Non solo lotta di classe per il socialismo del nuovo millennio

Nell’alveo del Po all’acqua si sostituisce la sabbia. La siccità estiva avanza, preoccupa, a volte indigna pure. La condizione salariale dei lavoratori italiani è la più sconsolante d’Europa. In...

Nell’alveo del Po all’acqua si sostituisce la sabbia. La siccità estiva avanza, preoccupa, a volte indigna pure. La condizione salariale dei lavoratori italiani è la più sconsolante d’Europa. In confronto alle retribuzioni francesi, tedesche, olandesi e danesi, quelle italiane sembrano delle paghette da adolescenti: non fosse che per averle tocca sgobbare senza nemmeno avere la certezza di poter andare un giorno in pensione con un minimo di certezza per la propria vecchiaia.

Il Po ha sete, il mondo del lavoro è in secca di diritti fondamentali e un treno, dalla lontana frontiera polacca con l’Ucraina, ai margini dell’Unione monetaria europea, porta Draghi, Macron e Scholtz ad incontrare il battagliero presidente Volodymyr Zelens’kyj che, da 112 giorni a questa parte non fa che chiedere armi sempre più pesanti per fronteggiare l’aggressione russa al suo paese.

La crisi climatica, la pandemia e la guerra si sommano inevitabilmente e, anche se non sembra esservi una correlazione istintivamente subitanea, il letto asciutto del grande fiume, la minaccia di nuovi virus dopo il non ancora passato Covid-19 e i cadaveri per le strade delle città ucraine si tengono per mano in un disastro globale, in una fase liberista in cui alla fine sono sempre le ragioni della grande economia e dell’alta finanza a tenere banco.

Mentre il Po è in crisi di astinenza idrica, mentre Putin taglia i rifornimenti di gas a Germania e Italia facendo salire così il costo delle materie prime anche per la produzione di energia elettrica e mandando a carte e quarantotto tutte le previsioni possibili sul contenimento dei prezzi, sull’inflazione galoppante e sullo scongiuramento del mostro stagflazionistico, la tardiva missione diplomatica italo-franco-tedesca si prefigge di ridurre a miti consigli Zelens’kyj e spingere Kiev a trattare con la Russia.

I fronti aperti sull’instabilità economica tanto europea quanto mondiale sono veramente troppi: quelli imprevedibilmente naturali, come la Covid-19, sono ben al di sotto della soglia di una gestione condivisa mondialmente.

La gestione unilaterale della crisi pandemica ha evidenziato due aspetti realistici e inquietanti al tempo stesso: la messa in discussione del dominio umano sul pianeta, facendo finalmente vacillare un antropocentrismo assoluto attaccato da un microscopico organismo capace di mettere in ginocchio l’economia globale; e, in secondo luogo, la divisione strutturalmente endemica tra i giganti statali che rappresentano gli interessi delle multinazionali che investono in ben precise aree del pianeta e contribuiscono a determinare l’andamento della geopolitica.

E qui si riaggancia il fattore guerra come inseparabile dal resto degli enormi problemi che l’umanità deve affrontare se non vuole ritrovarsi nell’albo della storia dell’universo come quella specie che è sopravvissuta meno di quasi tutte le altre per incapacità di adattamento prima di tutto a sé stessa e dell’ambiente in cui è ospite di minoraza: sterminando oltre 65 miliardi di animali non umani all’anno per un mercato alimentare inostenibile (e dannoso per la salute di ognuno), deforestando e impoverendo ogni ambiente naturale dove la vita mostrava ancora di potersi evolvere.

La guerra in Ucraina è la cartina di tornasole dell’incapacità dei governi di dare una soluzione ai grandi problemi del nostro tempo che, mettiamolo bene in evidenza, sono principalmente i problemi già di domani e per un lungo, lunghissimo periodo di tempo, per tante generazioni che – ci si augura – possano quanto meno sopravvivere all’impoverimento complessivo che saranno costrette ad affrontare su più piani.

La guerra in Ucraina rende del tutto chiaro e lapalissiano come le potenze imperialiste siano costrette ad obbedire ai loro fini, ai loro meccanismi burocratico-affaristici, ai legami stretti tra Stato e mercato, tra interesse pubblico e soverchiante interesse privato e a questo destino non possano sottrarsi.

Non ne deriva una sfiducia totalizzante nei confronti della politica, perché ogni strumento cambia il suo valore d’uso a seconda di chi lo maneggia o di che ne interpreta le funzioni, ma è evidente che la crisi delle democrazie si mostra in tutta la sua modernità nell’incapacità di tenere a freno le prepotenze del capitale, provando a misurare gli eccessi del regime concorrenziale, limitandone gli effetti sulle grandi masse di sfruttati e guardando ad un modello di sviluppo che marginalizzi l’intervento privato nell’economia nazionale.

Quanto meno nazionale. Anche se le difficoltà per l’affermazione quanto meno di economie parallele non sembrano superabili in tempi brevi.

Questi parallelismi dovrebbero significare anzitutto un passaggio dalla spietata concorrenza tra i poli capitalistici strutturatisi nei vari continenti e, quindi, il contenimento anzitutto dell’espansionismo imperialista. Ma la guerra in Ucraina è sempre lì a ricordarci che si tratta solo di teorie, perché nei fatti le grandi potenze statali si combattono e si combatterano anche armi alla mano se gli interessi particolari prevaranno come fulcro di una disperata sopravvivenza nazionale su una visione veramente globale dell’economia e della socialità.

Quindi, si conviene che appare molto lontana a vedersi una cooperazione internazionale finalizzata al contenimento dei giganti dilemmi sulla sopravvivenza tanto nostra quanto del resto della vita sul e del pianeta stesso e, tuttavia, non è questa una ragione per sganciarsi dalla lotta che affermi una alternativa di società fondata sul progressivo ridimensionamento del mercato che, comunque, già oggi deve affrontare il problema delle “eccedenze“.

La Cina per prima ha da anni in agenda una rimodulazione del suo mercato interno per dare un sostegno stabile a quell’espansionismo finanziario e infrastrutturale che ha messo in essere in molti paesi africani e che contende lo spazio economico prima di tutto agli Stati Uniti e, senza ombra di dubbio anche alla Russia di Putin.

La siccità che affligge il Po è una figurina ulteriore del cambiamento climatico, della costante mutazione che cambia radicalmente la vita sul pianeta e che costringerà il capitalismo liberista a fare i conti con sé stesso.

Il problema del socialismo e del comunismo novecentesco avrebbe dovuto essere la scoperta anzitempo dell’inutilità della lotta di classe monotematizzata, fine a sé stessa e tutta incentrata solo sulla mera liberazione dell’umanità da sé stessa. La contraddizione tra capitale e lavoro è stata tardivamente declinata anche nella questione ecologica e ambientale perché gli effetti del grande balzo consumista del ‘900 si sono avuto solo alla fine del “secolo breve“.

Le voci critiche sono apparse di quando in quando, ma inascoltate, lasciate cadere nel vuoto riempito da argomentazioni fieramente classiste, soprattutto dal secondo dopoguerra in avanti, che si sono guardate bene dal porre un freno all’accelerazione innovativa tecnologica e fare della scienza quel prodotto della mente umana al servizio del bene comune e non del profitto imprenditoriale.

E’ andata diversamente, in particolare dopo quegli anni ’70 che ormai sappiamo essere il punto di partenza della fase liberista: quella in cui lo Stato deve essere messo al servizio del privato e quindi stare, prima ancora che alle proprie regole e leggi costituzionali, alla propria etica politica e civile, agli indici di borsa e alle fluttuazioni del mercato finanziario.

La pandemia ha, però, imposto al capitalismo di riconsiderarsi se vuole sopravvivere a tutto scapito dei miliardi di salariati nel mondo. La cosiddetta spinta alla “transizione ecologica” è ovviamente tale perché si rischia altrimenti di non avere alternativa.

Lo scopo del socialismo moderno, se non è potuto esserlo ieri, nel ‘900 operaista e quasi nient’altro, oggi deve essere quello di unire le lotte, di formulare un piano di attacco sociale all’antisociale, ad ogni tentativo di privatizzazione dei servizi essenziali, all’appropriazione di suolo, mare, aria da parte di chi cerca di sfruttare tutto quanto è possibile prima del crollo irreversibile, della coazione che arriverà dalla natura nei confronti di una umanità costretta a cambiare davanti al passaggio da “sopravvivenza” ad “estinzione progessiva“.

La strage dei lavoratori, che non si ferma mai, è uno degli aspetti più drammatici di questo liberismo che contribuisce tanto alla siccità del Po quanto alla guerra in Ucraina e che non si risparmia nemmeno all’interno della prigione pandemica da cui, a ben vedere, ancora decisamente non siamo usciti. Qualcuno prova a mettere le mani avanti: Biden parla agli americani e al mondo di una sicura nuova pandemia. Ci dobbiamo attrezzare, dice il presidente democratico. Ma tutto stiamo facendo tranne che prepararci anche solo all’evenienza di un nuovo legittimo attacco della natura alla nostra specie.

Per noi sarà sempre incomprensibile, ma forse dovremmo metterci in testa che batteri e virus c’erano prima della comparsa dell’uomo sulla Terra e ci saranno anche dopo la nostra scomparsa. Nel frattempo, in questo si spera lungo intervallo di tempo tra nascita e morte della specie umana, possiamo fare qualcosa per evitare che tutto il valore espresso dalla natura e dal pianeta non finisca, come accade oggi, concentrato in poche, privilegiate aree continentali, escludendone la stragrande maggioranza della popolazione.

Le guerre passano e si ripropongono sempre come il fallimento morale ed economico dell’umanità: ma la siccità del Po resta e si aggrava, mentre qualche altro virus è pronto a rinfrescarci la memoria sulla pochezza di quello che pensiamo stabile e certo.

Non sarebbe affatto male se chi critica questo sistema senza se e senza ma incominciasse col mettere insieme i pezzi e valorizzare i tanti movimenti che in questi decenni hanno provato a parlare di “un altro mondo possibile“. Renderlo probabile significherebbe aver finalmente dato al socialismo quell’essenza rivoluzionaria che, da sempre, conserva in sé stesso e che aspetta solo di essere messa a frutto. Per la specie umana, per tutti gli animali non umani e per il pianeta tutto intero.

MARCO SFERINI

16 giugno 2022

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli