di fondamento di misticismi moderni che richiamano ad antiche credenze e che alimentano, pure loro, pregiudizi atavici, difficili davvero da scrollarsi da addosso.
Oggi il mondo è dominato da un capitalismo liberista che preme sull’accumulazione di grandissime ricchezze nel sempre minor numero di mani e che immiserisce, di contro, sempre il maggior numero di individui, opprimendo tutte le altre specie viventi e facendo strame della natura. Oggi il mondo è quindi privilegio di classe evidente e lotta di classe apparente; è divaricazione sociale esponenziale, diseguaglianze crescenti, discriminazioni prevalenti sull’uguaglianza civile nonostante i proclami e le scritture costituzionali che sanciscono l’opposto di ciò che avviene.
Oggi il mondo è imperialismo che si esprime attraverso la violenza dei conflitti armati, di guerre sparse ovunque in quattro continenti su cinque (ma forse nemmeno l’Oceania si salva se si sbirciano le tribalità imperiture di certe ex colonie olandesi…), ed è quindi lotta per la supremazia di Stati, governi e popoli su altri Stati, su altri governi e soprattutto su altri popoli: per lo sfruttamento di questi stessi, delle loro risorse primarie e di tutte le infrastrutture costruite per sviluppare economie indipendenti, al fine di migliorare la vita soltanto di una parte del pianeta, di una parte della sua umanità, di una parte del suo ecosistema.
Una contraddizione evidentissima, perché tutto si tiene e il “villaggio globale” non ha lasciato il passo ad un nuovo modello di sviluppo. Per quanto il capitalismo possa resilientemente adattarsi alle tensioni che si sviluppano in seno alle società composite che fronteggiano macroeconomie devastanti, non può arginare la rivolta naturale, di Gaia, del pianeta che vive e che pretende di sopravvivere nonostante l’essere umano e la sua dittatura antropocentrista.
Dunque, come sarebbe il mondo nel 2922? Speriamo che sia riuscita almeno la natura a far fuori il capitalismo, a costringere la nostra specie ad un confronto con un pragmatismo di sopravvivenza comune cui saremmo dovuti arrivare già da molto tempo. Forse nove secoli saranno sufficienti per capovolgere millenni di ingiustizie, di sopraffazioni, di devastazioni e guerre contro noi stessi animali umani, contro gli animali non umani e contro questa terra in cui siamo ospiti per, al massimo, una decina di decenni.
Nessun elemento trascendentale, nessuna considerazione teoleologica: a quel che è dato osservare, prescindendo, si intende, da tentazioni metafisico-deistiche, l’organizzazione dell’Universo può fare tranquillamente a meno dal fallimento dell’umanità che diventa enorme solo nel microcosmo terrestre. Un alibi che non ci è concesso avere, perché noi siamo qui e qui dobbiamo rimanere. Pertanto, se vogliamo migliorare le condizioni di vita di ogni essere senziente e dell’habitat in cui condanneremo a vivere le generazioni future che già stanno crescendo, l’imperativo categorico che ci dobbiamo dare è mettere fine ai presupposti che autorizzano l’automatismo della rigenerazione capitalistica.
Il sistema, vista la sua enormità e la globalità, non bada al singolo essere umano, al singolo essere vivente. Concepisce di per sé, per come è stato via via strutturato tramite i rapporti di forza dell’economia, la grandezza del numero, lo scontro con una entità di massa che non gli dia tregua ovunque. Nel corso degli anni ’90, dopo il crollo dei regimi del socialismo reale e la fine della contrapposizione ufficiale tra USA e URSS, uno degli slogan che andava per la maggiore e che, con grande acume, sintetizzava i progetti di lotta era: “Agire locale, pensare globale“.
Per un po’ di tempo divenne la bussola dell’anticapitalismo: dalle Americhe dove si diffondevano le lotte zapatiste e un neo-anticolonialismo questa volta rivolto contro i proprietari monroeniani del “Cortile di casa“, fino all’Europa aggrovigliata nelle matasse indistricabili di un liberismo che si poneva come assemblea costituente di un Vecchio Continente unito soltanto su base monetaria, economica e finanziaria.
L’azione territoriale, inquadrata in un più ampio contesto, che superasse gli stantii confini nazionali, preconizzava la possibilità che si ricostituisse una “Internazionale” degli sfruttati di tutto il mondo, andando oltre le categorie sovrastrutturali novecentesche, superando le incrostazioni delle tante, troppe divisioni del e nel movimento dei lavoratori, mettendo insieme sensibilità e pure obiettivi diversi per raggiungere uno scopo comune: costringere il capitalismo a ridurre i propri interventi nel pubblico, ridimensionarne le pretese e arginarne la prepotenza liberista.
La controffensiva dei “forum sociali“, da Porto Alegre a Davos, è stata affrontata dal capitale con una risposta non inedita ma sicuramente destabilizzante: la guerra.
Il conflitto locale tra governo messicano e zapatismo era un tipo di “guerra locale, logica globale“. Un paradigma, una scritta scolpita nel manuale non scritto della conduzione mondiale di un dominio occidentale che ha cercato il suo nuovo spazio dopo la ridefinizione degli equilibri post-’89. La lotta di Marcos e del suo popolo ha mostrato al mondo che la ribellione è sempre possibile e che non è una prerogativa di chi sta peggio ed è sul lastrico della disperazione. Chiunque può organizzarsi sindacalmente, politicamente e socialmente per mettersi in mezzo rispetto all’avanzata incontrastata del liberismo.
La guerra fu la risposta, dunque. La risposta ad una rimodulazione delle coscienze che stava prendendo piede e che avrebbe potuto diffondersi davvero globalmente. La paura, le fobie antisociali e incivili, una immoralità diffusa saldata ad un patriottismo neonazionalista di bassa lega, una spinta propulsiva verso il “si salvi chi può“, sono state le leve per convincere centinaia di milioni di persone a sostenere i piani di ristrutturazione di un capitalismo che solo con le guerre ha risistemato i propri conti e tornaconti.
Se, da un lato, ciò ci dice che il sistema riesce ancora a controllare le sue crisi, dall’altro lato ci avvisa che le criticità del medesimo si fanno sempre più frequenti, perché le alterazioni climatiche e gli squilibri anti-naturali aumentano e non sono gestibili con interventi economici e prebende di alcun tipo. Ci sono forze, che purtroppo non sono sociali, che il capitalismo non potrà fermare e che, per nostra sfortuna, siccome prevedono un azzeramento delle condizioni che hanno portato a questa catastrofe climatica, finiranno per non distinguere tra buoni e cattivi, tra preservatori della natura e sfruttatori della stessa fino al collasso…
La guerra che malediciamo oggi sta, come tutte le altre, dentro questo complicatissimo gioco al massacro globale. Sentirsi impotenti verso questi grandi processi storici e attualistici è normale. Sussumerne il presupposto generale per cui è impossibile muovere la montagna da soli è una vigliacca autoassoluzione. Non servirà risponderne un giorno alla propria coscienza. Anche quella sarà stata spazzata via dalla furia degli elementi.
MARCO SFERINI
17 maggio 2022
Foto di Ricky Gálvez